di Massimo Fini
In Parlamento si è aperto un dibattito sulla sigaretta elettronica. Si discute se sia davvero utile per “eradicare” (nel loro linguaggio da collitorti i medici hanno scritto proprio così invece di sradicare) il vizio del fumo, quello vero di chi sta sempre come Humphrey Bogart di Casablanca con la sigaretta in bocca tenuta leggermente di lato (un mito allora in tempi un po’ meno tremebondi). Il fumo, quello vero fortunatamente non è ancora proibito in Italia, se all’aperto.
In Giappone, che segue la linea proibizionista anche per il fumo vero, quello delle sigarette, hanno scelto una soluzione intelligente ma straniante. Tu cammini per le strade di Tokyo e non vedi una sola persona che fuma (i giapponesi sono radicali in questo proibizionismo di derivazione yankee) ma a un certo punto sulle più importanti strade di Tokyo vedi trenta persone immobili, con lo sguardo fisso davanti a sé, che fumano, stando molto attenti a non valicare una linea disegnata sul marciapiede che segna il confine.
Nel dibattito parlamentare è saltato fuori che il fumo delle sigarette elettroniche (in termini tecnici E-Cig; di quello naturale, normale non se ne parla neanche, è il diavolo incarnato), anche all’aperto, non dovrebbe essere ammesso davanti ai bar, alle fermate dei tram e persino nei parchi se c’è una donna incinta. Ottima occasione: io vado in giro per i parchi a tastare il ventre di quelle più graziose senza cadere nemmeno nel divieto sessuofobico in stile #MeToo (i Talebani in questo senso sono veri paladini della libertà perché da quelle parti si fuma come a ognuno pare e piace).
In realtà questa storia del fumo sia E-Cig sia in atteggiamento Bogart, che ha aspetti esilaranti, si inserisce nel grande dibattito di quello che io ho chiamato il “terrorismo diagnostico”. Nella nostra società non esiste più l’uomo sano, sostituito da quello “a rischio”, un’espressione che fa venire i brividi. Sono “a rischio” anche i bambini, figli di genitori “a rischio”, cioè sanissimi ma che in futuro potrebbero sviluppare ipoteticamente alcune patologie. E allora si impedisce loro di mangiare le merendine, i dolci, i salami. Siamo tutti “a rischio”. Del resto è ovvio: è vivere che ci fa morire.
Qualsiasi età si abbia bisogna controllarsi, palpeggiarsi, auscultarsi, bisogna stare a dieta, fare almeno sei controlli l’anno. Non si può fumare, non si può bere, non si può più ingrassare, al limite, sempre in nome della salute non si dovrebbe nemmeno scopare se non al minimo. Alle volte non si dovrebbe nemmeno respirare, come consigliava il famoso oncologo Umberto Veronesi in un grottesco decalogo di qualche anno fa. Secondo Veronesi (che poi novantenne andava giù pesante col Viagra) per non inalare l’inquinamento provocato dalla produzione industriale, in certe ore del giorno e in certe città, noi non dovremmo nemmeno respirare. Cioè, invece di abbattere il mostruoso Ambaradan che ci siamo costruiti, mortale dal punto di vista ambientale, disumano da quello esistenziale, l’uomo non dovrebbe più respirare, in omaggio ai soli Iddii unanimemente riconosciuti, il Progresso, la Tecnica, l’Economia, le ancelle gemelle, queste due ultime, dell’Iddio di tutti gli iddii: la Modernità. Dobbiamo vivere ibernati, vecchi fin da giovani. Insomma per la paura della morte noi ci impediamo di vivere.
Ma da dove ci viene questa abietta paura della morte? Dal passaggio dal mondo contadino a quello urbano. Nella società agricola, premoderna, l’uomo viveva in intimo contatto con la natura e, attraverso il ciclo seme-pianta-seme, era consapevole che la morte non è solo la conclusione inevitabile della vita, ma è la precondizione della vita. L’uomo sentiva di far parte di un tutto, di un destino più ampio, della sua famiglia, della comunità di villaggio, della specie, della Natura stessa, in cui la sua vita e la sua morte si scioglievano nell’eterno gioco del passaggio di testimone tra generazioni, fra i vecchi e i giovani. Ma questi motivi, che consentivano all’uomo di ieri di accettare la morte con una certa serenità, sono, capovolti, gli stessi che lo impediscono a noi. Noi viviamo lontano dalla Natura, a contatto con oggetti che non si riproducono ma semmai si sostituiscono, e alla cui sorte ci sentiamo sinistramente omologhi, abbiamo perso il senso di un destino collettivo e quindi sentiamo la nostra morte come un evento esclusivamente individuale, definitivo, radicale, assoluto e quindi totalmente inaccettabile. Ma, come diceva il vecchio e saggio Epicuro: “Muore mille volte chi ha paura della morte”.
Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2023