Epoca esamina la condizione degli scrittori in Italia
Il divino mestiere
di Piero Fortuna
Come si diventa scrittori? Come si rivela questa «divina» attitudine e come si riesce a concretarla nel libro destinato al pubblico? Cioè, quali strade bisogna percorrere per dare all’atto dello scrivere un contenuto pratico? Certo, ci sono i premi letterari, ce l’industria editoriale che fa le sue scelte. Ma tutto ciò porta fatalmente lo scrittore a uscire dalla sua torre d’avorio e a misurarsi col mondo esterno. E di che natura è questo contatto? Esaltante? Deludente? Ambigua? insomma, quali rapporti intercorrono fra lo scrittore e l’editore che stampa e vende i suoi libri? Con i giornali che li recensiscono e che pubblicano i suoi racconti e i suoi elzeviri? O col potere politico, che in Italia è uno strapotere anche sotto il profilo culturale per il controllo che esercita su radio. TV e grandi organi di informazione?
Sono interrogativi interessanti, specialmente nel momento in cui i libri sembrano avviati a diventare un prodotto di largo consumo, almeno rispetto al passato. Per questi motivi Epoca ha promosso un’inchiesta sulla condizione dello scrittore nel nostro paese, interpellando note personalità della letteratura italiana contemporanea.
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PIER PAOLO PASOLINI
È possibile oggi, per uno scrittore vivere bene di letteratura?
No, non è possibile.
Quali sono i rapporti fra scrittore e editore?
Sono rapporti da sfruttato a sfruttatore. Ciò è sia uno schema che la verità. Due cose che, per ragioni diverse, nella vita pratica non contano. Dunque, sono ignorate. Dunque i rapporti tra scrittore e editore si fondano sulla rimozione di questo schema e di questa verità. Da una parte l’ipocrisia, la paura – una povera ansia – dall’altra una speciale forma di «pietas», tengono lontano lo scrittore dall’affrontare i suoi veri rapporti con l’editore. Intendo riferirmi al quadro pratico, quotidiano, di tali rapporti; al legame di amicizia che spesso nasce. È a questo livello «primo» che si forma la figura dello scrittore conte «buffone» ma anche quella dello scrittore come «capro espiatorio». «Buffone» in quanto è uno sfruttato che, per quel po’ che è pagato, «diverte» i padroni e i loro sudditi; «capro espiatorio» in quanto, essendo, per illazione, una figura indicativa. una «guida», gli si rimprovera di accettare la realtà, e quindi di venire a patti con essa.
Come e perché è diventato scrittore?
Se è una domanda personale, non posso rispondere, perché ho cominciato a scrivere a sette anni di età e da allora ho sempre scritto. Da notare che non sono stato precoce, e, se mai, sono rimasto infantile molto oltre i termini normali. I calcoli e le riflessioni sono venuti più tardi (anche a causa della guerra, che mi ha isolato per molti anni proprio nel periodo della vita in cui questi calcoli e riflessioni avvengono); e sono stati sempre indotti, lo non mi sarei mai posto la domanda sul perché scrivo, benché mi sia posto, e subito, istintivamente, tutti i problemi «metalinguistici» concernenti il come.
Quali sono i rapporti tra gli scrittori e i giornali?
Non ho esperienze dirette. Non ho mai fatto il «secondo mestiere» di giornalista. Le mie collaborazioni ai giornali sono sempre state casuali e saltuarie. Solo in quanto critico letterario, in questi ultimi due anni, ho avuto una esperienza giornalistica continua. Il rapporto con un giornale non è molto diverso da quello con una casa editrice. Naturalmente parlo sempre di uno scrittore, il quale lavora prima di tutto perché gli piace, e lo farebbe comunque. Tutto il resto viene dopo ed è per lo scrittore una cosa abbastanza astratta.
Quali sono i rapporti fra lo scrittore e il potere politico?
Davanti a una bellissima chiesa, o a una casa dei secoli passali, provo una profonda ammirazione, che spesso giunge quasi alla commozione. È un sentimento, e non posso impedirmelo. Come non potrei impedire l’apparizione di una nuvola nel cielo, o il canto di una ranocchia. Provo tale sentimento anche se so che quella chiesa, quella casa sono prodotti del potere, cioè dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Anche gli uomini, le donne, i bambini che ho intorno, sono «prodotti» del potere e dello sfruttamento dell’ uomo sull’uomo. Sia pure nel caso che lottino contro il potere e il suo sfruttamento.
Se uno scrittore per esempio pensa alla sua infanzia, e al suo immenso, primordiale universo, tutto ciò che vi ricorda – provando un sentimento ispiratore di irripetibilità e di scoperta – è prodotto del potere. È, cioè, quello che è, perché così l’ha modellato il potere. Ogni forma è una forma modellata dal potere o nell’ambito del potere. La realtà è fatta dal potere. Tutti i sentimenti che la realtà ispira (compreso il sentimento che spinge a esprimerla), li ispira in quanto è realtà fatta dal potere. Coloro (i demoni?) che spingono a rifiutare la realtà perché è realtà del potere, spingono praticamente al suicidio. C’è il momento della lotta, è vero, in cui simile realtà è messa in crisi. Ma chi la mette in crisi, cioè il protagonista stesso della lotta, è fatto di quella realtà. I suoi sentimenti anteriori e primi sono insopprimibili. I rapporti di uno scrittore con il potere sono da una parte continui e infiniti, dall’altra innocenti. Per me il più grande verso che sia stato scritto nel nostro secolo è il verso di Mandel’stam: «Col potere non ho avuto che vincoli puerili».
Poi si capisce, come tutti i cittadini, gli scrittori hanno una vita politica di carattere pratico. Alcuni scelgono l’obbedienza al potere vigente; altri la lotta, magari a oltranza, contro di esso (il che implica l’obbedienza, almeno teorica, all’eventuale potere nuovo). In questo, come tutti gli uomini, sono imperfetti, deboli, incerti, eccetera eccetera. Ciò viene violentemente rimproverato loro. Da chi? Da altri scrittori. Per esempio da Giorgio Bocca.
Epoca, 25 gennaio 1975