Alla fine, è andata esattamente come prevedibile: Volodymyr Zelensky ha fatto la voce grossa con Donald Trump, si è scontrato davanti alle telecamere con il nuovo padrone di Washington, ha visto la porta della Casa Bianca sbattergli in faccia e ha capito che i giorni dell’eroe in mimetica erano finiti. Risultato? Si è rimesso in riga, ha accettato la svendita delle risorse minerarie ucraine agli Stati Uniti e ha persino annunciato che potrebbe dimettersi. Ma solo a una condizione: l’ingresso dell’Ucraina nella NATO.
Questa è la sintesi dell’ultima tragicommedia geopolitica che si è consumata nel fine settimana tra Londra e Washington. Dopo il fallimento spettacolare dell’accordo sulle risorse naturali ucraine, saltato in diretta mondiale a causa del litigio tra Zelensky e Trump, ora il presidente ucraino torna con il cappello in mano, dichiarandosi pronto a firmare. Non perché abbia improvvisamente cambiato idea, ma perché ha capito che il tempo stringe e che, senza il sostegno americano, il suo futuro politico è appeso a un filo.
Dopo due giorni a Londra, dove i leader europei hanno cercato di salvare le apparenze con le solite dichiarazioni altisonanti sulla difesa della democrazia, Zelensky ha parlato con i giornalisti prima di imbarcarsi per Kiev. E il messaggio era chiaro: l’accordo minerario con gli Stati Uniti è ancora in piedi, nonostante tutto. “La nostra politica è quella di continuare, indipendentemente da ciò che è successo in passato”, ha detto con la faccia di chi ha appena ricevuto una lezione dura e inequivocabile.
Traduzione: ho provato a tenere il punto, mi è andata male, adesso firmo e non faccio più storie. Il leader ucraino ha fatto intendere che Trump ha bisogno di tempo per “analizzare certe cose”, ma che alla fine entrambi i paesi sono pronti a procedere. In altre parole, l’accordo che concede agli Stati Uniti il diritto di sfruttare le risorse naturali ucraine verrà firmato, probabilmente senza altre scene madri.
Perché tanta fretta? Perché Zelensky ha capito che ormai è sotto esame. Lo ha detto chiaramente Mike Waltz, consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, quando ha spiegato che a Washington si stanno facendo domande sulla capacità di Zelensky di “portare l’Ucraina alla fine della guerra”. Se non è in grado di farlo, ha aggiunto il senatore Lindsey Graham, allora “forse è il caso di trovare qualcun altro”.
Ecco perché Zelensky ora gioca la carta delle dimissioni. Ma lo fa con una condizione precisa: se l’Ucraina entra nella NATO, lui se ne va. Una frase che suona come un ricatto ai suoi stessi alleati, un modo per dire “datemi quello che voglio o me ne vado”.
Ovviamente, la NATO non ha la minima intenzione di accettare Kiev nel bel mezzo di una guerra con la Russia. Lo sanno tutti, incluso Zelensky. La sua dichiarazione è una mossa disperata, un tentativo di mettere pressione su Washington e Bruxelles per ottenere in extremis qualche garanzia sulla sua sopravvivenza politica.
Ma la verità è che il suo margine di manovra si è ridotto a zero. Trump ha già fatto capire che vuole chiudere la guerra con un negoziato, e non gli interessa se Zelensky è d’accordo o meno. Gli europei, dal canto loro, si sono stancati di giocare a fare i protagonisti e ora si limitano a rincorrere gli eventi. Il primo ministro britannico Keir Starmer ha parlato di un “momento cruciale” per la sicurezza dell’Europa e ha annunciato una “coalizione dei volenterosi” per presentare un piano di pace a Trump. Tradotto: gli europei hanno capito che la partita si gioca a Washington e cercano disperatamente di restare rilevanti.
Nel frattempo, Zelensky rimane sempre più isolato. È passato dall’essere l’uomo più cercato e acclamato dai leader occidentali a una pedina sacrificabile su una scacchiera dove non decide più niente. Gli Stati Uniti lo hanno umiliato pubblicamente, i Repubblicani lo trattano ormai come un ostacolo e gli alleati europei cercano di capire come gestire il post-Zelensky senza perdere troppo la faccia.
In questa situazione, l’unica mossa che resta a Zelensky è quella di firmare tutto quello che gli mettono davanti. L’accordo sulle risorse minerarie è solo l’inizio: cederà il controllo su tutto ciò che potrà servire a garantirgli qualche altro mese di potere.
Alla fine, il destino del presidente ucraino si deciderà a Washington. Se Trump deciderà che può essere utile nel processo di pace, gli concederà di restare un po’ più a lungo. Se invece dovesse diventare un problema, lo sostituiranno con qualcuno più malleabile.
Quello che è certo è che l’Ucraina, ancora una volta, non avrà voce in capitolo sul proprio futuro. Prima era un campo di battaglia per una guerra tra Russia e NATO, ora è una merce di scambio nei negoziati tra Trump e Putin. Zelensky, nel tentativo di rimanere in sella, sta svendendo il suo paese. Ma il punto è che nessuno, né a Washington né a Mosca, né tantomeno a Bruxelles, sta più scommettendo su di lui. Il sipario sta calando, e il comico diventato presidente rischia di essere l’ultimo a rendersene conto.