Crisi demografica e soluzioni ONU: la soluzione è peggiorare il problema?

L'ONU propone più immigrazione, età pensionabile più alta e automazione per compensare il calo delle nascite. Si ripete il modello che ha creato il problema.

Negli ultimi anni, il dibattito sulla crisi demografica ha assunto toni apocalittici, con scenari da deserto post-industriale in cui il calo delle nascite viene dipinto come una minaccia alla civiltà. Ecco quindi che interviene l’ONU, sempre pronto a dispensare soluzioni illuminanti, suggerendo un mix esplosivo di migrazione di massa, allungamento dell’età pensionabile e una bella iniezione di automazione e intelligenza artificiale. Una formula che, se applicata alla medicina, suonerebbe più o meno così: il paziente ha avuto un collasso per overdose? Bene, aumentiamo la dose.

Partiamo dai dati, perché il catastrofismo demografico, come ogni allarmismo degno di questo nome, si regge su numeri opportunamente selezionati per servire una narrazione funzionale a chi ne trae vantaggio. Negli ultimi cento anni la popolazione mondiale è quadruplicata, passando dai 2 miliardi del 1925 agli 8,2 miliardi di oggi. Per decenni ci hanno raccontato che eravamo troppi, che il pianeta non avrebbe retto, che serviva un controllo delle nascite per non precipitare nella carestia e nel collasso ecologico. Ora, improvvisamente, il problema è l’opposto: le nascite calano e l’umanità rischia di scomparire.

In realtà, la situazione è molto più complessa. Il calo delle nascite è una conseguenza naturale dell’aumento del benessere e dell’istruzione, specialmente femminile. Meno figli significano maggiore investimento su ciascun individuo, crescita della qualità della vita, più opportunità educative. Certo, questo cambia il rapporto tra attivi e pensionati, mettendo a rischio i sistemi previdenziali. Ma non è un destino ineluttabile, né un’emergenza da risolvere con una corsa forsennata alla sostituzione etnica e alla precarizzazione universale.

L’ONU suggerisce tre rimedi per invertire la rotta: flussi migratori più intensi, pensionati che restano a lavorare più a lungo e robot che sostituiscono i lavoratori umani. L’idea di compensare il calo delle nascite con immigrazione massiccia è un’illusione già smentita dai fatti. Gli immigrati non restano giovani per sempre, non fanno più figli degli autoctoni dopo una generazione e, quando provengono da contesti culturali molto diversi, non sempre si integrano nel tessuto economico e sociale del paese ospitante. In molti casi, anziché riequilibrare il mercato del lavoro, creano una fascia di precariato destinata a crescere.

L’aumento dell’età pensionabile è la ricetta preferita di chi non lavora in fabbrica, nei cantieri o nei reparti di ospedale. Facile parlare di “contributo alla società” quando si passa il tempo tra convegni e riunioni di alto livello. Un po’ meno quando si tratta di un operaio di 67 anni costretto a sollevare carichi pesanti o di un infermiere notturno alle soglie dei 70. Ma la logica è sempre la stessa: spremere chi lavora fino all’ultima goccia e poi gettarlo via come un pezzo di ricambio usurato.

La terza soluzione proposta, quella dell’automazione e della robotica, è forse la più surreale. Il problema è che mancano lavoratori? Benissimo, sostituiamoli con le macchine. A quel punto, però, chi compra i prodotti, se il lavoro umano diventa sempre più raro e i salari scendono? La robotica è senz’altro utile in alcuni settori, ma il rischio di una società in cui solo una piccola élite detiene i mezzi di produzione mentre il resto della popolazione sopravvive di sussidi è più reale di quanto si voglia ammettere.

Ciò che nessuno vuole dire è che la crisi demografica non è un problema in sé, ma il sintomo di un modello economico e sociale che non funziona più. Invece di cercare di capire come adattare l’economia a una popolazione che invecchia, si tenta disperatamente di forzare il ritorno a un’epoca in cui la crescita demografica era la norma. E se fosse invece l’occasione per ripensare il modello di sviluppo? Per creare un’economia meno basata sulla crescita infinita e più orientata alla sostenibilità?

Nessuno propone di bloccare l’immigrazione o di fermare l’innovazione tecnologica. Ma affidarsi a questi strumenti come panacea per il calo delle nascite è un errore madornale. Senza una visione complessiva, si rischia solo di aggravare le disuguaglianze, alimentare tensioni sociali e consegnare il futuro nelle mani di chi ha già in tasca le chiavi del sistema. Perché la verità è che la crisi demografica, come ogni altra crisi, non è una minaccia per tutti: c’è sempre qualcuno che sa come trasformarla in un’occasione d’oro.

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Il crollo delle nascite salverà il mondo? Ecco perché la crisi demografica è un’opportunità

di Milena Gabanelli e Francesco Tortora

Negli ultimi 100 anni la popolazione mondiale è quadruplicata passando dai 2 miliardi del 1925 agli 8,2 miliardi del 2024. Una crescita accelerata dal drastico calo della mortalità infantile, dai progressi medico-sanitari e dall’aumento dell’aspettativa di vita globale che ha raggiunto una media di 73,3 anni. Sarebbe dunque naturale attendersi un’ulteriore esplosione demografica entro la fine del secolo, e infatti da tempo si parla di allarme sovrappopolazione. Una paura ben colta dai miliardari della Silicon Valley che invitano a finanziare la colonizzazione del cosmo. In realtà le cose stanno andando diversamente. Le Nazioni Unite presentano periodicamente il «World Population Prospects», rapporto che monitora l’andamento demografico di tutti i Paesi del mondo, e negli ultimi anni è stato necessario aggiornare le previsioni per difetto, perché si cresce sempre un po’ meno di quanto atteso. La ragione numero uno è il crollo del tasso di fertilità. Per mantenere una popolazione costante il numero medio di figli per donna in età feconda dovrebbe essere pari a 2,1. Nel corso dei decenni la media globale è precipitata passando dai 5,1 figli per donna del 1965 a 3,7 nel 1980, a 2,8 nel 2000 e 2,2 nel 2024. Oggi 131 Paesi e aree del mondo sono già sotto la soglia limite (Qui pag. 41), se però li prendiamo singolarmente le tendenze sono diverse. Vediamole nel dettaglio.

I Paesi che già perdono popolazione

Il rapporto dell’Onu divide il pianeta in tre gruppi, e fotografa le prospettive entro i prossimi 30 anni e a fine secolo. Nel primo gruppo ci sono 63 Paesi che hanno raggiunto il picco demografico e dove è già iniziata la fase di declino. Si trovano principalmente in Europa e in Asia, ospitano il 28% della popolazione mondiale: attesa entro il 2054 una perdita di abitanti del 14%. Fra questi c’è la Russia, che ha raggiunto il picco nel 1992 quando contava 149 milioni di abitanti e oggi, nonostante i generosi sussidi a favore della natalità offerti da Putin, ne registra 4 milioni in meno, per scendere a 135 milioni nel 2054. L’Ucraina è passata dai 51,8 milioni del 1995 ai 37 milioni di oggi, e secondo le proiezioni scenderà a 30 milioni nel 2054. Anche l’Italia è in fase discendente: dopo aver raggiunto la punta massima nel 2014 con 60,6 milioni di abitanti, in 10 anni ne ha persi un milione, e la prospettiva a 30 anni è di scendere a 50 milioni, mentre alla fine del secolo nel nostro Paese si conteranno appena 35,5 milioni di abitanti. Germania e Spagna inizieranno a calare da quest’anno, e nel 2054 la popolazione tedesca diminuirà di 7,2 milioni di persone, quella spagnola di 3,8 milioni. Fra le cause che hanno accelerato la decrescita e il crollo del tasso di fertilità ci sono un maggior benessere e il fattore culturale: un miglior accesso alla contraccezione, la donna che decide di concepire più tardi il primo figlio per avere più opportunità di istruzione e lavoro, e la necessità di contribuire al bilancio familiare.

Che succede in Asia

Anche la Cina rientra nel gruppo dei Paesi in calo demografico. È la conseguenza della politica del figlio unico imposta da Deng Xiaoping nel 1979, rimasta in vigore fino al 2013. Ma ormai pure i modelli non sono più quelli rurali e infatti il grande Paese asiatico ha raggiunto il picco demografico nel 2021 con 1,426 miliardi di abitanti, per poi iniziare la fase discendente: in soli 3 anni ha perso 6 milioni di abitanti, e secondo le proiezioni delle Nazioni Unite subirà il più rapido crollo demografico della storia perdendo circa 204 milioni di cittadini nei prossimi 30 anni per arrivare a 638 milioni a fine secolo. C’è il Giappone, che ha raggiunto la massima estensione nel 2010 con 128 milioni di abitanti, oggi sono 124, e nel 2054 ne conterà 102 milioni. La Corea del Sud ha iniziato il declino nel 2021, ma vedrà la sua popolazione diminuire costantemente nei prossimi 30 anni passando dagli attuali 51,7 milioni a poco più di 43 milioni, per dimezzarsi nel 2100.

Chi resiste e chi continua a crescere 

Nel secondo gruppo ci sono 48 Paesi con il 10% della popolazione mondiale che raggiungeranno il picco demografico nei prossimi 30 anni, con una crescita complessiva del 5,3%. Tra questi il Brasile che oggi conta 211 milioni di abitanti e raggiungerà i 215 milioni nel 2054, l’Iran che passerà dagli attuali 91 milioni a 102, la Turchia da 87 a 90 milioni, e il Vietnam da 100 a 110 milioni. Per tutti poi inizierà un lento, ma inesorabile calo.

Infine il terzo gruppo che raccoglie 126 Paesi e in cui vive la maggior parte dell’umanità. In queste aree nei prossimi 30 anni la crescita sarà del 38%, e raggiungeranno quasi tutte il picco demografico entro la fine del secolo. Le nazioni che aumenteranno a ritmo più sostenuto sono quelle dell’Africa subsahariana, che triplicherà la sua popolazione passando dagli attuali 1,2 miliardi a 3,3 miliardi di fine secolo. I numeri più alti si registreranno nella Repubblica Democratica del Congo: da 107 milioni salirà a 429. Poi l’Etiopia, che passerà da 130 milioni a 366 milioni, e la Nigeria, che da 230 milioni salirà a 476. Anche gli Stati Uniti, nonostante il basso tasso di fertilità (1,6 figli per donna), continueranno a crescere, e a fine secolo conteranno 421 milioni di abitanti (più 86 milioni), soprattutto grazie alla capacità di attrarre masse di immigrati. Lo studio sottolinea come, senza l’apporto degli stranieri, nello stesso periodo perderebbero il 36% di popolazione. Fa eccezione l’India, che con i suoi 1,45 miliardi di abitanti è oggi il Paese più popoloso al mondo. Il Subcontinente raggiungerà il picco nel 2060 con 1,7 miliardi, poi inizierà a scendere e alla fine del secolo conterà poco più degli abitanti di oggi, 1,5 miliardi di cittadini.

Chi va controcorrente in Europa

In una posizione intermedia tra il secondo e il terzo gruppo si piazzano Francia e Gran Bretagna, che cresceranno nei prossimi 30 anni e riusciranno a rimanere stabili fino a fine secolo. La Francia salirà dagli attuali 66,5 milioni di abitanti (escluse le province d’Oltremare) a 68,1 milioni, mentre la Gran Bretagna passerà da 69 a 75,8 milioni.

Come mitigare gli effetti negativi

Il record della popolazione mondiale sarà raggiunto a metà degli anni 2080 quando sulla Terra abiteranno 10,3 miliardi di persone, ma da allora in poi inizierà una graduale discesa (10,2 miliardi a fine secolo). Dunque, la crescita complessiva sta rallentando, va a stabilizzarsi, e poi ovunque la curva inizierà una inversione perché si tratta di un processo universale e irreversibile definito «transizione demografica». La prosperità sarà possibile dove il rapporto popolazione-risorse è in equilibrio. Staranno dunque meglio quei Paesi che riusciranno a mantenere un tasso di fertilità di 2,1 figli per donna e quindi in grado di garantire il ricambio della forza lavoro necessario
a sostenere spesa pensionistica e assistenza. In quelli che stanno di parecchio sotto la soglia limite come Germania (1,45 figli per donna), Russia (1,4), Giappone (1,26), Spagna (1,22), Italia (1,21), Cina (1,18), Corea del Sud (0,73), si starà invece peggio. Per mitigare gli effetti negativi della mancanza di ricambio della forza lavoro, il Rapporto Onu suggerisce di attivare da subito strategie volte ad una buona gestione delle politiche familiari e dei flussi migratori e all’implementazione tecnologica per aumentare la produttività (robotica, automazione e intelligenza artificiale). Invita anche a pianificare attività compatibili con le categorie oggi escluse, a partire dai pensionati che possono ancora dare un contributo al mondo del lavoro.

Il picco precoce è un segnale di speranza

In definitiva il picco demografico più precoce – scrivono le Nazioni Unite – è un’opportunità perché scongiura il pericolo di sovrappopolamento, e al tempo stesso costringe a mettere le basi per modelli di sviluppo e consumo più sostenibili. Vuol dire non restare nell’inerzia del modello del secolo precedente, ma avere la capacità di orientare i comportamenti sociali investendo sulla qualità, e non più sulla quantità. Incerte invece sono le conseguenze sul cambiamento climatico: «In teoria il calo della popolazione dovrebbe portare a un minor impatto sull’impronta ecologica – spiega a Dataroom il prof di Demografia e Statistica sociale dell’Università Cattolica Alessandro Rosina –. Ma questa è un’incognita, perché un maggiore benessere porta a maggiori consumi. L’auspicio è che veicoli anche una maggiore consapevolezza». Secondo le stime del Global Carbon Budget nel 2023 le emissioni pro-capite sono state maggiori nei territori più economicamente sviluppati: in Nord America il cittadino medio ha emesso 10,1 tonnellate di CO2, in Europa 6,6, in Asia 4,7, in America Latina 2,5, in Africa 0,96. In sostanza l’equazione: calo della popolazione, meno emissioni, non è automatica e tantomeno scontata.

dataroom@corriere.it

Corriere della Sera, 10 febbraio 2025

 

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