Siria, il ritorno dei fantasmi

Dopo quattordici anni di guerra civile, centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e un Paese devastato, qualcuno credeva davvero che con la rimozione di Bashar al-Assad si fosse risolto tutto?

Dunque, riepiloghiamo: dopo quattordici anni di guerra civile, centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e un Paese devastato, qualcuno credeva davvero che con la rimozione di Bashar al-Assad si fosse risolto tutto? Che il problema fosse unicamente il tiranno, e non un sistema di potere radicato, una complessità etnico-religiosa esplosiva e una geopolitica che fa della Siria una scacchiera per i giochi di potenza altrui?

Adesso ci risiamo. Le forze di sicurezza della nuova Siria combattono contro ciò che resta dei fedelissimi del vecchio regime, e come sempre chi ci rimette è la popolazione civile. Latakia e Tartous sono in fiamme, i morti si contano a centinaia, e il governo di Ahmed al-Sharaa—quello che avrebbe dovuto portare la pace dopo la tempesta—si trova a fronteggiare la realtà: i fantasmi del passato non se ne vanno con un colpo di mano, né con le dichiarazioni di principio.

“Vi daremo un processo equo”, dice il presidente al-Sharaa. Certo, come no. Parole che suonano più come una minaccia che come una promessa. Chi si immagina davvero un tribunale equo per i residui del vecchio regime? Dopo quattordici anni di sangue, chi ha voglia di aspettare processi e verdetti? È la vendetta a guidare la mano di chi combatte ancora, non certo la giustizia.

Intanto, gli stessi che fino a ieri invocavano la caduta di Assad adesso scoprono l’altra faccia del problema: mantenere il potere è sempre più difficile che conquistarlo. “Serve moderazione da tutte le parti”, implora il solito burocrate dell’ONU. Qualcuno gli spieghi che la moderazione in Siria è un concetto astratto, come la diplomazia, la pace o il rispetto del diritto internazionale. Qui si combatte per il potere, per la sopravvivenza, per il controllo dei territori e delle risorse. E soprattutto per le vendette rimaste in sospeso.

La caduta di Assad è stata venduta come la fine di un’epoca. La verità è che non è cambiato nulla. Lo sanno benissimo a Mosca, dove i russi non hanno mai davvero mollato la presa e oggi offrono rifugio ai reduci del vecchio regime nella base di Khmeimim. Lo sanno in Iran, che da anni tesse le sue trame tra Damasco, Hezbollah e milizie varie. E lo sanno anche gli israeliani, che osservano da vicino, pronti a colpire se necessario.

La verità è che nessuno ha fatto i conti con la realtà più semplice: il regime di Assad non era un incidente della Storia, ma il risultato di una struttura di potere che in Siria resiste da decenni. Se lo rovesci senza avere un piano credibile per il dopo, ottieni solo il caos. Esattamente quello che sta accadendo ora.

Al nuovo governo restano due strade: reprimere con la violenza, rischiando di alienarsi gli stessi Alawiti che fino a ieri erano il blocco di potere del regime, oppure avviare un improbabile processo di pacificazione che nessuno vuole veramente. Qualcuno dice che che “Bisogna rispondere con decisione senza alienare gli Alawiti”. Ah, certo, come se fosse facile. E come se gli Alawiti potessero mai fidarsi di chi li ha appena privati del potere.

Intanto, l’Occidente osserva da lontano, perché la Siria non fa più notizia. Dopo anni di interventi fallimentari, proclami a vuoto e piani di pace mai realizzati, chi governa in Europa e negli Stati Uniti ha ben altro a cui pensare. Nessuno vuole un’altra crisi siriana, eppure eccola qui, di nuovo sul tavolo, con gli stessi problemi di sempre e gli stessi attori pronti a ricominciare la partita.

“È un’ingiustizia”, diranno in molti. No, è solo la Storia che si ripete. E la Storia, si sa, non perdona chi non ha imparato niente.

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