La storia dei conflitti tra Israele e Palestina affonda le sue radici in un passato complesso, in cui geopolitica, colonialismo e autodeterminazione nazionale si intrecciano. L’attuale crisi che si sta consumando a Gaza è solo l’ennesimo capitolo di una lunga serie di eventi che hanno visto il popolo palestinese vittima di violenze sistematiche, soprusi e repressioni. La comunità internazionale assiste a questi eventi con una narrativa spesso viziata da interessi politici ed economici, alimentando un quadro distorto che impedisce un’analisi lucida dei fatti.
Uno degli elementi centrali di questa narrazione è l’uso del termine “genocidio” per descrivere l’operato di Israele nei confronti della popolazione palestinese. Il dibattito su questa terminologia non è solo semantico, ma ha conseguenze politiche e giuridiche di enorme rilevanza. In Italia, come in molti altri paesi occidentali, chi osa definire genocidio ciò che sta accadendo a Gaza viene accusato di fare terrorismo o di diffondere propaganda anti-israeliana. Eppure, i numeri forniti dalle Nazioni Unite parlano chiaro: almeno 50.000 morti, di cui il 70% donne e bambini, mentre le fonti mediche palestinesi sul campo parlano di un numero che potrebbe essere il doppio, considerando le macerie sotto le quali giacciono migliaia di corpi non ancora recuperati. Di fronte a una simile carneficina, la negazione della realtà appare sempre più insostenibile.
Questo atteggiamento trova una delle sue cause principali nell’assenza di una stampa indipendente capace di raccontare i fatti senza filtri ideologici. Oggi il panorama mediatico italiano e internazionale è dominato da interessi che impediscono una narrazione equilibrata. Un tempo l’Italia era un paese capace di mantenere un dialogo con il mondo arabo, favorendo un equilibrio che si traduceva in scelte politiche pragmatiche. Figure come Aldo Moro e Bettino Craxi incarnavano questa capacità di mediazione: Moro riuscì a ottenere un accordo con l’OLP per tenere l’Italia fuori dal conflitto israelo-palestinese, mentre Craxi, durante la crisi dell’Achille Lauro, non esitò a ricordare alla Camera dei Deputati che la lotta per l’autodeterminazione dei popoli può assumere molteplici forme, anche quelle che l’Occidente definisce terrorismo.
Per comprendere appieno la questione, è necessario riflettere sul concetto di lotta armata e sulla sua evoluzione storica. Il paragone con Giuseppe Mazzini è illuminante: padre del pensiero repubblicano italiano, Mazzini organizzò azioni di guerriglia e attentati, come quello fallito contro Napoleone III, e scrisse un vero e proprio manuale di guerriglia. La storia dimostra che in molti casi i movimenti di liberazione nazionale hanno fatto ricorso alla violenza come strumento per ottenere la propria indipendenza. Anche Israele non fa eccezione: nel 1946, il gruppo sionista Irgun fece saltare in aria l’Hotel King David, sede del comando britannico, un atto che oggi verrebbe definito senza esitazione come terroristico. Il futuro primo ministro Menachem Begin era tra i leader di quel movimento, dimostrando che il confine tra terrorismo e resistenza è spesso labile e dipende dalla prospettiva storica.
L’attuale rappresaglia israeliana contro Gaza, iniziata nell’ottobre del 2023, si inserisce in questa lunga storia di violenza. Non si tratta più di un’operazione militare mirata, ma di una punizione collettiva che ha assunto i contorni di un massacro. Il paragone con l’eccidio delle Fosse Ardeatine a seguito dell’attentato di Via Rasella è emblematico: i nazisti, all’epoca, stabilirono un rapporto di 10 italiani uccisi per ogni tedesco caduto; nel caso di Gaza, il rapporto è di 50 palestinesi per ogni israeliano. Il carattere sproporzionato della ritorsione non lascia spazio a dubbi: si tratta di una strategia di sterminio sistematico che rientra perfettamente nella definizione di genocidio.
Il dibattito sul terrorismo viene spesso affrontato in maniera selettiva, rimuovendo il contesto storico che ha portato a determinate scelte. Nessuno nega che l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 sia stato un atto terroristico, ma è altrettanto vero che lo Stato di Israele è nato attraverso azioni che oggi sarebbero considerate atti di terrorismo. Questo doppio standard mina la credibilità del discorso politico e giornalistico occidentale, rendendo impossibile una valutazione obiettiva degli eventi.
Per comprendere le radici della questione israeliano-palestinese, bisogna tornare al 1948, anno della nascita di Israele. Questo evento fu reso possibile grazie a una risicata maggioranza all’ONU, ottenuta anche con il sostegno dell’Unione Sovietica. Il rappresentante sovietico Andrej Gromyko difese la creazione dello Stato ebraico come risarcimento per la Shoah, ma i metodi con cui venne imposto lo Stato di Israele segnarono la condanna dei palestinesi all’esilio e alla marginalizzazione. Senza il voto sovietico e senza il supporto logistico della Cecoslovacchia per le forniture di armi, Israele avrebbe probabilmente avuto un destino diverso. Il Medio Oriente era all’epoca ancora sotto il controllo delle potenze coloniali, e la Gran Bretagna sfruttava la questione palestinese per mantenere il proprio dominio nella regione.
Il 1956 segna un punto di svolta: la crisi di Suez porta a una ridefinizione delle alleanze internazionali. L’attacco anglo-francese all’Egitto, volto a riprendere il controllo del Canale di Suez nazionalizzato da Nasser, viene bloccato dagli Stati Uniti, che impongono il ritiro delle truppe europee. Questo evento rafforza i legami tra l’Unione Sovietica e il mondo arabo, mentre Israele si sposta definitivamente sotto l’ombrello statunitense. La costruzione della diga di Assuan, finanziata dai sovietici, consolida il blocco arabo-socialista e rafforza le divisioni nel Medio Oriente.
Da quel momento in poi, il legame tra Israele e gli Stati Uniti diventa inscindibile. L’Occidente, invece di favorire una soluzione politica, ha consolidato una politica di sostegno incondizionato a Israele, rendendo impossibile una pace duratura. Oggi, senza il supporto militare statunitense, Israele non potrebbe sostenere l’attuale offensiva. Tuttavia, anche Hamas ha responsabilità enormi: il suo attacco indiscriminato del 7 ottobre ha fornito a Israele il pretesto per scatenare una repressione senza precedenti. Ma il problema di Hamas non è solo l’uso della violenza: è l’assenza di una strategia politica chiara. Governando la Striscia di Gaza, Hamas aveva ottenuto la fiducia di una parte della popolazione, ma con la sua scelta ha condannato gli stessi palestinesi che avrebbe dovuto proteggere.
In politica, gli errori si pagano, e purtroppo a pagare il prezzo più alto sono sempre i civili. Gaza oggi è il simbolo di un conflitto che non trova soluzione, intrappolato tra un’occupazione militare brutale e una resistenza che, priva di una direzione politica, rischia di diventare solo un altro pretesto per la distruzione totale di un popolo. La storia insegna che nessun popolo può essere sterminato impunemente senza conseguenze nel lungo periodo, ma fino a quando la comunità internazionale continuerà a chiudere gli occhi davanti a questo massacro, la possibilità di una soluzione equa e giusta resterà un’illusione.