Alla fine di questa tragicommedia andata in scena alla Casa Bianca, una cosa è certa: Volodymyr Zelenskyy ha ancora qualche illusione sull’Occidente, ma sembra aver capito che la grande narrazione sulla difesa della democrazia ha sempre un prezzo, e quel prezzo lo pagano gli altri. Il presidente ucraino è atterrato a Washington con la speranza di ricevere il sostegno che il suo paese, ridotto a brandelli dopo tre anni di guerra, continua a mendicare. Se n’è andato senza neanche aver pranzato. Il dettaglio non è di poco conto.
L’incontro con Donald Trump e il suo vice, JD Vance, è stato un disastro annunciato. Se ne conosceva già l’esito prima ancora che Zelenskyy mettesse piede nella residenza presidenziale: Trump e il suo circo mediatico non hanno mai fatto mistero della loro linea su Kiev. Meno soldi, meno armi, meno impegno, più trattative. E se per trattative si intende la cessione di territori all’aggressore, pazienza. Per loro l’importante è chiudere la partita, rispedire la questione nei meandri della diplomazia e pensare alle elezioni.
Zelenskyy ha cercato di fare buon viso a cattivo gioco. “Non ho tempo per provare”, ha detto, con un tono che tradiva più rabbia che rassegnazione. Era stato convocato alla Casa Bianca come un cameriere chiamato al tavolo per prendere ordini, e quando ha osato rispondere ha scoperto che il piatto non era neanche per lui. Gli Stati Uniti, un tempo partner strategico, gli hanno detto in faccia quello che già gli fanno capire da mesi: il sostegno a Kiev è un argomento da campagna elettorale, non un impegno imprescindibile.
“Putin ci odia, ci considera meno di niente”, ha osato dire Zelenskyy, forse ingenuamente credendo che quella frase potesse scaldare i cuori dell’amministrazione statunitense. Trump, invece, si è irrigidito e ha risposto come solo lui sa fare: rimettendo in discussione i fatti stessi. La guerra, nella sua narrazione, non è più l’aggressione di un paese sovrano da parte di un altro, ma un conflitto tra due parti, senza un responsabile chiaro. Se Zelenskyy si aspettava gratitudine per aver resistito fino a oggi, ha trovato il solito menefreghismo travestito da pragmatismo.
I retroscena dicono che alla fine del colloquio Trump e Vance gli abbiano chiesto di andarsene. Zelenskyy si è alzato, ha evitato scenate e ha preso la porta senza neanche sfiorare il tanto sbandierato accordo sulle risorse minerarie. La firma non c’è stata, il pranzo nemmeno. “Lasciamo alla storia”, ha detto poi, cercando di mantenere un tono dignitoso. Ma la storia, a volte, non è così clemente con chi si illude.
E qui arriviamo al punto vero. Perché Zelenskyy, nonostante tutto, continua a cercare la sponda americana? Perché si illude ancora che il mondo occidentale possa fare qualcosa di diverso rispetto a quanto già sta facendo, ossia gestire l’Ucraina come un dossier tra tanti?
Mentre lui lasciava Washington con l’amaro in bocca, a Londra si discuteva di un’iniziativa di pace anglo-francese. Zelenskyy ha parlato di “progressi” e di “settimane decisive”. Sembra aggrapparsi a ogni scialuppa che gli viene offerta, ma sa bene che la sua posizione non è più quella del 2022. Non è più l’eroe della resistenza, l’icona incorruttibile della lotta contro il male assoluto. È diventato un problema, uno di quelli che le cancellerie occidentali cercano di risolvere il più in fretta possibile.
Gli anglo-francesi gli proporranno una tregua, un accordo, magari una soluzione transitoria che assomiglia tanto a una resa mascherata. E lui? Potrà dire di no, potrà resistere ancora, ma sa già che il tempo non è dalla sua parte. Washington si è lavata le mani. L’Europa finge di sostenerlo, ma già pensa al dopoguerra. E lui resta lì, sospeso tra il voler difendere l’Ucraina e il non poter tradire chi gli ha dato fiducia. Per ora tiene duro, per ora resiste. Ma fino a quando?