Se c’è una cosa che la storia ci insegna, è che quando Donald Trump mette gli occhi su qualcosa, non è per ammirarne il paesaggio. Ora, la sua ossessione si chiama Groenlandia. Già nel 2019, in un lampo di genialità, aveva proposto di comprarla, scatenando risate e indignazione. Oggi, con un’elezione cruciale alle porte, Trump torna a corteggiare l’isola artica con il solito metodo: promesse di ricchezza, minacce velate e un’armata di influencer MAGA pronti a colonizzare i social groenlandesi a suon di cappellini rossi e bigliettoni da cento dollari.
Dall’altra parte, la Danimarca si trova con un problema che non aveva preventivato: un risveglio improvviso della voglia di indipendenza di un popolo che, per decenni, ha vissuto nel limbo di una sovranità a metà. “Improvviso” è un eufemismo: per gli abitanti dell’isola, l’indipendenza è una vecchia promessa elettorale che si ripresenta puntuale come il gelo polare, ma che, alla fine, si scioglie sempre sotto il sole della realpolitik. Finora, i sondaggi mostrano che la maggioranza dei groenlandesi la vorrebbe, ma la domanda è un’altra: come?
Il premier Múte B. Egede è stato chiaro: “Non vogliamo essere danesi, non vogliamo essere americani. Vogliamo essere groenlandesi.” Giusto, sacrosanto. Peccato che la Groenlandia dipenda ancora per un terzo del proprio bilancio dai finanziamenti di Copenaghen, oltre ad affidare a essa la gestione della difesa e della giustizia. Tradotto: indipendenza, sì, ma chi paga il conto?
Intanto, Trump ha fiutato l’affare e fa la sua solita promessa: “Se vi unite a noi, vi renderemo ricchi.” Il copione è sempre lo stesso: vendere il sogno di un’America che sistema tutto, che trasforma il ghiaccio in oro, che protegge i popoli sperduti dal resto del mondo cattivo. E infatti Trump Jr. si è precipitato a Nuuk per un blitz propagandistico degno di un reality show, mentre sui social dilaga la propaganda pro-indipendenza condita con stelle e strisce.
Il problema è che gli abitanti della Groenlandia non sono sprovveduti. Sanno benissimo che la loro terra è diventata una pedina nello scacchiere geopolitico, contesa tra USA, Russia e Cina. Sanno anche che l’interesse di Washington non è certo per la loro cultura o autodeterminazione, ma per le ricchezze nascoste sotto i ghiacci e per la posizione strategica dell’isola. Eppure, molti di loro sembrano accettare il corteggiamento americano con una certa leggerezza, come se potessero trattare con Trump come farebbero con un acquirente di pelli di foca.
Copenaghen, dal canto suo, ha capito che l’aria sta cambiando. Mette Frederiksen, dopo aver riso della proposta di Trump nel 2019, ora è costretta a promettere più investimenti e maggiore autonomia per evitare che il sogno americano faccia troppa presa sui groenlandesi. Perché se la Groenlandia si libera della Danimarca, rischia di finire sotto il controllo di Washington, e a quel punto, addio velleità di indipendenza vera.
Ma la realtà, che nessuno sembra voler dire apertamente, è un’altra: la Groenlandia, da sola, non ce la fa. Il suo PIL si regge sulla pesca e su progetti minerari mai decollati, con un governo che ha già mostrato di non voler svendere le proprie risorse senza garanzie. E qui sta il paradosso: per diventare indipendente, la Groenlandia ha bisogno di trovare un sostegno economico stabile, senza finire dalla padella danese alla brace americana.
La domanda, quindi, non è più “se” la Groenlandia sarà indipendente, ma “quando” e soprattutto “a quale prezzo”. Trump lo sa, e aspetta solo che le difficoltà economiche facciano il loro corso per presentarsi come il salvatore della patria. Intanto, a Nuuk si discute, si protesta e si sogna un futuro diverso. L’indipendenza è una bella parola, ma, come sempre, sono i soldi a decidere chi comanda davvero.