Cecilia Sala, giovane giornalista italiana con un regolare visto giornalistico, è stata arrestata il 19 dicembre 2024 a Teheran. La notizia, inizialmente divulgata con prudenza, è ora al centro di una mobilitazione diplomatica italiana, con la Farnesina e la Presidenza del Consiglio impegnate per ottenere la sua liberazione. Sala è attualmente detenuta nel carcere di Evin, noto per la repressione dei dissidenti politici e per le sue condizioni dure. Ma il caso della giornalista va ben oltre l’apparenza di un singolo arresto in un regime autoritario: si intreccia con il ruolo del giornalismo, le dinamiche geopolitiche e una gestione mediatica che rivela l’asimmetria con cui vengono trattati eventi analoghi nel mondo.
Sala, collaboratrice del Foglio, Chora Media e altre testate occidentali, si è costruita una reputazione come reporter attenta alle trasformazioni in Medio Oriente, con particolare focus sulle questioni di genere. Tra le sue recenti produzioni, un podcast sul patriarcato iraniano e un reportage su un ex fondatore dei Pasdaran. Questa attività giornalistica, che rientra pienamente nei confini del mestiere, è stata bollata dal regime iraniano come una minaccia. Le accuse? Diffamazione di Ali Khamenei e presunta diffusione di contenuti favorevoli agli oppositori. Accuse generiche, prive di sostanza, ma funzionali per colpire una voce che il regime considera scomoda. Non si può, però, trascurare il contesto mediatico e ideologico di Sala. Il Foglio, testata che incarna una visione filoatlantista e pro-occidentale, si è spesso distinto per il suo appoggio alle narrazioni ufficiali di Washington e Bruxelles. Questo aspetto, in uno scenario polarizzato come quello iraniano, non è neutrale. Essere una voce del Foglio e produrre contenuti che analizzano criticamente il regime iraniano non è percepito solo come giornalismo, ma come parte di una macchina di propaganda avversaria.
L’arresto di Sala non può essere compreso appieno senza considerare il contesto geopolitico. Tre giorni prima del suo arresto, il 16 dicembre, l’Italia aveva fermato all’aeroporto di Malpensa un cittadino iraniano con doppia cittadinanza svizzera. Mohammad Abedini Najafabadi, imprenditore accusato dagli Stati Uniti di fornire componenti per droni ai Pasdaran, era stato arrestato su mandato americano. Teheran ha immediatamente protestato, con il ministero degli Esteri iraniano che ha convocato rappresentanti italiani e svizzeri. La coincidenza temporale tra i due eventi è troppo evidente per essere ignorata: Sala potrebbe essere una pedina di scambio in una partita più ampia tra Teheran, Roma e Washington. In questo intricato scenario, il ruolo dell’Italia è ambiguo. Da un lato, Roma deve gestire la relazione con gli Stati Uniti, suo alleato storico. Dall’altro, si trova a mediare con un Iran sempre più isolato dalle sanzioni internazionali e dalle tensioni crescenti con l’Occidente. Il caso Sala è diventato, suo malgrado, un nodo in questa rete di interessi incrociati.
La narrazione mediatica sull’arresto di Sala ha seguito un copione consolidato. La giornalista è stata immediatamente inserita nel frame di “donna contro ayatollah”, enfatizzando il contrasto tra la repressione iraniana e i valori occidentali di libertà e diritti umani. Questa semplificazione è utile per mobilitare l’opinione pubblica occidentale, ma trascura altri episodi simili che, per ragioni geopolitiche, ricevono ben meno attenzione. Un esempio lampante è la strage di giornalisti a Gaza. Dopo il 7 ottobre 2023, oltre 200 reporter sono stati uccisi mentre documentavano gli eventi nella Striscia. Molti sono stati presi di mira deliberatamente, perché testimoni di una guerra che molti definiscono genocida. La stessa “democrazia” israeliana che li ha eliminati aveva già ucciso Shireen Abu Akleh, una giornalista palestinese, e attaccato brutalmente il suo funerale. Eppure, queste vicende non suscitano la stessa indignazione del caso Sala, rivelando un doppio standard che discrimina tra vittime di serie A e serie B.
Questo silenzio non è casuale. Rientra in una strategia mediatica che seleziona quali storie raccontare e come raccontarle, in base agli interessi geopolitici degli attori coinvolti. Sala, cronista di una testata filoatlantista, si inserisce perfettamente nella narrazione di un Occidente virtuoso opposto a un Oriente oppressivo. Al contrario, i giornalisti uccisi da Israele o in Ucraina, come Andy Rocchelli, non ricevono lo stesso trattamento. La loro morte non si adatta al frame dominante e viene relegata ai margini del dibattito.
La vicenda di Sala solleva domande scomode sul ruolo del giornalismo in un mondo sempre più polarizzato. Essere reporter significa raccontare i fatti, ma la realtà è che molte testate, consapevolmente o meno, diventano strumenti di propaganda. Sala, collaboratrice di testate come Wired e Chora Media, ha prodotto lavori che seguono una linea narrativa coerente con l’agenda atlantista. Non si tratta di mettere in discussione la qualità del suo lavoro, ma di riconoscere che il contesto in cui opera non è mai neutrale. L’Iran, da parte sua, sfrutta questo contesto per giustificare un atto repressivo. Arrestare Sala non è solo una mossa contro il giornalismo, ma un segnale inviato all’Occidente: ogni interferenza sarà punita. In questo senso, il suo arresto diventa una partita simbolica, giocata su più livelli.
* * *
ALCUNI DEGLI ARTICOLI PUBBLICATI DA CECILIA SALA
La preferita di Putin e Assad va a coordinare l’intelligence per Trump (Il Foglio, 15 novembre 2024)
L’arma che uccide più ucraini ora arriva anche dall’Iran (Il Foglio, 11 settembre 2024)
Con il gruppo hacker “Gattino” Teheran spia le mail dei generali d’Israele e la campagna americana (Il Foglio, 7 settembre 2024)
La ricostruzione più in voga dei negoziati tra Ucraina e Russia del 2022 è inventata (Il Foglio, 18 giugno 2024)
10 cose memorabili di Obama, a un decennio dall’insediamento (Wired, 21 gennaio 2019)
Articoli pubblicati sul Foglio
Articoli pubblicati su Wired