Per decenni ha tradotto la grande narrativa Usa
Vivendo fianco a fianco con Hemingway, Ginsberg, Scott Fitzgerald, Kerouac
Racconto di un’esistenza straordinaria e difficile
di Piera Serusi
La voce, al telefono, è ancora quella descritta dai tanti che, questa signora, l’hanno amata, e dai più che l’hanno desiderata. Una voce roca, calda, rotonda. E l’immagini così, come sempre è apparsa sulle foto: bella — un po’ come Simone Signoret — e sorridente. «Ma non sono più carina come una volta sa? È questa malattia che mi perseguita, e la cura di cortisone che mi ha fatto ingrassare trenta chili e poi dimagrire di venti, e la pelle mi è rimasta tutta avvizzita…».
Ha ancora i vezzi di una bambina Fernanda Pivano, ottant’anni a luglio quasi tutti passati a raccontare l’America e a tradurre le opere di quelli che lei chiama «i miei americani», miti come Hemingway Faulkner, Ginsberg, Fitzgerald, Kerouac e altri.
«Mi ha fregato Pavese, sa? Era il 1936 ed io, appena diciannovenne studentessa di lingue a Torino, avevo già chiesto la tesi in letteratura inglese. Un bel giorno ero in piena piscina con alcune amiche e mi compare davanti Pavese, magro come la morte, spettinato e coi pantaloni tenuti su con lo spago. Io lo conoscevo già, era stato mio professore all’Azeglio, ma poi, a metà anno, fu arrestato e mandato al confino in Calabria. Si avvicinò, e mentre diventavo rossa come il costume da bagno che indossavo, mi disse: “Perché non la laurea in letteratura americana? ”. Quella sera mi lasciò in portineria quattro libri, tra questi l’Antologia dì Spoon River, quella con cui Pavese mi ha fregato per sempre… in particolare con quel canto di Francis Turner che ha il cuore malato per via della scarlattina e muore mentre bacia Mary “con l’anima sulle labbra”…».
Così Pavese malinconico e affascinante, andò a casa della Nanda per darle lezioni di letteratura americana, «col permesso di mia mamma, perché a quel tempo noi figlie eravamo rispettose e virtuose».
Ma Pavese non la corteggiava?
«Ma no. Lui, poveretto, era disperatamente innamorato di Tina Pizzardo, una donna crudele che l’ha fatto tanto soffrire e poi l’ha abbandonato».
Pavese, traduttore di punta degli americani per Einaudi, le fece da padrino, nel ’43, per la sua prima traduzione, proprio l’Antologia di Spoon River. Come cambiò da allora, la sua vita?
«Cambiò tutta. Prima cosa avevo modo di far conoscere ai giovani della mia generazione un modo nuovo di vedere la vita. Sa? Noi eravamo come inamidati dal fascismo e dalla guerra, incatenati dalle fanfare di regime e dal supermito della patria che ci costringeva a non guardare più avanti del nostro naso. Ecco, i libri che traducevo raccontavano le storie di poveri cristi sbattuti dalla vita, e un Paese dove c’era democrazia, libertà, e pure anarchia. Erano i nostri sogni… Ma qualche guaio me lo procurò il raccontarli…».
Vuol parlarne?
«Beh, dopo l’Antologia di Spoon River, Einaudi mi dette da tradurre Addio alle armi di Hemingway e nel contratto invece di Fernanda ci scrissero Fernando, col mio indirizzo giusto. Una notte le SS — che non gradivano lo spirito antimilitarista del romanzo — arrivarono in casa per arrestarmi. Io non c’ero, e comunque presero mio fratello Franco perché pensavano che Fernando fosse lui. L’indomani mi recai all’Albergo Nazionale, dove, a Torino, alloggiavano le SS, e trovai i tedeschi che picchiavano mio fratello perché aveva tradotto Hemingway e Franco, pieno di sangue, che urlava che lui non sapeva neanche chi era questo Hemingway. Alla fine li convinsi che Fernando ero io, e mi fecero pedinare da un giovane ufficiale che poi scappò dopo avermi chiesto una cartina topografica. Comunque la mia traduzione venne pubblicata perché Einaudi cedette i diritti a Mondadori…».
Un sacco di guai per niente?
«Ma no! Hemingway sentì parlare di me e mi scrisse una cartolina invitandomi a raggiungerlo a Cortina, dove era in vacanza con la moglie Mary. Era il 1948, avevo trentuno anni ma ero una bambina, eppure era tanta l’emozione che, quando lui mi salutò con un abbraccio, io piangevo e balbettavo».
La vostra diventò una grande amicizia…
«Tanto grande che lui mi chiamava figlia e io lo chiamavo Papa, come Mary. Ricordo con nostalgia quest’uomo che sembrava più vecchio di vent’anni, e la sua saggezza, la sensibilità, la solitudine estrema che nessuno capiva. Lui mi raccontava tante storie, di guerra e di safari; mi spiegava le cose, e si scandalizzava perché io ero astemia, mentre lui non poteva stare senza un fiasco di Valpolicella o una bottiglia di Gordon Gin. E poi ricordo Papa che aveva preso da poco il Nobel per Il vecchio e il mare e mi invitò a raggiungerlo a Cuba dove si stava girando il film. “Me l’hanno dato troppo tardi” mi diceva a proposito del Nobel, e aveva il corpo devastato dagli incidenti del safari e dal male che lo faceva triste. L’hanno ricoverato in clinica, e l’hanno umiliato con gli elettroshock. Non era
più lui quando è tornato a casa…».
Quella con Hemingway non è stata l’unica amicizia con gli americani da lei tradotti…
«Ho conosciuto Kerouac, Burroughs, Faulkner, Corso, Ginsberg e tanti altri. La mia è stata una fortuna sa? Una inaspettata fortuna. Ero carina, umile, e talmente innamorata di questi artisti che riuscivo subito a farmi voler bene. Ciascuno di loro mi presentava agli altri… è anche per questo che ne ho conosciuto tanti».
Con nessuno una storia d’amore?
«Ma no, né d’amore né di sesso, le assicuro».
C’è qualche artista che avrebbe voluto conoscere e non ha conosciuto?
«Oh sì, uno al quale scrivevo lettere d’amore e per il quale ho pianto, ma che non potevo conoscere perché è morto troppo presto: Francis Scott Fitzgerald, il cinico, tenero, sfortunato poeta di grandi romanzi come Tenera è la notte e Il grande Gatsby o Al di qua del Paradiso. Quello che ha raccontato la grassa America del boom economico del primo dopoguerra, della Paura Rossa, del charleston e della rivoluzione giovanile che demolì l’ipocrisia di matrice vittoriana. Io avevo tradotto Tenera è la notte per Einaudi nel ’49, da un’edizione tascabile della Viking Press che avevo trovato con Pavese, subito dopo la guerra, in un negozio di propaganda americana. Poi ero stata in Costa Azzurra, sulle tracce di Fitzgerald e di sua moglie Zelda, con la mia Topolino e a mie spese, e mangiavo crepes perché costavano poco, e mi presi un’ustione di secondo grado perché non avevo i soldi per la crema solare. Lo amai subito, Fitzgerald, perché non è stato capito: lui raccontava quel mondo luccicante, ma denunciava la logica del denaro che lo sosteneva. La stessa che poi l’ha ucciso..».
Una persona che, invece, ha conosciuto e non avrebbe voluto conoscere?
«Scottina… sì, proprio la figlia di Fitzgerald. L’ho conosciuta a Washington nel ’56: severa, efficiente, distante. Mi diceva che non riusciva a capire dove stava la grandezza del padre, dato che — diceva — era solo un alcolizzato che aveva dato un cattivo esempio alla sua generazione. Lo disprezzava, senza mezze misure. Anche lei non lo aveva capito, figlia crudele».
Ma oggi, ci sono in America, scrittori all’altezza di quelli conosciuti da lei?
«Certo che ci sono. Penso a Jay McInerney rivelazione degli anni ’80, e a David Leavitt. Tra i più giovani Marc Leiner autore di Mio cugino gastroenterologo che dice: “Il mio sogno è far ridere la gente”, e Gibson Williams, altro scrittore pieno di humor che fa satira. E ancora, Joyce Carol Oates, coi suoi romanzi neo-gotici, e Grace Palay che col suo stile realista descrive la vita dei quartieri poveri ed è considerata la scrittrice di Stato. Ecco, c’è sempre un grande fermento in America, e i critici che dicono che laggiù nessuno scrive più, beh… non capiscono niente».
Ottant’anni a luglio. Una donna come lei si sentirà realizzata…
«Ma no, proprio per niente guardi… Le sembra realizzata una donna che ha a mala pena i soldi per vivere e che è stata abbandonata dal marito?».
Fernanda Pivano era sposata?
«Sì, negli anni ’40, e con un uomo bellissimo, un architetto molto famoso col quale giravo il mondo. Sono stata pure in Sardegna, quando lui preparava il progetto di un villaggio di minatori vicino a Iglesias. C’era un sindaco gentile che ci portava in giro: a Sant’Antioco, a Calasetta e su, fino a Ittiri, dove ho conosciuto le donne che lavoravano in una piccola e buia filanda e facevano tessuti meravigliosi…».
Ma poi, con suo marito…
«Mi ha lasciata ecco, per andarsene a puttane… L’unica fortuna che ho avuto è stata quella di non avere figli, perché magari sarebbero finiti in galera o drogati… sa, senza un padre…».
Ancora oggi, a distanza di quarant’anni, lei soffre come se suo marito fosse andato via ieri?
«Non è questione di tempo. È che ti manca la persona giusta, quella che nella tua vita ha un posto che nessuno, mai, potrà occupare».
Non un altro uomo, non gli amici, ma il suo lavoro sì?
«Sì, è stato la mia gioia. Tradurre quei pensieri meravigliosi… non mi bastava mai, sa? Io cercavo, cercavo la parola più giusta, quella che poteva restituire meglio il pensiero. Una volta impiegai sei mesi per tradurre una frase di Faulkner lunga sedici pagine senza neanche un punto, zeppa di participi presenti. Ad una conferenza per giovani traduttori dissi loro che dovevano, sempre, prendersi tutto il tempo per trovare la parola giusta. Quando finii il mio intervento Giulio Einaudi mi fece una solenne sfuriata, urlava: “Ma come fanno gli editori se tu insegni queste cose eh?”».
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Ha cominciato col raccontare il sogno americano ai ragazzi della sua generazione. Oggi qual è il suo pubblico?
«Quello dei ragazzi soprattutto, sempre loro. Vengono alle mie conferenze e vengono pure a casa mia, gli adolescenti innamorati, per chiedermi un autografo sulla copia dell’Antologia di Spoon River da regalare alla fidanzatina; ed io la firmo, anche se poi quella non è la traduzione fatta da me…».
Un riconoscimento al suo lavoro, senza dubbio. Ma non le fa amarezza che neanche uno, della trentina di libri, da lei scritti, sia mai uscito in America?
«No guardi, nessuna amarezza, perché le mie soddisfazioni le ho avute eccome! Tutte quelle che, in parte, le ho raccontato, e poi una recente, grandissima: quella di vedere un articolo che mi riguardava sul New Yorker, la più importante rivista letteraria in America: sei colonne sotto un titolo gigantesco che diceva “Grazie, grazie Fernanda” in italiano. Mi dicevano grazie… E dire che è cominciato tutto per colpa di Pavese che mi aveva fatto innamorare di quella poesia… sa, quella dove il povero Turner col cuore malato muore mentre bacia Mary “con l’anima sulla labbra”…».
L’Unione Sarda, 13 Aprile 1997