C’è una scena fissa nel teatro della politica e della cultura italiana: un popolo da operetta che applaude o fischia a comando, sempre pronto a lasciarsi guidare dalla narrativa del momento come un gregge ben addestrato. La storia insegna, ma gli italiani sembrano volerla ignorare a tutti i costi. La loro inclinazione a bersi ogni verità preconfezionata, ogni indignazione artificiale, è degna dei migliori copioni di propaganda. Sono pecore travestite da cittadini critici, con il cervello in folle e il cuore facilmente infiammabile al suono della giusta parola d’ordine. Basta un fischietto dall’alto, e subito scatta l’applauso o il “buu” di rito, senza che nessuno si prenda la briga di chiedersi il perché. Gullible fino al midollo, questi spettatori con la pretesa di essere protagonisti si lasciano condurre dal potere come marionette sul filo, applaudendo i nuovi eroi della moralità selettiva e condannando chiunque il copione del giorno abbia trasformato in nemico. Un esercito di anime belle che si crede raffinato e colto, ma che non è altro che un gregge ben vestito, sempre pronto a belare sotto il riflettore di turno.
Alla prima della Scala di Milano si è consumato l’ennesimo spettacolo del degrado culturale travestito da reazione morale. Una marea di “buu” diretti contro la soprano russa Anna Netrebko, un’esecuzione a freddo di una donna la cui colpa, evidentemente, è soltanto quella di essere nata in una terra oggi demonizzata. Un pubblico in abito da sera, con il volto ben disteso dalle rughe della rispettabilità borghese, che si trasforma nella più becera curva da stadio. Non ci sono stati distinguo, non ci sono state le celebrazioni dei valori universali dell’arte e della cultura, nemmeno un momento di imbarazzo per l’umiliazione inflitta a una professionista. La macchina della propaganda, ormai, ha triturato anche il senso del decoro.
Una tragedia in tre atti: la guerra, la propaganda, e l’idiozia collettiva. È fin troppo chiaro che ciò che avviene sul palco non è separato da ciò che avviene sui giornali, nei talk show e nelle stanze dei bottoni. Una reazione irrazionale e violenta, figlia di una narrazione che non si accontenta di avere nemici militari, ma li vuole anche culturali. La soprano diventa un bersaglio utile, un simbolo della nuova ortodossia. Non c’è spazio per l’arte, per il giudizio individuale, per la complessità del reale: tutto è risucchiato nel gorgo di una guerra dove anche l’identità culturale va purgata e demonizzata. Dostoevskij lo sappiamo: se fosse vivo oggi, dovrebbe cercare rifugio altrove, lontano da queste anime belle pronte a espellere chiunque non rientri nei parametri della nuova moralità di guerra.
Un tempo si diceva che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai generali. Ma adesso pare sia diventata troppo seria per lasciarla fuori dai teatri, dalle biblioteche, dalle università. È diventata l’unica lente attraverso cui filtrare ogni aspetto della vita pubblica e privata. La soprano russa, con il suo timbro e la sua tecnica impeccabile, non poteva avere la pretesa di essere solo una cantante: doveva espiare la sua origine geografica. Un passaporto che pesa come una colpa. Si potrebbe definire un cortocircuito della cultura occidentale, se solo ci fosse ancora una cultura occidentale da rispettare e non solo una sequenza di rituali di appartenenza e fedeltà al dogma del momento.
Il peggio di questa faccenda non sono i “buu”, ma il silenzio che li ha circondati. Non una parola da chi dovrebbe vigilare contro l’odio e le discriminazioni, nemmeno da quella commissione presieduta da Liliana Segre, un’istituzione che, a rigor di logica, dovrebbe essere pronta a denunciare qualsiasi forma di razzismo e odio. Ma forse siamo stati troppo ingenui a pensare che la condanna dell’odio fosse universale, che non conoscesse confini geopolitici. La sordità istituzionale suona quasi come una conferma: esistono discriminazioni accettabili, forse perfino auspicabili, se dirette contro i nemici giusti. Un “razzismo buono”, perfettamente compatibile con la retorica liberal-atlantista. E così ci ritroviamo con una parte dell’opinione pubblica pronta a denunciare i più piccoli rigurgiti di intolleranza interna, ma perfettamente indifferente, se non compiaciuta, davanti alla gogna pubblica riservata a una cittadina russa.
Non sorprende, d’altronde, se si pensa a come sono stati trattati gli intellettuali russi negli ultimi anni. Dostoevskij, bandito dalle università per un supposto peccato originale di russofilia; Tchaikovsky, scomparso dai programmi dei concerti per non turbare le nuove sensibilità occidentali. Una riscrittura della cultura a suon di censure e divieti, degna dei peggiori regimi che si pretende di combattere. Il teatro della Scala, simbolo di un’eccellenza artistica secolare, si trasforma in una tribuna di sfogo per un pubblico che di quella cultura sembra ormai solo un riflesso opaco. E non serve a nulla appellarsi alla tradizione, al prestigio, alla storia di quel luogo: anche lì la ragione è stata sconfitta sul campo di battaglia.
È lo stesso meccanismo che abbiamo visto all’opera in altre latitudini, con le stesse dinamiche e gli stessi esiti. Neonazisti buoni in Ucraina, jihadisti democratici in Siria: il mondo si rovescia ogni volta che la propaganda trova un nuovo obiettivo da giustificare. Non importa più la realtà, non importa più il giudizio etico universale. Importa solo che il nemico di oggi sia schiacciato e delegittimato in ogni forma possibile, dall’economia alla cultura, dal linguaggio ai simboli. Una guerra totale che non risparmia nemmeno le arie d’opera.
Il livello di propaganda ha raggiunto vertici di sofisticazione degni di un thriller ben architettato. Le variabili sono tutte controllate, i treni arrivano puntuali alla stazione della manipolazione. Non si lascia spazio all’inconveniente della riflessione critica. Il pubblico della Scala, così rispettabile e ben educato, ha semplicemente recitato la sua parte nella sceneggiatura scritta per loro. Il nemico è stato fischiato, la missione è compiuta. Gli scambi ferroviari sono stati azionati al momento giusto: una cantante russa umiliata, una folla soddisfatta di aver dato il suo contributo alla causa. E la ragione, ancora una volta, è stata travolta senza troppi rimpianti.