L’invasione americana dell’Iraq del 2003, giustificata con prove inesistenti sulle armi di distruzione di massa, ha scatenato un caos pianificato che ha devastato il Medio Oriente e alimentato il terrorismo globale. Le conseguenze di questa strategia, volta a destabilizzare la regione per rafforzare l’egemonia di Israele e degli Stati Uniti, includono milioni di morti, profughi e il consolidamento del jihadismo. Da lì, il modello si è esteso ad altri scenari, come l’Ucraina, dove le guerre per procura e le ingerenze occidentali hanno alimentato nuovi conflitti globali. Dietro questi eventi si nascondono le élite transnazionali e il complesso industriale-militare, che utilizzano la politica e i media per manipolare l’opinione pubblica, consolidando un sistema di controllo globale basato su guerre, sfruttamento e sorveglianza.
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La storia dell’invasione americana dell’Iraq del 2003 è una lezione magistrale su come un progetto geopolitico si possa travestire da missione salvifica, salvo rivelarsi una catastrofe annunciata. Una sceneggiatura scritta nei think tank di Washington e messa in scena con precisione certosina, utilizzando le stesse tecniche che Hollywood ha esportato al mondo: pathos, eroi tragici e un nemico oscuro da combattere. Gli attori, purtroppo, non sono comparse ma milioni di vite spezzate.
La minaccia che non c’era
L’11 settembre 2001 è il giorno che cambia tutto. Mentre l’America piange i suoi morti, una narrazione emerge con forza: i terroristi islamici non sono solo un nemico, sono il nemico. Da quel momento, la strategia statunitense inizia a disegnare i contorni di una “Guerra al Terrore” che, paradossalmente, non è mai stata tanto utile agli stessi jihadisti. L’Iraq di Saddam Hussein, già indebolito dalle sanzioni e dalla Guerra del Golfo del 1991, viene scelto come bersaglio primario.
Nel 2002, il vicepresidente Dick Cheney, il vero regista dell’amministrazione Bush, si appropria di un documento elaborato da Bernard Lewis, il teorico della “balcanizzazione” del Medio Oriente. L’idea non è sradicare il terrorismo, ma sfruttarlo per creare un caos controllato. La giustificazione ufficiale è ridicola nella sua gravità: l’Iraq possiede armi di distruzione di massa. Le prove? Un flacone di antrace agitato davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU da Colin Powell e dossier fasulli, compresi quelli fabbricati da fonti italiane.
Nel marzo del 2003, nonostante l’opposizione di Francia, Germania e Russia, gli Stati Uniti guidano la coalizione dei “volenterosi” nell’invasione dell’Iraq. La missione è chiara: eliminare Saddam Hussein, esportare la democrazia e pacificare il Medio Oriente. Obiettivi nobili, se non fosse che il copione prevedeva un finale tragico.
La farsa dell’esportazione democratica
L’occupazione dell’Iraq si rivela un disastro fin dal primo atto. Baghdad cade rapidamente, ma il “dopo” è un vuoto spaventoso. La decisione di sciogliere l’esercito iracheno e di de-baathizzare l’amministrazione civile crea un terreno fertile per il caos. Milioni di iracheni, privati di stipendio e prospettive, si trovano improvvisamente senza uno Stato funzionante. È qui che germoglia il seme dell’ISIS: ex ufficiali baathisti, umiliati e marginalizzati, trovano nel jihadismo una via per la rivalsa.
Il progetto democratico diventa un teatro dell’assurdo. Mentre gli americani proclamano elezioni libere, fomentano rivalità settarie, dividendosi il paese in “zone di influenza”. La retorica dei “diritti umani” si scontra con la brutalità degli abusi a Abu Ghraib e con le bombe a grappolo sganciate senza pietà.
E intanto, il petrolio. Perché, non dimentichiamolo, l’Iraq possiede la quinta riserva di greggio più grande al mondo. Le multinazionali americane, Eni esclusa, ottengono concessioni d’oro. Un regalo al complesso industriale-militare che da decenni detta la politica estera statunitense.
Un caos pianificato
La destabilizzazione dell’Iraq non è un errore di calcolo, è il risultato voluto. Distruggere l’equilibrio regionale serve a Israele per emergere come unica superpotenza nel Medio Oriente. “Grande Israele” non è solo uno slogan, è una strategia. L’Iraq disintegrato è il primo passo di un domino che deve coinvolgere Siria, Libano e, ovviamente, Iran. L’obiettivo? Eliminare ogni potenziale avversario e blindare la sicurezza di Tel Aviv.
A Washington, Cheney e soci osservano soddisfatti: il terrorismo non diminuisce, ma prolifera. Il jihadismo, paradossalmente, diventa un’arma nelle mani di chi pretende di combatterlo. In Siria, le stesse tecniche utilizzate in Iraq vengono replicate. I ribelli sono foraggiati, le città distrutte, il caos regna sovrano.
Le conseguenze globali: dal Medio Oriente al mondo intero
L’invasione dell’Iraq del 2003 ha scatenato un effetto domino devastante, che ha coinvolto non solo il Medio Oriente ma anche il resto del mondo. Quello che inizialmente sembrava un intervento militare circoscritto, mirato a destituire un dittatore e instaurare una democrazia, si è rivelato un disegno geopolitico di lungo termine, i cui effetti sono visibili ancora oggi.
La nascita di un nuovo terrorismo
L’Iraq post-Saddam si trasforma rapidamente in un incubatore del jihadismo globale. Mentre Al Qaeda, inizialmente estranea al territorio iracheno, trova terreno fertile nelle tensioni settarie, un nuovo mostro emerge: lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS). Questo gruppo estremista non è solo un prodotto del caos iracheno, ma una conseguenza diretta delle politiche americane nella regione.
La strategia americana di fomentare divisioni etniche e religiose, unita alla marginalizzazione sistematica della popolazione sunnita, crea le condizioni ideali per la radicalizzazione. Nel 2014, l’ISIS conquista Mosul e dichiara la nascita di un califfato. Immagini di decapitazioni e distruzioni di siti storici diventano il simbolo di un Medio Oriente ormai fuori controllo.
La propaganda americana di esportazione della democrazia si sgretola di fronte a questa realtà. I costi umani sono spaventosi: centinaia di migliaia di morti civili, milioni di sfollati, intere città rase al suolo. Ma i veri responsabili siedono nei palazzi del potere occidentali, lontani dagli orrori che hanno contribuito a creare.
La Siria e il prolungamento del disastro
Il caos iracheno si riversa inevitabilmente sui paesi vicini. La Siria, già fragile, diventa il prossimo obiettivo di una destabilizzazione orchestrata. Quando scoppia la guerra civile nel 2011, gli Stati Uniti e i loro alleati regionali, in particolare Arabia Saudita* e Turchia**, iniziano a sostenere gruppi ribelli che si rivelano poco più che milizie jihadiste.
Anche qui, la strategia è chiara: smantellare il regime di Bashar al-Assad per indebolire l’Iran, storico alleato della Siria. Il risultato? Un’altra tragedia umanitaria di proporzioni epiche. Aleppo, Homs, Raqqa: nomi che diventano sinonimi di distruzione totale. Ancora una volta, a pagare il prezzo più alto sono i civili.
L’intervento russo a fianco di Assad nel 2015 segna un punto di svolta. Mosca, a differenza degli Stati Uniti, decide di difendere il suo alleato strategico. Questo non solo complica ulteriormente la situazione in Siria, ma riporta la Russia al centro del panorama geopolitico globale, creando una nuova Guerra Fredda che si combatte su più fronti.
La destabilizzazione globale
Il caos generato in Medio Oriente si riflette ben oltre i confini regionali. In Europa, l’ondata di profughi provenienti da Iraq e Siria mette a dura prova i sistemi di accoglienza, alimentando il populismo e l’estrema destra. Le immagini di barconi sovraccarichi e di bambini annegati diventano il simbolo di un’Europa incapace di gestire le conseguenze delle guerre che ha contribuito a sostenere.
Gli attacchi terroristici colpiscono il cuore dell’Occidente: Parigi, Bruxelles, Londra. L’ISIS rivendica una serie di attentati che seminano paura e odio. Ma il vero colpo di genio della narrazione occidentale è quello di spostare l’attenzione: i responsabili non sono le politiche imperialiste che hanno generato il terrorismo, ma il “nemico esterno”, lo straniero, il rifugiato.
Negli Stati Uniti, il terrorismo viene strumentalizzato per giustificare un’ulteriore militarizzazione della società e un controllo sempre più invasivo sulle libertà civili. La “Guerra al Terrore” diventa un’industria a sé stante, capace di generare profitti astronomici per il complesso militare-industriale.
Il ruolo di Israele e la “Grande Israele”
Nel frattempo, Israele osserva e trae vantaggio. Il caos in Iraq e Siria elimina due dei suoi principali avversari nella regione. Le tensioni settarie dividono il mondo arabo, lasciando Tel Aviv come unica potenza stabile e capace di influenzare le dinamiche regionali.
Il progetto di una “Grande Israele” non è più un sogno lontano. Con il sostegno incondizionato degli Stati Uniti, Israele continua a espandere i suoi insediamenti nei territori occupati, mentre si prepara a neutralizzare la minaccia iraniana. I bombardamenti in Siria, le tensioni con Hezbollah in Libano, le provocazioni nei confronti di Teheran: tutto converge verso un unico obiettivo.
Dalla destabilizzazione mediorientale alla nuova Guerra Fredda
Se l’Iraq e la Siria hanno rappresentato i primi capitoli di una strategia americana per il caos controllato, il passaggio successivo è stato altrettanto calcolato: trasformare l’instabilità regionale in uno strumento per contenere i rivali globali, Russia e Cina. Non è un caso che la parabola degli interventi occidentali in Medio Oriente coincida con l’ascesa di questi due giganti sullo scacchiere mondiale.
L’Ucraina come nuovo teatro
L’invasione dell’Iraq del 2003 e la successiva destabilizzazione della Siria hanno fornito agli Stati Uniti un banco di prova per affinare le loro tattiche di ingerenza. Quando nel 2014 scoppia la crisi in Ucraina, il copione è già rodato. La narrativa ufficiale dipinge Mosca come l’aggressore, ignorando il ruolo attivo degli Stati Uniti e dell’Unione Europea nel sostenere il colpo di stato di Maidan, che rovescia il governo filo-russo di Viktor Yanukovych.
L’Ucraina diventa così il nuovo epicentro di una guerra per procura. I finanziamenti americani ai battaglioni neonazisti come il famigerato Azov, l’addestramento militare e l’invio di armi segnano un’escalation che porterà inevitabilmente al conflitto aperto del 2022. Come in Iraq, anche qui la strategia è destabilizzare per dominare, utilizzando forze locali come pedine di un gioco molto più ampio.
Le conseguenze sono devastanti: un conflitto che devasta il cuore dell’Europa e un’escalation senza precedenti nelle tensioni tra NATO e Russia. Ancora una volta, la popolazione civile paga il prezzo più alto, mentre i profitti delle industrie belliche occidentali raggiungono nuovi record.
L’ascesa della Cina e la risposta americana
Parallelamente, la Cina emerge come una superpotenza economica e militare, sfidando apertamente l’egemonia americana. Il progetto della Belt and Road Initiative (BRI), un colossale piano infrastrutturale che collega Asia, Europa e Africa, rappresenta una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti. La risposta americana è prevedibile: isolare Pechino attraverso una rete di alleanze regionali e provocazioni dirette.
Taiwan diventa il nuovo terreno di scontro. Le visite ufficiali di rappresentanti americani, gli annunci di vendite di armi e le esercitazioni militari nell’area sono chiaramente diretti a provocare una reazione cinese. Anche qui, il copione è quello già visto: creare una crisi per giustificare un intervento, mantenendo il controllo su una regione strategica.
Le colonie europee e il doppio gioco dell’Occidente
In tutto questo, l’Europa si conferma un attore subalterno. I governi europei, incapaci di una politica estera indipendente, seguono fedelmente le direttive di Washington. Le sanzioni contro la Russia e la rottura dei rapporti economici con Mosca penalizzano soprattutto l’economia europea, mentre gli Stati Uniti ne traggono enormi benefici. L’aumento del costo dell’energia spinge molte imprese europee a delocalizzare negli USA, rafforzando ulteriormente l’economia americana.
Nel frattempo, i governi europei affrontano l’ennesima crisi dei rifugiati, questa volta provenienti dall’Ucraina. Ancora una volta, il disastro umanitario generato da guerre per procura viene scaricato su un’Europa già provata dalle crisi precedenti. Ma le élite europee, lontane dal mettere in discussione il loro ruolo di vassalli, si limitano a eseguire gli ordini.
Il controllo delle narrazioni
La forza principale dell’Occidente risiede nella sua capacità di controllare le narrazioni. I social media, creati e dominati da colossi americani, sono strumenti perfetti per manipolare l’opinione pubblica. La propaganda, una volta affidata ai giornali e alle televisioni, oggi si diffonde capillarmente attraverso Facebook, Twitter e altre piattaforme. La censura delle voci dissidenti e la manipolazione delle informazioni garantiscono che le versioni ufficiali degli eventi prevalgano.
In questo contesto, la demonizzazione di Russia e Cina non è solo una strategia geopolitica, ma un elemento chiave di un sistema che si nutre di paure e conflitti. Le crisi, che siano sanitarie, economiche o militari, diventano strumenti per rafforzare il controllo e giustificare politiche che altrimenti sarebbero inaccettabili.
Le élite occidentali e il complesso industriale-militare: i veri registi
Dietro ogni conflitto, destabilizzazione o crisi globale c’è un attore che rimane spesso nell’ombra: il complesso industriale-militare e le élite che ne traggono beneficio. Questo sistema, consolidatosi negli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, oggi governa non solo la politica americana ma anche quella delle sue colonie, inclusa l’Europa. L’Iraq, la Siria, l’Ucraina e le tensioni con la Cina non sono episodi isolati ma tasselli di una strategia più ampia.
Il complesso industriale-militare: profitti sul sangue
La Guerra al Terrore, inaugurata dopo l’11 settembre, ha portato benefici straordinari alle aziende del settore bellico. Lockheed Martin, Raytheon e Boeing sono solo alcuni dei colossi che hanno visto moltiplicarsi i loro profitti. Ogni conflitto, che sia in Medio Oriente, in Ucraina o nel Pacifico, è un’opportunità per vendere più armi, più droni, più tecnologia militare.
Non è un caso che il bilancio della difesa americano sia il più alto del mondo, superando di gran lunga quello di Russia e Cina messe insieme. Non si tratta solo di proteggere gli interessi nazionali, ma di alimentare un’industria che è parte integrante dell’economia americana. Ogni missile sganciato, ogni sistema antimissile attivato rappresenta miliardi di dollari che fluiscono nelle casse di queste multinazionali.
E le guerre per procura sono lo strumento ideale: mentre gli Stati Uniti limitano il coinvolgimento diretto, i loro alleati e clienti consumano armi e risorse in quantità. L’Ucraina è solo l’ultimo esempio: miliardi di dollari in aiuti militari che tornano immediatamente nelle tasche dei fornitori americani.
Le élite transnazionali: i padroni del discorso
Il complesso industriale-militare è solo una parte di un sistema più vasto, controllato da élite transnazionali che dominano l’economia globale. Questi attori, che operano attraverso multinazionali, banche e fondi di investimento, non rispondono agli stati-nazione ma li utilizzano come strumenti per i loro obiettivi.
L’industria tecnologica è diventata un pilastro fondamentale di questo sistema. I giganti della Silicon Valley, che hanno creato i social network e le piattaforme digitali, sono strettamente intrecciati con il complesso industriale-militare. Non è un caso che la CIA e il Pentagono abbiano finanziato, direttamente o indirettamente, molti dei progetti tecnologici che oggi definiamo innovativi. Facebook, Google, Amazon: tutti sono nati in un ambiente in cui il controllo e la sorveglianza erano obiettivi primari.
Attraverso queste piattaforme, le élite hanno raggiunto un livello di controllo senza precedenti. Possono plasmare l’opinione pubblica, censurare le voci critiche e creare consenso per le loro politiche. Ogni post, ogni like, ogni tweet è un tassello in un mosaico di manipolazione globale.
La politica come teatro
I politici, che dovrebbero rappresentare gli interessi dei cittadini, sono ormai attori di un teatro orchestrato dalle élite. Le elezioni, sia negli Stati Uniti che in Europa, si svolgono in un contesto in cui le alternative reali sono inesistenti. I candidati principali, indipendentemente dal partito di appartenenza, rispondono agli stessi interessi.
La presidenza di Donald Trump è un esempio lampante. Presentato come un outsider, un nemico del sistema, Trump ha rafforzato il complesso industriale-militare più di qualsiasi predecessore. Ha aumentato le spese per la difesa, inaugurato una nuova forza spaziale e intensificato le tensioni con Cina e Iran. Eppure, la sua retorica ha convinto milioni di persone che fosse un difensore del popolo contro le élite. Una sceneggiatura perfettamente scritta.
Ma Trump non è un’anomalia. Anche i suoi avversari, da Joe Biden a Emmanuel Macron, seguono lo stesso copione. La differenza è solo di stile: mentre Trump preferisce il linguaggio diretto e provocatorio, altri adottano un tono più diplomatico. Ma la sostanza non cambia.
La lotta contro l’impero invisibile
Se c’è una lezione da trarre da questi vent’anni di guerre e destabilizzazioni, è che il vero nemico non è un paese o un’ideologia, ma un sistema. Un sistema che si nutre di conflitti, sfruttamento e controllo. L’Iraq, la Siria, l’Ucraina e la Cina sono solo tappe di un percorso più lungo, un percorso che mira a consolidare il dominio di un’élite che non conosce confini.
La sfida per il futuro non è solo geopolitica, ma esistenziale. Riusciremo a smascherare questo sistema e a costruire un’alternativa? O continueremo a vivere come spettatori di un dramma scritto per noi, ma mai da noi?
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* L’Arabia Saudita gioca un ruolo cruciale come finanziatore e promotore di movimenti jihadisti nella regione, spesso in linea con gli interessi strategici occidentali. Storicamente, ha sostenuto gruppi estremisti per contrastare rivali come l’Iran e per espandere la propria influenza ideologica tramite il wahhabismo. Nel contesto della destabilizzazione del Medio Oriente, il regno saudita ha collaborato con gli Stati Uniti, fungendo da alleato strategico nella diffusione del caos regionale e nel contenimento di potenze emergenti come Teheran.
** La Turchia riveste un ruolo ambivalente e strategico nella destabilizzazione del Medio Oriente, oscillando tra il perseguimento di interessi regionali propri e l’allineamento tattico con potenze globali come gli Stati Uniti e la NATO. Durante il conflitto siriano, Ankara ha sostenuto vari gruppi ribelli, inclusi quelli con legami jihadisti, nel tentativo di rovesciare il regime di Bashar al-Assad e consolidare la propria influenza. Al contempo, ha utilizzato il caos per reprimere le aspirazioni curde, considerate una minaccia esistenziale.
Sul fronte geopolitico, la Turchia si è proposta come potenza regionale autonoma, mantenendo rapporti complessi con la Russia e l’Iran, pur rimanendo un membro della NATO. Questo duplice gioco le ha permesso di sfruttare il conflitto in Siria per espandere il proprio controllo territoriale lungo il confine, attraverso interventi militari diretti. Tuttavia, il suo sostegno al jihadismo e le ambizioni espansionistiche hanno alimentato tensioni con i suoi alleati occidentali, rivelando la natura opportunistica e spesso contraddittoria della sua politica estera.