Esistono molti modi per raccontare l’orrore, ma pochi sono più cinici del linguaggio delle operazioni militari, dove la morte di civili viene ridotta a “danno collaterale”. Dietro questa freddezza lessicale si nasconde una realtà inaccettabile che continua a ripetersi. Lo scorso 26 dicembre, il New York Times ha pubblicato un articolo che, con tono grave e apparente sorpresa, ha riportato che l’esercito israeliano avrebbe autorizzato la morte di un numero impressionante di civili pur di eliminare singoli obiettivi di Hamas. Eppure, questa “rivelazione” non è altro che l’ennesimo tentativo di ripulire la narrazione di una verità già nota, con il consueto corredo di omissioni strategiche.
Secondo l’articolo del New York Times, l’ordine di autorizzare la morte di fino a 20 civili per ogni bersaglio di basso rango di Hamas sarebbe senza precedenti nella storia dell’esercito israeliano. Una dichiarazione che, a una prima lettura, potrebbe sembrare allarmante. Ma se si gratta via la patina di esclusività, si scopre che queste pratiche sono tutt’altro che nuove.
Già nell’aprile 2024, la testata israeliana +972 Magazine aveva pubblicato un’inchiesta che metteva in luce come, durante operazioni precedenti, Israele avesse autorizzato numeri ben più alti di vittime civili per eliminare specifici obiettivi militari. Ad esempio, l’operazione che ha portato all’uccisione di Wisam Farhat, comandante del Battaglione Shujaiya di Hamas, era stata autorizzata con un tetto massimo di 100 civili uccisi. Nel caso ancora più scioccante di Ayman Nofal, comandante della Brigata Centrale di Hamas, l’esercito israeliano aveva autorizzato un numero tre volte superiore, consentendo la morte di 300 civili.
Non si tratta di numeri estrapolati da ambienti ostili a Israele, ma di informazioni documentate da fonti interne allo stesso esercito israeliano e successivamente confermate da inchieste giornalistiche. Eppure, il NYT si limita a menzionare queste cifre in modo superficiale, come se fossero dettagli marginali o di dubbia credibilità, preferendo concentrarsi su un singolo episodio per creare un senso di novità che non esiste.
Descrivere come “senza precedenti” il livello di danno collaterale tollerato nelle operazioni recenti è un’affermazione che tradisce un’ignoranza, reale o calcolata, della storia dell’esercito israeliano. Le operazioni che hanno devastato il Libano nel 2006, con centinaia di morti civili in pochi giorni, o quelle condotte regolarmente a Gaza negli ultimi decenni, testimoniano una continuità di pratiche brutali che riducono i civili a statistiche.
Un caso emblematico è l’assassinio del leader di Hezbollah Seyyed Hassan Nasrallah, avvenuto con un bombardamento che ha raso al suolo interi edifici civili nel sud di Beirut. In quell’occasione, Israele annunciò apertamente che l’operazione avrebbe probabilmente causato 300 vittime civili, una cifra considerata accettabile per raggiungere l’obiettivo militare. E non si tratta di incidenti isolati: il modus operandi si ripete in ogni teatro di guerra in cui Israele è coinvolto.
Una delle componenti più inquietanti emerse dalle inchieste riguarda l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale da parte dell’esercito israeliano per identificare e colpire obiettivi. Secondo quanto rivelato da +972 Magazine, il sistema “Lavender” utilizzato per selezionare bersagli militari di basso rango era non solo altamente inefficiente, ma anche deliberatamente ottimizzato per massimizzare il risparmio economico, sacrificando la precisione. Quando si trattava di colpire obiettivi considerati “minori”, venivano spesso utilizzate bombe non guidate, meno costose ma anche più distruttive, causando morti e feriti tra i civili.
Un dettaglio particolarmente agghiacciante riguarda il processo di verifica dei bersagli generati dall’IA: gli operatori impiegavano in media 20 secondi per approvare un attacco, basandosi su criteri riduttivi come il genere della persona identificata, assicurandosi che fosse un uomo. In un contesto come Gaza, densamente popolato e privo di vie di fuga per i civili, questa superficialità ha conseguenze devastanti.
Il New York Times offre un racconto che sembra più interessato a fornire una giustificazione morale che a raccontare la verità nella sua interezza. Da un lato, denuncia un eccesso di “danno collaterale”, ma dall’altro perpetua le stesse narrazioni israeliane, come l’accusa che Hamas usi i civili come scudi umani. Questa affermazione, che è diventata un mantra nei media occidentali, ignora o minimizza le numerose testimonianze e prove che dimostrano l’utilizzo da parte dell’esercito israeliano di civili palestinesi come scudi umani.
Non viene menzionato, ad esempio, che durante l’invasione di Gaza, soldati israeliani hanno costretto civili palestinesi a camminare davanti ai loro mezzi blindati per proteggersi dagli attacchi di Hamas. Non si fa cenno alle esecuzioni sommarie, alla distruzione deliberata di case senza alcuna utilità strategica o alle torture documentate. Questi episodi non sono deviazioni dalla norma, ma il cuore stesso di una politica che deumanizza un’intera popolazione.
Se accettiamo le stime ufficiali di Israele sul numero di combattenti di Hamas uccisi, emerge una contraddizione che il NYT preferisce ignorare. La cifra dei militanti eliminati è troppo alta rispetto al numero totale di vittime riportato dalle Nazioni Unite, che parla di quasi 46.000 morti, con altri 10.000 dispersi e presumibilmente deceduti. Questo significa che, per far tornare i conti, il numero di vittime civili deve essere ancora più alto di quanto si sia disposti a riconoscere.
Di fronte a questa evidente sproporzione, il NYT tace, evitando di mettere in discussione la narrativa ufficiale israeliana. Ma il silenzio non cancella la realtà: ciò che sta accadendo non è “danno collaterale”, ma una deliberata politica di terrore e distruzione.
Alla fine, l’articolo del New York Times si riduce a un esercizio di maquillage morale, un tentativo di fare i conti con una realtà che ormai non può più essere ignorata, senza però affrontarne le implicazioni più profonde. La normalizzazione del genocidio passa anche da questo: raccontare l’orrore, ma sempre in modo da assolvere i colpevoli. La storia, tuttavia, è una cattiva alleata dei compromessi: continuerà a testimoniare ciò che i media si ostinano a nascondere.