di Stefania Maurizi
Un bacio da film alla moglie Stella e il pugno alzato, appena sceso dall’aereo a Canberra, hanno chiuso i quattordici anni della persecuzione di Julian Assange e WikiLeaks. La saga è iniziata nel 2010, con la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano. Il fondatore di WikiLeaks aveva 39 anni, la prossima settimana ne compirà 53: gli Stati Uniti e il Regno Unito gli hanno preso i migliori anni della sua vita. E nessuno glieli restituirà. Ma perlomeno non gli hanno preso l’intera vita. Un patteggiamento negoziato con l’amministrazione Biden, ad appena cinque mesi dalle elezioni presidenziali americane, gli ha restituito la libertà, anche grazie alle pazienti trattative diplomatiche dell Australia di Anthony Albanese, il primo ministro di origini italiane, che, al contrario di tutti gli altri governi di Canberra, non ha abbandonato Assange.
Arrivato nel suo paese, l’Australia, Julian Assange vuole stare per il momento in campagna, in the bush, in mezzo a quella natura che non conosce da quattordici anni e che ama. La moglie Stella, che ha tenuto una conferenza stampa all’arrivo, visibilmente commossa, ha sottolineato con tutta l’enfasi possibile che “Julian ha bisogno di recuperare: è questa la priorità” e nell’ esprimere la gratitudine del marito a tutti quelli che si sono battuti per la sua libertà, ha detto: “Vi chiedo di darci lo spazio e la privacy per farlo”.
Su quello che farà una volta che si sarà rimesso, è buio pesto. WikiLeaks andrà avanti? L’avvocato americano Barry Pollack, che è parte del team legale di Julian Assange , ha dichiarato che non ci sono limitazioni su quello che il suo cliente potrà fare. Il testo del patteggiamento non le impone, né contiene il divieto di parlare con la stampa o viaggiare in giro per il mondo, a eccezione degli Stati Uniti, in cui Assange non può tornare “senza autorizzazione”. E gli Stati Uniti si sono impegnati “a non incriminarlo per nessuna accusa aggiuntiva [oltre a quella patteggiata] e che sia basata sui comportamenti precedenti a questo accordo, a meno che l’imputato non lo violi”.
Tante volte WikiLeaks è stata data per finita, morta. Tante volte i vaticini funebri sono stati smentiti. Sarà così anche stavolta, o il patteggiamento di Julian Assange segna la fine della sua prigionia, ma anche della sua creatura? L’accordo rivela che le autorità americane gli hanno imposto di restituire o distruggere tutti i documenti che, a oggi, WikiLeaks non ha pubblicato, e Assange si impegna a non cercare informazioni sul suo caso giudiziario con il Freedom of Information Act (Foia) e a non promuovere azioni legali o richieste di risarcimento.
Il testo del patteggiamento rivela anche un’altra informazione cruciale: “Alla data di questo accordo, gli Stati Uniti non hanno identificato alcuna vittima che si possa qualificare [come avente diritto] a un risarcimento individuale” per la rivelazione dei documenti segreti. Dunque nessuna vittima da risarcire. E allora come mai le autorità americane hanno sempre insistito sul fatto che Julian Assange e WikiLeaks avessero messo a rischio centinaia di vite?
Il patteggiamento ha salvato Assange, ma non il giornalismo. L’interazione tra la fonte Chelsea Manning, che passò i 700mila documenti segreti del governo americano, e WikiLeaks è stata criminalizzata come un’associazione a delinquere sulla base di una legge americana del 1917: l’Espionage Act, che non fa alcuna distinzione tra i traditori, che passano informazioni segrete al nemico, e i giornalisti che li pubblicano per rivelare atrocità all’opinione pubblica. Rebecca Vincent, che guida le campagne di Reporters Sans Frontières e che ha seguito sistematicamente il processo di estradizione di Assange, dichiara al Fatto Quotidiano: “Siamo enormemente sollevati che Julian Assange sia finalmente libero: è una vittoria, attesa a lungo, per il giornalismo e per la libertà di stampa, che dimostra che la mobilitazione pubblica funziona! Nessuno deve essere più perseguito per aver rivelato informazioni nel pubblico interesse e l’Espionage Act deve essere urgentemente riformato in modo che non sia mai più usato in questo modo”.
Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2024