Per quanto fosse tecnicamente impossibile, Bin Rignan è riuscito a rendersi più ridicolo della Santanchè. Le sue lezioni di coerenza sono ancor più comiche di quelle di garantismo della Pitonessa. In Senato sedeva tronfio accanto al suo ultimo ventriloquo, tale Borghi, che declamava le richieste di dimissioni strillate da FdI contro i centrosinistri. E chiudeva col solito chiagni&fotti: voi cattivi volevate cacciare noi, ma noi buoni non vogliamo cacciare voi; anzi, ciascuno si fa i cazzi propri e nessuno chiede più le dimissioni di nessuno; una mano lava l’altra. Il povero Calenda, lì vicino, soffriva in silenzio: lo scandalo Visibilia è troppo persino per lui, ma la tenia che s’è infilato in pancia e gli sta mangiando tutto l’ha messo in minoranza sulla richiesta di dimissioni: robaccia “grillina”. O, per meglio dire, “renziana”. Già, perché il record di richieste di dimissioni non è né del M5S né di FdI: è suo.
Nel 2011, ancora sindaco di Firenze (per la gioia delle altre città), ululava che il bersaniano Penati, indagato per presunte tangenti, “deve rinunciare alla prescrizione e dimettersi da consigliere regionale”.
Nel 2013 voleva sloggiare la Cancellieri, ministra di Letta beccata a trafficare per far scarcerare la figlia di Ligresti, ma non indagata: “Non bisogna aspettare un avviso di garanzia per dimettersi. Se fossi segretario Pd direi sì alla sfiducia”. Come il M5S. Quando il Viminale, retto (si fa per dire) da Alfano, fece deportare in Kazakistan Alma e Alua Shalabayeva, si associò alle mozioni di sfiducia di M5S e Sel contro il ministro non indagato: “Se sapeva, ha mentito ed è un piccolo problema. Se non sapeva, è anche peggio”.
Sempre sotto Letta, chiese la testa delle ministre Idem (inquisita per una microevasione su una palestra) e De Girolamo (indagata per l’Asl di Benevento).
E, divenuto segretario Pd e premier, fece dimettere i suoi ministri Lupi (non indagato per i regali di Incalza al figlio) e Guidi (non indagata per la norma caldeggiata dal fidanzato), i suoi sottosegretari Gentile (non indagato, ma accusato di pressioni su un giornale) e Barracciu (imputata nella Rimborsopoli sarda) e il sindaco veneziano Orsoni (indagato per il Mose). Richetti, inquisito nella Rimborsopoli emiliana, fu indotto a non candidarsi in Regione (poi fu prosciolto). E il sindaco romano Marino fu cacciato prim’ancora di essere indagato per le cene. “Per chi sbaglia non ci sono scappatoie: va stangato… Solo con l’adempimento con onore e disciplina di tutti e ciascuno, partendo da chi ha incarichi di governo fino al cittadino comune, cambieremo il Paese”, tuonava il grillino rignanese il 27.11.2014. Oggi dice agli altri: “Noi non siamo come voi”. Ma dovrebbe comprare una consonante: “Noi non siamo come noi”.
Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2023