Guerra in Siria: effetti geopolitici e il ruolo di Israele

Guerra in Siria: effetti geopolitici e il ruolo di Israele

La guerra in Siria favorisce Israele e Turchia, indebolisce Iran e Russia e alimenta il caos geopolitico con obiettivi espansionisti e manipolazioni occidentali.

La situazione siriana è il risultato di manovre geopolitiche di lunga data, in cui attori come Israele, Turchia e potenze occidentali hanno sfruttato la guerra civile per i propri interessi strategici. La “conversione” dei gruppi ribelli in forze moderate è orchestrata per il pubblico occidentale, mentre retoriche settarie persistono. Israele, favorito dalla frammentazione della Siria, persegue una politica espansionista fino a Damasco. La Turchia, pur considerata “traditrice” del processo di Astana, ha obiettivi divergenti rispetto a Israele. Iran e Russia, invece, perdono influenza strategica, mentre gli USA mantengono posizioni chiave. La caduta di Assad rischia di destabilizzare ulteriormente l’intera regione.

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di Daniele Perra

Innanzitutto, è bene ribadire che ci si sarà ancora molto da indagare su quanto è successo in Siria negli ultimi mesi (se non negli ultimi anni addirittura). Tendenzialmente, credo assai poco alle improvvise e contemporanee “conversioni sulla via di Damasco”. Mi sembrano molto più convincenti le conversioni sulla via di Washington, Londra o Tel Aviv. La trasformazione di al-Julani in “campione di moderatismo”, inoltre, è un qualcosa che arriva da lontano; è stato un lungo processo. I contatti tra Hayat Tahrir al-Sham e operativi dell’MI6 (il servizio segreto di Sua Maestà), ad esempio, sono di lunga data (anche se hanno conosciuto un notevole incremento a partire più o meno dal 2021). Ed è noto che per tutto il corso della guerra fredda l’MI6 ha utilizzato la Turchia come trampolino di lancio per operazioni in territorio siriano (la battaglia di Hama del 1982 fu uno degli esiti di queste operazioni). Oggi, non a caso, l’ex capo del servizio segreto britannico John Sawers ha chiesto che il gruppo di al-Julani venga cancellato dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Tuttavia, siccome sono puntiglioso, ho deciso di andare a dare un’occhiata alle dichiarazioni in arabo dei leader “ribelli”. E allora, senza particolare sorpresa ad onor del vero, ho scoperto che gli alawiti continuano ad essere definiti come “maiali” (insulto di lunga data), mentre agli sciiti viene dedicato tutto il tradizionale campionario di termini che li indicano come “eretici”, “rinnegati”, e così via. Dunque, mi pare evidente che vi sia una comunicazione “esterna” (per il pubblico occidentale inebetito) ed una interna del tutto diversa.

Come già anticipato, ci sarà ancora molto da indagare e quelli che fanno il mio lavoro dovranno districarsi tra tutta una serie di notizie e dichiarazioni che talvolta si contraddicono l’un l’altra; mentre altre volte si dimostrano false o totalmente inventate. Merito in larga parte anche di un mondo informativo occidentale che è letteralmente costruito sulla sistematica mistificazione e sulla falsificazione degli eventi, senza considerare l’ignoranza (più o meno ricercata) della storia.

Tra l’altro, la situazione in Siria rimane in costante evoluzione (e si è pure iniziato a parlare di nuclei di resistenza all’azione dei “ribelli”)

Nonostante ciò, possiamo provare a comprendere quello che è avvenuto cercando di capire chi ne ha tratto vantaggio in primo luogo. La posizione di Israele è indubbiamente migliorata, avendo realizzato un progetto geopolitico di lungo corso: l’eliminazione di una rivale storico e la parcellizzazione della Siria, come previsto a suo tempo dal Piano Yinon che risale ai primi anni ’80, del secolo scorso. Dico parcellizzazione della Siria perché è piuttosto improbabile che la Siria, come l’abbiamo conosciuta fino al 2011 possa rimanere tale. La precedente amministrazione Trump aveva già riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan (occupate nel 1967), Netanyahu ha dichiarato nullo l’accordo di disimpegno del 1974 e sta avanzando rapidamente annettendosi parte della zona di confine con Libano (utile per accerchiare ed aprire nuovi potenziali fronti contro Hezbollah). A ciò si aggiungano gli oltre 500 attacchi aerei (in pochi giorni) operati contro le strutture logistiche del fu Esercito Arabo Siriano.

L’obiettivo, naturalmente, è che la Siria rimanga in una condizione di “Stato fallito”, un buco nero geopolitico nel cuore del Levante, (con governi deboli facilmente controllabili ed influenzabili, incapaci di mantenere la presa su ampie regioni del Paese) il più a lungo possibile. Quindi, meglio evitare che le milizie “ribelli” si possano appropriare dell’arsenale siriano o che questo (peggio ancora) finisca in altre mani.

Non ultimo consideriamo anche che le anime più estremiste del sionismo religioso (che sostengono e sono ampiamente rappresentate all’interno del governo Netanyahu) sognano una “Grande Israele” che arriva fino al fiume Eufrate. Solo qualche anno questo sarebbe stato impensabile. Bene, oggi Israele è in prossimità di Damasco e solo qualche mese fa il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich affermò che, secondo la letteratura rabbinica, “Gerusalemme è destinata ad estendersi fino a Damasco”).

Quindi, a mio modo di vedere, Israele è l’attore che ha guadagnato di più dalla caduta di Assad anche perché il processo di Astana ha rappresentato indubbiamente una sconfitta per i piani di Israele sul conflitto siriano: ovvero, tagliare i canali di rifornimento diretti per Hezbollah (cosa facilmente realizzabile in questo momento).

La Turchia viene tendenzialmente considerata come quella che ha fatto fallire il processo di Astana (che, a mio modo di vedere aveva rappresentato una pietra miliare nella potenziale, ancora in latenza, costruzione di un ordine globale multipolare, visto che si era arrivati alla soluzione di un conflitto in un’area dall’enorme valore strategico attraverso la marginalizzazione delle istanze occidentali, rappresentate solo parzialmente da Ankara). Ankara viene considerata quella che “ha tradito”. E questo può essere (parzialmente) vero. Però ci sono anche altri aspetti da considerare: l’assoluta indisponibilità di Assad a trovare una soluzione negoziale con Erdogan (nonostante i suggerimenti russi); un certo raffreddamento dei rapporti tra lo stesso Assad e l’Iran. dovuto sia al fatto che Assad ha spesso sorvolato su suggerimenti ed avvertimenti iraniani sulla pericolosità del nemico, sia al fatto che sempre Assad abbia scelto di smantellare le milizie di autodifesa territoriale create da Qassem Soleimani al posto di inserirle all’interno delle forze di sicurezza nazionale. A ciò si aggiunga la riduzione degli aiuti ad Hezbollah (e c’è chi ha sostenuto che Assad abbia rifiutato la richiesta iraniana di aprire un fronte contro Israele sul Golan occupato, utilizzando anche unità yemenite legate ad Ansarullah. Ora, non so quanto ci sia di verità in tutto questo, è sicuramente vero il fatto che sin dalla fine del 2023 l’ufficio di rappresentanza di Ansarullah in Siria è stato chiuso. Ed è altrettanto vero che lo stesso Assad ha cercato, senza fortuna, di ricostruire i propri legami con le monarchie del golfo (Emirati ed Arabia Saudita) sia per bilanciare l’influenza iraniana in Siria, sia per ottenere un sostegno (mai arrivato) contro l’odiata Turchia (i rapporti tra Ankara e le monarchie del Golfo non sono particolarmente floridi sin dalla rottura del 2017 che aveva coinvolto anche il Qatar e, di fatto, scompaginato il fronte di opposizione a Bashar al-Assad).

Dunque, qual è stato il ruolo della Turchia? Di solito si tende a legare Ankara semplicemente all’Esercito Siriano Libero (poi divenuto Esercito Nazionale Siriano), i cosiddetti “ribelli moderati”. In realtà, Ankara sostiene (ed ha sostenuto) sigle diverse, comprese milizie turcomanne che hanno agito lungo il confine turco-siriano soprattutto contro i curdi. Bisogna riconoscere, inoltre, che l’Esercito Nazionale Siriano ha spesso operato in totale comunione di intenti con i gruppi terroristi (compresi quelli apertamente legati ad al-Qaeda come il fu Fronte al-Nusra di al-Julani, prima della sua operazione di “sbiancamento”). Allo stesso tempo, ricordiamoci che la Turchia ha a lungo permesso al sedicente Stato Islamico di contrabbandare greggio siriano e iracheno tramite i suoi confini: cosa apertamente affermata da Vladimir Putin nel corso del suo ciclo di interviste col regista statunitense Oliver Stone. Quindi, è piuttosto inutile che si cerchi di limitare il ruolo turco nel sostegno ad HTS. Questi, inoltre, governavano ad Idlib con l’apporto turco. La valuta di riferimento era la lira turca e, proprio grazie al costante flusso di denaro turco, l’area di Idlib è stata la regione siriana con la più importante crescita economica negli ultimi anni in rapporto al resto del Paese, diviso tra l’area sotto controllo baathista e l’area di occupazione USA-SDF (questi ultimi si sono impegnati soprattutto a saccheggiare le risorse siriane, grano e petrolio, in particolar modo).

Cosa ha ottenuto la Turchia? Anche lei la sconfitta di un rivale storico. Ricordiamoci che Hafez al-Assad (padre di Bashir) consentì ai gruppi armati curdi di trovare rifugio in Siria, cosa piuttosto curiosa se consideriamo che gli stessi curdi hanno voltato le spalle a Damasco in più di un’occasione negli ultimi anni. Nonostante ciò, il problema curdo per Ankara rimane. E questa vorrà mettere totalmente in sicurezza il confine (potenziale fonte di instabilità se consideriamo che i curdi sono una ben nota risorsa anche di Stati Uniti e Israele, sebbene a giorni alterni). Ragione per cui ritengo che gli obiettivi geopolitici turchi ed israeliani nel medio/lungo periodo possano essere divergenti, anche per ciò che concerne l’ambizione di entrambi a divenire “potenze energetiche”. E consideriamo pure che buona parte della fornitura di greggio ad Israele (il 25% circa) arriva attraverso il porto turco di Ceyhan (terminale di quel celebre oleodotto Baku-Tbilis-Ceyhan la cui costruzione era stata lautamente sostenuta dall’Occidente in chiave anti-russa negli anni ’90 del secolo scorso – da sottolineare, anche in questo caso, il ruolo di MI6 e CIA).
Nonostante il ruolo turco nell’offensiva, onestamente, non credo che la presa di Ankara su Damasco potrà essere la stessa che, ad esempio, ha su Tripoli (a prescindere dalla continuità territoriale). Perché a Damasco ci sono veramente notevoli interessi in gioco, ed i gruppi oggi al potere sono pervasi di elementi legati a Stati Uniti, Israele e Gran Bretagna.

Per ciò che concerne la Russia, al momento la presenza delle basi sulla costa sembra essere garantita (l’obiettivo geopolitico minimo per Mosca). Bisogna, tuttavia, valutare per quanto tempo sarà così (curioso, tra l’altro, che la presenza delle basi russe a Tartus e Latakia sia sempre in discussione, mentre nessuno si preoccupa della base USA ad al-Tanf). Per il resto il crollo di Assad non può essere considerato in alcun modo come una buona notizia da Mosca, la presa russa sulla Siria diminuisce in modo considerevole e pensiamo anche al cospicuo numero di miliziani caucasici e centroasiatici che hanno combattuto in Siria con i “ribelli” ed al ruolo che potrebbero aver avuto elementi ed armi arrivate dall’Ucraina nella preparazione dell’offensiva. Sicuramente il fronte meridionale russo (con la caduta di Damasco) appare più scoperto se consideriamo anche la presenza di Stati Uniti, Turchia e Israele nell’area caucasica tra Armenia, Georgia ed Azerbaigian.

Bisogna anche valutare il ruolo che può aver giocato la promessa di un accordo sull’Ucraina in cambio di concessioni sull’area mediorientale (un calcolo geopolitico a mio avviso comunque piuttosto rischioso).

L’Iran indubbiamente esce con la schiena rotta, a prescindere dal raffreddamento dei rapporti con Assad di cui si è parlato in precedenza. L’intero “sistema Soleimani” è compromesso: ovvero, la costruzione di una rete di alleanze più o meno informali che avrebbero dovuto fungere da schermo protettivo per la Repubblica Islamica.

C’è chi sostiene che il 7 ottobre 2023 (con l’attacco di Hamas contro Israele) abbia portato a questo processo disgregativo e di recrudescenza conflittuale in un’area che si era fragilmente stabilizzata con il processo di Astana. In realtà, questo processo, a mio di vedere, ha avuto inizio proprio con l’assassinio di Qassem Soleimani ordinato da Donald J. Trump.

Tra l’altro, mi pare evidente che il cambio di regime in Siria avrà riflessi anche sul vicino Iraq. In questo senso, esiste la possibilità concreta che l’Iraq venga nuovamente attaccato da parte di quei “ribelli” che gli Stati Uniti hanno nutrito ed addestrato sia da al-Tanf che nell’area ad est dell’Eufrate.

In altre parole si potrebbe riaccendere un’altra miccia: quella della rivalità tra Iraq e Siria che risale all’epoca del confronto tra la dinastia califfale omayyade ed i ribelli abbasidi (divenuti essi stessi dinastia califfale, con lo spostamento della capitale da Damasco a Baghdad), rivalità proseguita con lo scontro tra califfato abbaside ed anti-califfato fatimide, fino ad arrivare alla rottura evidente tra baathismo siriano e iracheno (con la Siria che sostiene l’Iran nella prima guerra del golfo e partecipa alla prima aggressione contro l’Iraq nei primi anni ’90). Se vogliamo anche la rottura tra al-Baghdadi e al-Julani nel 2013 (nonostante la mediazione di al-Zawahiri) può essere considerata come un prodotto della rivalità storica tra iracheni e siriani.

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