Veneziani: Provengo da studi filosofici e ho scritto alcuni libri di filosofia politica e di storia delle idee. Mi occupo del Novecento, ma sono anche giornalista, ed ho fondato alcune riviste. Ho però un “vizio incurabile”: sono liberamente, ma profondamente, di destra. Introduzione: In dextro tempore era un’espressione usata nell’età classica, per indicare tempi buoni e augurali, poiché la parola destra si identificava sempre con la pienezza dell’essere, con il bene, con l’Alto. Se il linguaggio della classicità era abbastanza chiaro su questo concetto, come su quello opposto di sinistra, negli ultimi due secoli si giunge al rovesciamento del significato della coppia destra-sinistra, cosicché oggi ci si trova nella quasi impossibilità di definire con chiarezza, considerando la realtà e la storia italiana di questo secolo, proprio uno dei due termini, che sembrava il più semplice: la destra, e con essa i suoi valori di ieri, ma soprattutto di oggi.
Con il superamento delle ideologie politiche e con il capitalismo come unico modello economico, quali sono, al giorno d’oggi, le differenze tra destra e sinistra e quali quelle tra la destra italiana e la nuova destra dei valori, di cui Lei è il banditore?
Diciamo subito che in effetti si sono confuse destra e sinistra, negli ultimi tempi. Però, a voler essere più precisi, quello che distingue oggi la destra dalla sinistra è che la destra crede molto alle radici, ai valori di un radicamento, mentre la sinistra crede molto ai valori di liberazione, di emancipazione. Credo che questo sia lo spartiacque. Indubbiamente nel paesaggio di oggi il grande problema è il dominio del capitalismo, che sembra triturare tutto e non lasciare spazio né alla destra né alla sinistra. Io credo all’importanza di una destra dei valori e dei principi e per questo mi differenzio da una destra troppo elettorale, che pensa soltanto a fare voti e non a prendere, come dire, a pensare la politica. Quindi credo che sia importante affrontare la destra sia sul piano politico sia sul piano culturale. Il mio è un discorso di civiltà, di società, non è un discorso partitico e quindi credo che sia importante.
Esiste una destra razionale ed una irrazionale o mistica? Quali sono i valori che le differenziano?
Sì. Io parlerei, più che di destra razionale e irrazionale, di una destra realista, che fa i conti con la realtà, che ha i piedi per terra, e di una destra invece romantica, a cui piacciono le grandi passioni. Io credo che sia un errore separarle, perché il romanticismo è il grande carburante per far andare avanti le idee, mentre il realismo è il necessario ingrediente per poi farle calzare alla realtà. Quindi credo che siano due aspetti di una stessa medaglia.
La destra viene spesso considerata “conservatrice”. “Conservare”, per definizione, vuol dire mantenere qualcosa in maniera tale che non cambi. Di conseguenza il conservatore è colui che tende a non cambiare. È possibile, in una società come la nostra, in continuo movimento e di conseguenza in continua mutazione, mantenere il proprio istinto, per così dire, di conservazione?
Io credo che una delle parole più impronunciate in Italia sia quella di “conservatore”. Sembra quasi un insulto o un’offesa. Io invece sostengo che bisogna riprendere questo termine, non perché sia bene che una società non cambi, ma perché, accanto proprio alla vertigine del cambiamento, è necessario avere dei valori di ancoraggio, perché, proprio perché si accelera il mutamento, è necessario dall’altra parte avere la possibilità di aggrapparsi a qualcosa che non cambia. Io mi definisco un rivoluzionario conservatore — e ho scritto anche un libro su questo — ritenendo che sia importante da una parte modernizzare, assecondare il cambiamento tecnologico, ma dall’altra parte tener presente che il cambiamento serve all’uomo e l’uomo, fino a prova contraria, ha delle radici che non cambiano: il bisogno religioso, il bisogno di comunità; il bisogno di pensare ad alcuni principi, ad alcuni valori di solidarietà e di identità collettiva. Quindi credo che sia importante che si sia anche conservatori, non solo conservatori.
Nei valori di destra entra anche l’idea di nazione. Lei non crede che in una società cosmopolita come la nostra, che tende a farsi globale, sia comunque inutile parlare ancora di nazione?
Oggi viviamo due fenomeni opposti: quello di globalizzazione e quello di tribalizzazione. Man mano che cresce il villaggio globale, cresce anche il villaggio delle tribù: i localismi, le leghe. Io credo che sia necessario un termine medio, che possa equilibrare tra questa voglia di disperdersi nel cosmo e questa voglia di chiudersi in casa e di trincerarsi nella tribù. È perciò utile che ci sia la nazione, ma oltre che utile è giusto, perché tutti noi abbiamo un repertorio di immagini, di radici, di memorie collettive, abbiamo un linguaggio che parliamo ed è un linguaggio da italiani. Io credo che questo sia un valore, che non possiamo cancellare. Noi dobbiamo imparare a convivere con l’idea di patria, ma coniugandola non più con l’idea di aggressività verso le altre patrie, ma con un’idea positiva, cioè di riconoscimento della propria patria e anche delle altre patrie.
Secondo Lei perché nasce il villaggio globale? Per un sentire comunitario reale o per coltivare interessi politico-economici?
Il villaggio globale nasce soprattutto per due fattori: la tecnologia e l’economia. La tecnologia e l’economia portano ad abbattere le barriere, a superarle a creare una società in cui tutto si trova da per tutto e tutti sono uguali da per tutto. Io credo che questo possa essere un bene per certi versi, ma un male per altri versi. Ritengo che sia importante, proprio perché andiamo verso questa società che non ha confini, riuscire a riconoscere il valore delle radici, perché altrimenti finisce che non riusciamo più a distinguere non solo la realtà di popoli, ma anche di persone, perché diventiamo tutti intercambiabili. Quando noi possiamo mangiare le stesse cose, qui come in India, noi abbiamo perso una ricchezza, che è la diversità. Senza diversità non c’è possibilità di vivere a fondo la propria umanità. Quindi credo che sia un fatto che dobbiamo leggere criticamente, senza toni apocalittici, però molto criticamente.
Crede sia giusto fare una differenza fra valori di destra e di sinistra?
Io credo che ci siano dei valori condivisi, cioè dei valori che comunque accomunano destra e sinistra, che devono essere il rispetto della persona, il rispetto della libertà, della democrazia, e così via. Però accanto a questi valori, che comunque dovrebbero essere comuni, ci sono anche altri che sono valori specifici della destra e valori specifici della sinistra. Io credo che sia un fatto positivo che in una società democratica, in una società che abbia cioè capacità di trasmettere le diversità, che ci sia anche la possibilità di scegliere tra opzioni diverse, tra culture diverse, tra valori diversi. A questo proposito io credo che sia importante capire la biografia della destra e della sinistra, capire perché nasce questa passione di destra. Io ho portato qui con me un libro che ho letto alla vostra età, che si chiama Così parlò Zarathustra, un libro molto noto, un libro di Nietzsche, un libro per tutti e per nessuno. Credo che questo libro sia stato un po’ un libro importante per i valori della destra, anche se Nietzsche è stato una specie di autore che ha fatto da cerniera tra destra e sinistra, anzi ha mandato in corto circuito i valori di destra e i valori di sinistra. A questo proposito, proprio del corto circuito di destra e sinistra, vorrei sottoporre alla vostra attenzione un’intervista ad Alain De Benoist, che è un filosofo della nuova destra francese, e che è proprio uno di quelli che sostiene che destra e sinistra sono andate in corto circuito dopo Nietzsche. Domanda a Alain De Benoist: Tutti la conoscono come teorico e pensatore della Nuova destra. Lei accetta questa etichetta che altri Le hanno attribuito? De Benoist: Questa etichetta non è stata inventata da me. È stata inventata dai mass media per designare una corrente di pensiero intellettuale, culturale, ma non un movimento politico. I media hanno pensato che questa corrente si situasse piuttosto a destra e così hanno detto: ecco la nuova destra. Da allora l’etichetta è rimasta. Ma non mi piace molto questa etichetta. Certo preferisco la nuova destra alla vecchia, ma l’etichetta è equivoca, soprattutto perché dà una risonanza direttamente politica ad una corrente di pensiero che è piuttosto culturale e filosofica. Inoltre trovo che oggi le nozioni di “sinistra” e di “destra” siano, se non addirittura obsolete, in ogni caso polisemiche. Fino al punto che se uno dice oggi: “Sono di destra”, oppure “di sinistra”, non sappiamo ancora nulla sulle sue concrete opinioni. Consideriamo il mio caso personale, le mie idee. Se si è “di sinistra” perché si è contro i disastri dovuti alla concorrenza generalizzata, all’individualismo sfrenato, alla legge della giungla liberale, eccetera, ebbene allora io sono “di sinistra”. D’altro canto però credo molto alla vita comune, alle comunità tradizionali, alle solidarietà organiche. E questo è un tratto tipico della destra. Ma alla fine, se riunite i due punti di vista, cosiddetti di destra e di sinistra, troverete anche il punto in comune. Si tratta di sapere se il centro della società sia l’individuo oppure ammettere che l’individuo è, sin dall’inizio, un cittadino. La grande lotta del futuro non è la lotta destra-sinistra, sarà la lotta tra il centro e la periferia, tra le persone che vogliono un mondo dove tutto abbia un prezzo e coloro che credono che il mondo debba avere un senso e quindi un valore. Veneziani: De Benoist ha ragione a dire che in effetti “destra” e “sinistra” sono categorie un po’ ballanti, sono delle bucce, però dobbiamo pur definirci per chiarirci, altrimenti creiamo la Babele, la confusione. Quindi, pur con questa relatività di espressioni, credo che sia utile ancora usare, per quel che è possibile, l’espressione di “destra” e di “sinistra”.
Non crede che ultimamente certi valori di destra e di sinistra si stiano confondendo?
Sicuramente sì, si stanno confondendo. Credo anzi che si stiano creando due aggregazioni diverse: c’è un’aggregazione tra una destra e una sinistra moderate e un’aggregazione tra una sinistra e una destra non moderate. In particolare si sta andando verso un nuovo tipo di pensiero bipolare. Questo avviene in molte democrazie occidentali, cioè da una parte c’è una specie di pensiero liberale, che punta molto sull’individuo e sulla società mondiale, e dall’altra parte c’è invece una visione comunitaria, il pensiero comunitario, che invece punta non sull’idea liberale dell’individuo e della società globale, ma sull’idea della collettività, del vivere insieme, della solidarietà tra le persone. Ecco questi due nuovi schieramenti in effetti stanno ridisegnando le categorie di “destra” e di “sinistra”. Quindi ci sono in effetti degli attraversamenti.
Prima si è parlato di sentimento comunitario, come presupposto del villaggio globale. Volevo chiedere se, con l’affermarsi di questo sentimento unitario e quindi il sentirsi parte di una unica tipologia di pensiero e di comportamento, non si lede la libertà individuale e quindi non si condiziona il comportamento, il pensiero di ogni individuo e del modo di relazionarsi agli altri?
Io ne sono convinto. In effetti sono convinto che andiamo verso la società globale, ma non andiamo verso un sentire comunitario. Andiamo verso una società di monadi, cioè di persone del tutto isolate dal resto del mondo, e una società senza frontiere. Il pensiero comunitario invece è un pensiero che valorizza lo stare insieme, ma non la società uguale, la società uniforme. A me preoccupa un fenomeno che viene oggi definito di “pensiero unico”. Cioè si sta creando un unico pensiero, che va bene da per tutto e che praticamente sfascia le categorie di destra, sinistra, di religioso e irreligioso. Ecco credo che sia questo un pensiero pericoloso. E quindi sono perfettamente d’accordo. C’è questo pericolo che si perdano, direi più che i valori dell’individuo, i valori della persona; perché la persona è l’individuo con un volto, con un’anima, con una storia, e vale di più di un individuo, che è soltanto una entità nuda e insignificante.
L’idea di nazione può essere considerato come un valore fine a se stesso, con l’intento quindi di creare un divario tra questa idea di nazione e il nazionalismo vero e proprio?
Noi dobbiamo liberarci dal nazionalismo, che è la caricatura scimmiesca dell’idea di nazione. Il nazionalismo ha un’idea aggressiva dell’idea di nazione, cioè è convinto che la mia nazione sia migliore della tua, e quindi nasce da un’idea di darwinismo politico e sociale, cioè vince il più forte. Invece noi dobbiamo arrivare a un’idea di nazione — io preferisco l’espressione “patria” —, in cui sia salvato il valore positivo, cioè il legame con le proprie origini, con la propria comunità, con la propria lingua, cultura, tradizione, ma non sia giocata contro gli altri, ma sia vista al contrario come una forma di riconoscimento delle diversità. Quindi la tua patria non è nemica della mia patria, ma anzi la tua patria e la salvezza della tua patria è necessaria per salvare anche la mia, perché solo se riconosciamo valore alle patrie, possiamo riconoscere valore anche alla mia patria. Quindi, diciamo, l’avversario della patria non è la patria degli altri, ma è l’assenza di patria, cioè la convinzione che il mondo sia fatto da esseri apolidi, individui spostabili, intercambiabili, del tutto neutrali, che rispondono solo alle leggi del mercato e della tecnica.
Lei sostiene che noi siamo schiacciati da una struttura globale e dalle tribù locali. Questa globalizzazione non riguarda soltanto i bisogni e i consumi? Ci sarà posto per un sentire comunitario soltanto quando ci saranno, ci sarà anche una globalizzazione dei valori, che mettono l’uomo al centro delle scelte politiche e sociali?
Io attualmente vedo una globalizzazione delle merci più che dei valori, o dei valori trattati come merci. E quindi mi preoccupa questa forma di globalizzazione. Io credo che ci debbano essere dei valori comuni all’umanità, perché altrimenti non potremmo vivere insieme, però accanto a questi valori comuni è bene che ci siano le diversità, perché le diversità sono il sale del mondo ed è necessario che queste diversità siano tutelate. Quando io sento dire che il messaggio planetario è quello di pace: tutti fratelli, nessuno deve avere più, come dire, valori specifici, mi preoccupa, perché ho l’impressione che sia soltanto un rivestimento di una specie di supermercato universale. Invece è necessario recuperare il bagaglio di passioni, il bagaglio di tradizioni, il bagaglio anche di miti. Il bisogno di mito, il bisogno di grandi passioni, di grandi sogni, è forte, e credo che non riguardi soltanto i giovani di destra. Credo che sia importante sottolinearlo, perché abbiamo bisogno anche di quest’altra realtà, oltre quella che ci dà il mercato. Non bastano le merci: vi è anche la necessità di avere miti. Noi dobbiamo anche saper sognare. Non possiamo accontentarci soltanto del conto in banca e del posto fisso. È necessario guardare anche oltre.
L’idea di nazione è imprescindibile dalla concezione dello Stato come un valore?
Io credo che oggi ci sia davvero la necessità di ripensare all’idea di Stato, perché noi viviamo da tanto tempo una specie di denigrazione continua dell’idea di Stato. Lo Stato va tagliato, lo Stato va ridotto. Finché si parla di statalismo è giusto far dimagrire questo Stato. Però, quando si parla dell’idea di Stato, si parla del luogo in cui sono tutelati e rappresentati gli interessi e i valori collettivi, quindi gli interessi di una collettività. Di fronte ai grandi gruppi finanziari, che comandano, di fronte alle esigenze del mercato, è necessario che ci sia un contrappeso. Questo contrappeso è dato dall’idea di Stato. Credo che sia importante salvare lo Stato dallo statalismo e far rinascere nel nostro paese il senso dello Stato, che è poi il senso del legame con gli altri, il rapporto fiduciario con le istituzioni, la coscienza pubblica. Da noi non c’è sufficiente coscienza pubblica. Io credo che una destra moderna debba porsi anche questo problema. Quindi non liberismo selvaggio, ma tentare anche di pensare alla realtà, diciamo così, collettiva, attraverso lo Stato.
Secondo Lei cosa cerca l’individuo nella tentazione per la cultura new age?
Io credo che sia insoddisfatto da una parte della realtà sociale e civile del nostro paese e in generale del nostro Occidente, che è piuttosto avaro di valori e di spiritualità, e quindi ha voglia di uscire da questo materialismo goffo, edonista, che ci caratterizza a livello planetario. Dall’altra parte forse ha bisogno di dare maggiore smalto alle religioni tradizionali, perché si accorge che spesso le religioni tradizionali, come dire, alimentano discorsi di fede, ma non grandi passioni di fede. Oggi c’è indubbiamente un ateismo strisciante nella nostra epoca, allora cerchiamo surrogati, persino gli oroscopi sono dei surrogati. Però non è soltanto un bisogno marginale, superficiale, non è soltanto moda. C’è qualcosa di sostanzioso, dietro questi fenomeni new age. Quindi credo che sia importate scavare dietro il fenomeno che “fa tendenza”, per vedere qual è il malessere profondo che ci portiamo appresso e che cerchiamo in qualche modo di rappresentare attraverso questi, queste passioni di spiritualità e di religiosità esotiche, che vengono un po’ a buon mercato.
Quindi Lei sostiene che questo ritrovamento della spiritualità new age non sia altro che un’evasione dalla spiritualità ordinaria?
No, credo che sia una risposta insufficiente a una domanda vera. Cioè la risposta è insufficiente, perché spesso ci attacchiamo, o si attaccano, ad alcuni riti, non so il vestirsi arancione, il raparsi i capelli, il cercare cioè, creare simbolicamente alcuni passaggi, per arrivare ad un’altra concezione, a un’altra visione del mondo. Comprensibili, ma insufficienti per far nascere una nuova religione. Quello che invece resta di profondamente inevaso è il bisogno di spiritualità, cioè questa voglia di sacro, il rapporto con la morte che noi abbiamo superato, abbiamo eluso, a cui non rispondiamo. E quindi, non avendo avuto delle risposte sociali, anzi avendo dalla società sempre una visone ottimista, fondata anche dai messaggi televisivi, il bell’applauso per il quiz, il giochino, eccetera, cerchiamo poi di dare fondamento, sostanza, a questi nostri pensieri e a queste nostre pulsioni. E allora ci attacchiamo a quello che passa il convento, e spesso i conventi sono rappresentati appunto da fenomeni di neo-spiritualità, questi fenomeni un po’ passeggeri. Ma credo che siano fenomeni con cui debbono fare i conti sia la destra che la sinistra, soprattutto se credono ad una dimensione comunitaria, se credono ad una visione che, in qualche modo, rappresenti lo stare insieme, l’essere insieme, il pensare insieme a ciò che ci aspetta. Ecco, da questo punto di vista credo che sia importante recuperare la dimensione del sacro, perché l’uomo non può vivere senza la dimensione del sacro. Può declinarla diversamente, in modo differente rispetto alle religioni del passato. Ma l’uomo ha bisogno di religione. Oserei dire che l’uomo ha bisogno di santi, anche.
Credere nel mito non è solamente una moda, soprattutto oggi giorno?
C’è anche il fenomeno di moda. Anzi molto spesso fenomeni che non sono miti, lo diventano grazie alle mode. Spesso ci attacchiamo a miti di secondo piano, o, se vogliamo, di seconda mano. Spesso ci attacchiamo anche a personaggi, che vengono mitizzati e che in realtà miti non sono. Quindi indubbiamente, quando non c’è la realtà, poi ci si attacca anche ai surrogati. Quindi bisogna avere anche capacità critica. Ecco, una cosa che forse dobbiamo acquisire, e qui rientra in gioco il discorso della destra e della sinistra, è questa: cioè che avvicinarsi al mito non vuol dire liberarsi della ragione, e quindi avvicinarsi in modo cieco, passivo, irrazionale. Dobbiamo avvicinarci al mito anche con senso critico, per sapere distinguere ciò che è caricatura da ciò che è realtà, ciò che è sostanza. Quindi non è vero che il mito sia contrapposto al logos, come dicevano gli antichi, cioè che si contrapponga alla ragione. È necessario invece che il mito si sposi anche alla ragione. E forse da questo punto di vista credo che a destra si debba ripensare criticamente all’approccio solo emozionale, emotivo, che ha avuto il mito.
Lei come esponente di destra come si pone davanti agli episodi di razzismo che avvengono in Italia? Rappresentano valori di destra?
Io credo innanzi tutto che il fenomeno del razzismo nelle nostre società sia più pronunciato proprio perché andiamo verso l’uniformità. Cioè, quando non si riconosce la diversità delle persone, la giusta diversità delle persone, allora si creano fenomeni di reazione, come può essere il razzismo. Non è un caso che nella società multirazziale più forte, quella americana, il razzismo abbia mietuto vittime molto più che altrove, nei nostri anni. E quindi credo che sia importante recuperare il valore e la cultura delle differenze e rispettare le altre culture in quanto tali. Perché un grande errore è credere che tutto sia intercambiabile. Come le culture che appartengono al mondo orientale o al mondo nero, per intenderci, non sono rappresentate, perché ormai viviamo in un’unica cultura. Invece solo riconoscendo valore alle altre culture, noi possiamo riconoscere valore anche alle persone, che sono di razza differente. E quindi è importante acquisire questo. Credo che l’argine più forte al razzismo non sia l’idea di una società mondiale, ma sia, al contrario, di un società che rispetti le differenze e che quindi rispetti un uomo nero perché nero, rispetti un uomo indiano perché indiano, con la sua cultura, con la sua tradizione. Il
vero nemico del rispetto delle differenze è proprio la società uniforme.
Comunemente pensiamo che sia l’ideologia politica a nascere dai valori, ma non è possibile che, alcune volte, sia l’ideologia politica a far nascere dei valori e ad affermarli?
Io ho l’impressione che le ideologie siano una specie di sottoprodotto dei valori. Cioè l’ideologia è il tentativo di sottomettere i valori alle esigenze di partito, perché l’ideologia in sé come espressione vuol dire un sistema di valori. Quindi dal punto di vista, diciamo, formale è una cosa di cui tutti si devono augurare, cioè è giusto che le forze politiche abbiano un sistema di valori. Però vediamo come ha funzionato l’ideologia nei nostri anni Settanta, per esempio. Ha funzionato come sacca di intolleranza, innanzi tutto, quindi come aggressioni, violenze, devo dire da entrambi le parti, e dall’altra parte ha funzionato anche da esaurimento dei valori della ricerca dei principi e da subordinazione dei valori alle esigenze di partito. Per questo è necessario che valorizziamo le idee rispetto alle ideologie e i valori rispetto ai contenitori ideologici, nei quali sono stati spesso costretti a convivere idee anche diverse. Credo che sia necessario superare questa fase. Però dobbiamo anche aggiungere un’altra cosa, cioè che noi ci siamo liberati dalla società ideologica, che era la società che vedeva tutto in funzione di contrapposizioni politiche, ma siamo entrati in una società che non è migliore della precedente, in cui ci sono altre forme di barbarie, altre forme di intolleranza, di noncuranza degli altri. Quindi non credo che, liberandosi dalle ideologie, ci si debba per forza, come dire, sposare ad una società finalmente affrancata da tutto, finalmente libera di esprimersi. Credo che nascano altre preoccupazioni ed altri impoverimenti. Quindi è necessario recuperare il senso dei valori, nonostante le ideologie del passato.
Come mai Lei è di destra, visto che non sembra? Quali sono i valori in cui crede?
Io debbo dire subito che spesso la parola “destra” viene associata a una connotazione negativa. Oggi “destra” è un insulto. Devo dire che, fino a vent’anni fa, lo era ancora di più: oggi un po’ di meno. C’è però ancora l’idea che “destra” voglia dire qualcosa di negativo. Perché? Perché il potere culturale della nostra società, delle società occidentali ma di quella italiana in modo particolare, è nelle mani di fabbricanti di opinione che sono in prevalenza orientati o a sinistra o nei paraggi. Di conseguenza tutto ciò che è destra è visto come negativo. Ora io ho avuto la possibilità di andare in televisione, ho avuto la possibilità di scrivere anche su giornali a circolazione diversa, e molti si sono accorti che in fondo non mordevo, in fondo ero uno di destra, ma non mangiavo le persone. Allora hanno pensato che fossi io la anormalità, diciamo così, del paesaggio, fossi uno di destra, ma un po’ di sinistra. In realtà non è così. In realtà c’è un difetto di conoscenza delle persone di destra. Se si conoscessero le persone di destra si troverebbero persone con i pregi e i difetti delle altre persone, ma persone che hanno, diciamo così, sia curiosità e sensibilità culturali, sia insensibilità culturali, esattamente come quelle di sinistra. Perché io sono di destra? Ma, diciamo, che lo sono diventato un po’ per anticonformismo, perché negli anni in cui ho cominciato a pensare politicamente, a quindici anni, sedici anni, essere di sinistra era quasi un obbligo, un dovere. Si aveva difficoltà anche ad andare a scuola. Ecco, e a me, che piace un po’ essere bastian contrario, ho preferito andare dall’altra parte. Poi mi piaceva anche, come dire, essere trasgressivo, rispetto a alcune esperienze del nostro presente. E poi non mi piaceva la società nella quale vivevo, nella quale vivo. Non mi piace il materialismo di questa società, non mi piace il pensare ognuno ai fatti propri, non mi piace l’insensibilità verso l’idea di patria, l’insensibilità verso alcuni valori comunitari, non mi piace la convinzione tutto sommato che la nostra società possa vivere soltanto funzionando, cioè rispondendo a degli imperativi economici. È per questo che sono diventato di destra e poi, man mano ho acuito, come dire, il mio antagonismo rispetto alla sinistra, anche perché i toni che usavano erano di una tale intolleranza, che alle volte, ecco, ci si irrigidiva sulle proprie posizioni. E quindi anche per questo ho rafforzato la mia idea di destra, proprio attraverso le difficoltà che ho incontrato nel rappresentare le mie idee di destra.
Lei come si pone davanti all’atteggiamento che la destra ha avuto da vent’anni a questa parte e al tono violento che tutt’oggi continua ad assumere di fronte ad alcune situazioni e, diciamo, anche nelle sue espressioni?
Ma io credo che ci possano essere stati toni violenti da parte di una destra, ma non dimentichiamo che oggi viviamo in un sistema bipolare, in cui in un polo, sia di destra che di sinistra, convivono sia destre civili che destre incivili, così come convivono sia sinistre civili che sinistre incivili. Quindi credo che bisogna innanzi tutto fare questa tara. Poi bisogna vedere che cosa si intende per aggressività, perché se si intende l’aggressività nel senso di toni, come dire, non giusti usati, si può essere d’accordo. Ma se per esempio si intende un’idea diversa rispetto a quella comune su alcune opinioni, non vedo perché debba essere considerata aggressiva. Prendiamo per esempio il problema dell’immigrazione. Ecco il problema dell’immigrazione; io credo che sia un grave errore sia la intolleranza, il dire: “Cacciate fuori tutti gli immigrati”, sia l’idea opposta, cioè: “Sfondiamo le frontiere e facciamo entrare tutti”. Perché, facendo entrare tutti, noi innanzi tutto creiamo caos sociale, in secondo luogo non garantiamo quelli che vengono, perché diventano soltanto una massa di manovra per la droga, per il racket clandestino, per la prostituzione. Mentre, se noi riusciamo a filtrare, nei limiti del possibile, l’immigrazione, cioè a garantire che entrino non in tanti, ma fare in modo che quelli che entrano abbiano pari diritti dei cittadini italiani, allora forse riusciamo ad assumere un atteggiamento diverso. Quando la destra dice: “Andiamo piano con l’immigrazione”, non lancia un messaggio aggressivo, lancia un messaggio che alcune destre magari considerano aggressivamente, ma che altre destre considerano un modo per temperare questo passaggio ad una società più aperta, ma per temperarla con un certo equilibrio, cioè senza esagerare e senza creare danni. Oltre tutto c’è il Vangelo che dice; “Bussate e vi sarà aperto”, ma non dice: “Sfondate la porta ed entrate tutti”. Qualcuno entra e gli diamo posto, ma se entrano in duecento non abbiamo più posto, e si crea una società invivibile. Quindi quando si dice: “Filtriamo l’immigrazione, regoliamo immigrazione e rimandiamo gli immigrati clandestini”, io credo che si esprima una proposta di buon senso.
Secondo Lei si può essere tradizionalisti e rivoluzionari allo stesso tempo? Se sì, come è possibile?
Io vivo questa contraddizione. E probabilmente si vede. Vivo questa contraddizione, ma il problema è che è una contraddizione che non è radicale come si può pensare, perché si può essere tradizionalisti, nel senso che si crede ad alcuni principi e alla immutabilità di alcuni valori, però poi, sul piano sociale, sul piano politico, ci accorgiamo tutti che dobbiamo vivere la modernità, che dobbiamo usare il cellulare, che dobbiamo comunque usare la tecnologia. E allora si può essere innovatori, dal punto di vista delle situazioni sociali e si può essere conservatori dal punto di vista dei principi. Anzi io credo che l’unica rivoluzione possibile sia proprio questa, cioè quella di modernizzare il sistema sociale, modernizzare lo Stato, la macchina della pubblica amministrazione e tutto il resto, ma dall’altra parte lo si può fare soltanto se si vive una certa continuità con il nostro passato, altrimenti diventiamo figli di nessuno e andiamo verso nessuno. Quindi rivoluzione e tradizione per me convivono. È una bella tensione, ma è l’unica scommessa che secondo me vale la pena praticare, perché è l’unica scommessa che ci può portare lontano.
Il Grillo, 5 dicembre 1997