Ebbene sì, Cecilia Sala è stata rilasciata. Una buona notizia, sia chiaro, perché nessuno dovrebbe finire in carcere per motivi strumentali. Ma, detto questo, possiamo abbassare per un attimo le trombe celebrative? Perché, se ci fermiamo a osservare l’isteria mediatica che ha accompagnato la sua liberazione, il rischio è quello di soffocare nella retorica di regime.
La Sala è stata subito santificata come paladina del giornalismo libero, eroina moderna della stampa occidentale e simbolo della lotta contro i cattivi del pianeta. Ma, guardando un po’ più da vicino, il quadro si fa meno edificante. Cecilia Sala non è Julian Assange, anche se qualcuno sembra volerle cucire addosso un’aura di martirio per analogia. Assange ha passato cinque anni in carcere e dieci di persecuzioni per aver rivelato al mondo crimini di guerra e misfatti governativi. Sala, al contrario, è stata liberata in pochi giorni, in un silenzio sospetto che sa tanto di accordi dietro le quinte.
Ma chi è, davvero, Cecilia Sala? Basta sfogliare le sue perle giornalistiche per farsi un’idea. Nel novembre 2022, scriveva su Il Foglio che i soldati russi “non avevano nemmeno i calzini”, contribuendo alla narrazione di un esercito allo sbando per giustificare una guerra infinita. O, ancora più clamoroso, quando in TV ci spiegava che quanto sta accadendo a Gaza non è un genocidio, ma un “errore di comunicazione” israeliano.
E come dimenticare la chicca sulla NATO? Sala ci raccontava nel marzo 2024 che l’Alleanza Atlantica si “rafforza a est per scongiurare la guerra mondiale”, ignorando volutamente le parole di esperti come Jeffrey Sachs, che attribuiscono proprio all’espansione della NATO la responsabilità dell’attuale crisi in Ucraina. Sachs e altri autorevoli analisti hanno più volte evidenziato come l’allargamento della NATO verso i confini russi abbia alimentato un pericoloso senso di accerchiamento, violando promesse storiche fatte alla Russia negli anni ‘90 e portando a una destabilizzazione geopolitica. Per Sala, però, è tutto semplice: la NATO è il baluardo della pace, mentre le reazioni russe sono sempre e solo “aggressioni”. Una narrazione di comodo che sposa senza esitazioni la propaganda occidentale, ignorando le radici storiche e politiche del conflitto.
Questa è l’eroina che ci vogliono vendere: una giornalista che ha fatto della banalizzazione e della propaganda un mestiere.
E ora? Ora parte la grancassa mediatica. La Sala sarà ospite fissa su tutti i talk show, le verrà probabilmente assegnato un premio giornalistico e, perché no, una candidatura al Parlamento europeo. Perché, si sa, in Italia basta un episodio del genere per costruirsi una carriera politica o istituzionale. E, nel frattempo, tutti si dimenticano dell’altro lato della medaglia: l’ingegnere iraniano Alireza Abedini, detenuto in Italia su ordine degli Stati Uniti senza che nessuna accusa concreta sia stata mai formalizzata. Nessuna grancassa per lui. Nessun talk show. Nessuna campagna sui social. Perché, a quanto pare, i diritti umani valgono solo quando si tratta di personaggi utili alla narrazione occidentale.
E qui arriva la perla finale: il ruolo del governo italiano. Giorgia Meloni non si è lasciata sfuggire l’occasione di vantarsi della liberazione di Sala, facendo trapelare che il viaggio a Mar-a-Lago da Trump fosse collegato alla questione. In realtà, sembra sempre più evidente che il viaggio lampo avesse ben altre motivazioni: un accordo con Elon Musk, condito con cessioni strategiche a favore degli USA e un bel pacco di denaro pubblico. Il tutto, naturalmente, senza dire una parola al Parlamento o al popolo italiano. Una sceneggiata degna del miglior teatro dell’assurdo.
Cecilia Sala è libera, ed è un bene. Ma, prima di alzare monumenti, chiediamoci: questa liberazione è stata frutto di una trattativa trasparente o l’ennesimo episodio di servilismo geopolitico? E soprattutto: vogliamo davvero un’informazione fatta di giornalisti che trasformano la propaganda in eroismo? Festeggiamo, sì, ma fermiamoci qui. Oltre, c’è solo da rabbrividire.