Jung riflette sui suoi ricordi e sulle immagini che hanno tormentato i suoi pensieri riguardo all’aldilà, cercando una risposta alla correlazione tra la vita terrena e quella ultraterrena. Pur non avendo mai scritto in modo esplicito su questo argomento, egli esplora come la ragione critica moderna abbia eliminato l’idea di una vita dopo la morte, sostenendo che gli uomini, identificandosi esclusivamente con la loro coscienza limitata, abbiano perso il contatto con il lato mitico e l’inconscio. Tuttavia, Jung sottolinea l’importanza del mito e delle esperienze psichiche, come sogni e fenomeni sincronistici, che possono fornire indizi significativi sull’esistenza ultraterrena, sebbene rimangano ipotetici.
Attraverso esperienze personali e considerazioni filosofiche, egli esamina il ruolo dell’inconscio e della parapsicologia nella comprensione dell’aldilà. Racconta storie di premonizioni e fenomeni sincronistici che suggeriscono una connessione tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Egli riconosce che la conoscenza derivata dall’inconscio, pur essendo spesso in contrasto con la ragione, arricchisce la vita psichica e può offrire una visione più completa dell’esistenza. Conclude che, sebbene non vi siano prove definitive della vita dopo la morte, le intuizioni e i miti derivati dall’inconscio possono dare significato e speranza alla nostra comprensione dell’aldilà.
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Ciò che ho da dire sull’aldilà e sulla vita dopo la morte consiste interamente di ricordi, di immagini nelle quali ho vissuto, e di pensieri che mi hanno travagliato. Questi ricordi in un certo modo sono anche a fondamento delle mie opere; poiché queste non sono altro, in fondo, che tentativi sempre ripetuti di dare una risposta al problema della correlazione tra l’«al-di-qua» e l’«aldilà». Ma io non ho mai scritto expressis verbis sulla vita dopo la morte; perché allora avrei dovuto documentare le mie idee, e non ho avuto modo di farlo. Comunque, quali che siano, voglio ora manifestarle.
Anche adesso non posso fare altro che raccontare storie sull’argomento: mythologhéin. Forse bisogna essere vicini alla morte per acquistare la libertà necessaria per parlarne. Non è che io desideri o non desideri che vi sia una vita dopo la morte, infatti, preferirei non nutrire pensieri di tal fatta. Pure devo dichiarare, per essere sincero, che, senza desiderarlo e senza fare alcunché per provocarli, pensieri di tal genere mi aleggiano intorno. Non so dire se questi pensieri siano veri o falsi, ma so che ci sono, e che possono manifestarsi, se non li soffoco per qualche preconcetto. La prevenzione paralizza e danneggia la piena manifestazione della vita psichica, che conosco troppo poco per presumere di poter correggere. La ragione critica ha apparentemente eliminato, insieme con altre concezioni mitiche, anche l’idea della vita dopo la morte. Ciò può essere accaduto solo perché oggi gli uomini per lo più si identificano quasi esclusivamente con la loro coscienza, e credono di essere solo ciò che conoscono di se stessi. Eppure quanto questa conoscenza sia limitata può capirlo chiunque possegga anche solo un’infarinatura di psicologia. Il razionalismo e il dottrinarismo sono malattie del nostro tempo: pretendono di saper tutto. Invece ancora molto sarà scoperto di ciò che oggi, dal nostro limitato punto di vista, riterremmo impossibile. I nostri concetti di spazio e tempo hanno solo validità approssimativa, e lasciano perciò vasto campo a discordanze relative o assolute. In considerazione di tutto ciò io porgo un orecchio attento a tutti gli strani miti dell’anima e osservo i vari avvenimenti che mi capitano senza considerare se essi si adattino o no alle mie premesse teoriche.
Sfortunatamente oggi si dà ben poco sfogo al lato mitico dell’uomo: esso non può più creare miti. Così molto gli sfugge: poiché è importante e salutare parlare anche di cose incomprensibili. È come raccontare una bella storia di spettri stando accanto al camino e fumando la pipa.
Certamente non sappiamo che cosa «in verità» significhino i miti o le storie sulla vita dopo la morte, o quale specie di realtà nascondano. Non possiamo dire se posseggono alcuna validità al di là del loro indubitabile valore di proiezioni antropomorfiche. Dobbiamo anzi renderci conto che non v’è possibilità di raggiungere la certezza su cose che trascendono la nostra ragione.
Non possiamo rappresentarci un altro mondo, governato da leggi affatto diverse, perché viviamo in un mondo specifico che ci ha aiutato a formare le nostre menti e a stabilire le nostre condizioni psichiche. Noi siamo rigorosamente limitati dalla nostra struttura innata, e pertanto legati con tutto il nostro essere e il nostro pensiero a questa nostra terra. L’uomo mitico, certamente, esige «che si vada oltre», ma l’uomo che ha responsabilità scientifiche non può consentirlo. Per l’intelletto il mythologhéin è una speculazione futile; ma per l’anima è un’attività salutare, che dà all’esistenza un fascino che ci dispiacerebbe perdere. E non c’è alcuna buona ragione per doverne fare a meno.
La parapsicologia considera come una prova scientificamente valida di una vita ultraterrena il fatto che i morti si manifestino – o come spettri o attraverso un medium – e comunichino cose che solo essi possono sapere. Ma anche se esistono casi così ben documentati, rimane sempre il problema di sapere se lo spettro o la voce appartengano alla persona defunta o siano una proiezione psichica, e se le cose dette realmente provengano dai defunti o da una conoscenza che potrebbe esistere nell’inconscio.1
Lasciando da parte gli argomenti razionali contro ogni certezza in queste questioni, non dobbiamo dimenticare che per la maggior parte degli uomini significa molta supporre che le loro vite possano avere una indefinita continuità al di là dell’attuale esistenza. Vivono così più ragionevolmente, si sentono meglio, stanno in pace più facilmente. Hanno secoli, hanno un inimmaginabile periodo di tempo a propria disposizione! Perché allora questo assurdo affannarsi?
Naturalmente tale ragionamento non può applicarsi a tutti. Ci sono uomini che non sentono la brama dell’immortalità, e che rabbrividiscono al pensiero di sedere su una nuvola e di suonare l’arpa per diecimila anni! Ci sono anche di quelli che sono stati tanto colpiti dalla vita, o che provano un tale disgusto della loro esistenza, da preferire di gran lunga l’assoluta cessazione alla continuità nel tempo. Ma nella maggioranza dei casi il problema dell’immortalità è così pressante, così immediato, e anche così radicato, che dobbiamo osare farcene un’opinione. Ma come?
La mia ipotesi è che possiamo farlo con l’aiuto degli indizi che ci vengono dall’inconscio, per esempio nei sogni. Di solito respingiamo questi indizi perché siamo convinti che il problema non sia suscettibile di soluzione. Replicando a questo comprensibile scetticismo, propongo le seguenti considerazioni. Se c’è qualcosa che non possiamo conoscere, necessariamente non dobbiamo più considerarlo come un problema intellettuale. Per esempio, io non so per quale ragione l’universo abbia cominciato a esistere, e non lo saprò mai; perciò devo mettere da parte il problema, come problema scientifico o intellettuale. Ma se mi si offre un’intuizione di esso – nei sogni, o nelle tradizioni mitiche – devo tenerne conto. Devo anche osare di edificare una concezione sulla base di questi indizi, anche se, beninteso, rimarrà sempre ipotetica, e se so che non potrà mai essere avvalorata da prove.
L’uomo dovrebbe poter dire di aver fatto del suo meglio per formarsi una concezione della vita dopo la morte, o per farsene un’immagine – anche se poi deve confessare la sua impotenza. Non averlo fatto è una perdita vitale. Perché ciò che si pone come problema è un’eredità antichissima dell’umanità: un archetipo, ricco di vita segreta, che potrebbe congiungersi alla nostra vita individuale allo scopo di renderla completa. La ragione ci pone confini troppo angusti, e ci farebbe accettare solo ciò che si conosce, e anche questo con delle limitazioni, facendoci vivere in una cornice nota, proprio come se conoscessimo con sicurezza la reale estensione della vita. In realtà, giorno per giorno noi viviamo ben oltre i confini della nostra coscienza; la vita dell’inconscio procede con noi, senza che ne siamo consapevoli. Quanto più domina la ragione critica, tanto più la vita si impoverisce; ma quanto più dell’inconscio e del mito siamo capaci di portare alla coscienza, tanto più rendiamo completa la nostra vita. La ragione, se sopravvalutata, ha questo in comune con l’assolutismo politico: sotto il suo dominio la vita individuale si impoverisce.
L’inconscio ci aiuta in quanto ci comunica qualcosa o produce allusioni simboliche. Possiede altri mezzi per informarci di cose che con tutta la nostra logica noi non potremmo mai conoscere. Si considerino i fenomeni sincronistici, le premonizioni, i sogni che dicono il vero.
Una volta, al tempo della seconda guerra mondiale, tornavo a casa in treno da Bollingen. Avevo con me un libro, ma non potevo leggere, perché al momento in cui il treno si metteva in moto ero stato assalito dall’immagine di uno che annegava. Era il ricordo di un incidente capitato mentre ero sotto le armi. Durante tutto il viaggio non riuscii a liberarmene. Mi colpiva come un fatto misterioso, e pensavo: «Che cosa è accaduto? Può esservi stato un incidente?».
Scesi a Erlenbach e mi incamminai verso casa, ancora perseguitato da quel ricordo e dalle mie inquietudini. In giardino c’erano i bambini della mia seconda figlia, che, con tutta la sua famiglia, viveva con noi da quando aveva lasciato Parigi a causa della guerra. I bambini avevano un’aria un po’ sconvolta, e quando chiesi: «Che è successo?» mi dissero che Adriano, che era allora il più piccolo, era caduto in acqua, nella darsena. Lì l’acqua è abbastanza profonda, e poiché il piccolo non sapeva ancora nuotare era stato quasi sul punto di annegare. Lo aveva aiutato il fratello maggiore. Tutto ciò era accaduto esattamente nell’ora in cui io in treno ero stato assalito da quel ricordo. L’inconscio mi aveva dato un avvertimento. Perché allora non dovrebbe essere capace di informarmi anche di altre cose?
Ebbi un’esperienza più o meno simile prima di una morte che ci fu nella famiglia di mia moglie. Sognai che il letto di mia moglie era una fossa profonda con pareti in muratura. Era una tomba, e in certo qual modo faceva pensare a una cosa antica. Poi sentii un profondo sospiro, come se qualcuno stesse esalando l’anima. Una figura, che somigliava a mia moglie, si rizzò nella tomba e si librò verso l’alto. Indossava una veste bianca nella quale erano intessuti strani simboli neri. Mi destai, svegliai mia moglie, e controllai l’ora. Erano le tre del mattino. Il sogno era così strano che pensai subito che potesse annunziare una morte. Alle sette giunse la notizia che una cugina di mia moglie era morta alle tre!
Spesso si tratta soltanto di un’anticipazione senza una precognizione. Così una volta feci un sogno, nel quale mi trovavo a un garden-party. Vi incontravo mia sorella, e la cosa mi sorprendeva moltissimo, poiché era morta da alcuni anni. C’era anche un mio amico defunto. Tutti gli altri erano persone ancora in vita. Mia sorella era in compagnia di una signora che conoscevo bene, e già nel sogno stesso ne dedussi che quella signora era vicina a morire. «È già segnata» pensai. Nel sogno sapevo con esattezza chi era, e anche che viveva a Basilea. Ma non appena mi svegliai non seppi più riconoscerla, con tutta la migliore volontà, sebbene tutto il sogno fosse ancora vivo nella mia memoria. Passai in rassegna tutte le mie conoscenze di Basilea, facendo attenzione se qualcuna suscitasse in me un richiamo. Nulla!
Alcune settimane dopo ebbi la notizia che una delle mie amiche aveva subìto un incidente mortale. Mi resi subito conto che era lei la persona che avevo visto in sogno, ma che non ero stato capace di identificare. La ricordavo perfettamente, con molti dettagli, perché era stata mia paziente per molto tempo, fino all’anno precedente la sua morte. Nel mio tentativo di rievocare la persona del sogno, comunque, la sua immagine era stata la sola a non apparire sulla lunga serie di miei conoscenti di Basilea, eppure avrebbe dovuto a buon diritto essere una delle prime.
Quando si hanno esperienze del genere – e parlerò di altre simili – si acquista un certo rispetto per le possibilità e le arti dell’inconscio. Solo che bisogna conservare il proprio senso critico e tener presente che queste comunicazioni possono anche avere un significato soggettivo. Possono trovarsi o non trovarsi d’accordo con la realtà. Ho comunque imparato che le concezioni che ho potuto formarmi sulla base di tali indizi provenienti dall’inconscio sono state illuminanti e ricche di nuove prospettive. Naturalmente non mi accingo a scrivere un libro di rivelazioni sul loro conto, ma riconoscerò che ho un «mito» che mi incoraggia a guardare più a fondo in tutto questo dominio. I miti sono la primissima forma della scienza. Così, quando parlo di cose dopo la morte, ne parlo sollecitato da un impulso interno e non posso andare oltre il racconto di sogni e miti relativi a questo argomento. Naturalmente uno può contestare aprioristicamente che i miti e i sogni riguardanti la continuità della vita dopo la morte sono semplicemente delle fantasie di compensazione, inerenti alla nostra natura: tutto ciò che vive aspira all’eternità. Non ho altro argomento da opporre se non il mito stesso.
Comunque, vi sono indicazioni che almeno una parte della psiche non è soggetta alle leggi dello spazio e del tempo. Prove scientifiche ne sono state fornite dai ben noti esperimenti di J.B. Rhine.2 Assieme a numerosi casi di previsione spontanea, di percezioni extraspaziali, e così via – dei quali ho citato un certo numero di esempi tratti dalla mia stessa vita – questi esperimenti provano che la psiche a volte funziona al di fuori della legge di causalità spazio-temporale. Ciò indica che i nostri concetti di spazio e tempo, e pertanto anche di causalità, sono incompleti. Un quadro completo del mondo richiederebbe, per così dire, l’aggiunta di un’altra dimensione: solo allora la totalità dei fenomeni potrebbe avere una spiegazione unitaria. Di qui deriva che i razionalisti fino a oggi perseverano nella negazione della realtà delle esperienze parapsicologiche; perché la loro visione del mondo si regge o cade a seconda della soluzione di questo problema. Se tali fenomeni accadono realmente, il quadro razionalistico dell’universo non è valido, perché incompleto. Allora la possibilità di una realtà al di là del mondo fenomenico, realtà in cui regnino altri valori, diventa un problema a cui non si sfugge; e dobbiamo prendere in considerazione il fatto che il nostro mondo – con tempo, spazio e causalità – è in rapporto con un altro ordine di cose (che si cela sotto o dietro di esso), nel quale né il «qui e lì», né il «prima e dopo» hanno un significato. Mi sono convinto che almeno una parte della nostra esistenza è caratterizzata dalla relatività dello spazio e del tempo. Questa relatività sembra aumentare a misura che ci allontaniamo dalla coscienza, fino a giungere a un’assoluta atemporalità e aspazialità.
Non soltanto i miei sogni, ma anche occasionalmente i sogni di altre persone, mi hanno aiutato a farmi, a rivedere, o a confermare le mie concezioni su una vita dopo la morte. Attribuisco particolare importanza al sogno che una mia allieva, una donna di circa sessant’anni, fece circa due mesi prima della sua morte. Era entrata nell’aldilà. C’era una classe, e varie sue amiche defunte sedevano in un banco in prima fila. Vi era un’atmosfera diffusa di attesa. Ella si era guardata intorno cercando un insegnante o un assistente, ma senza vederne nessuno. Poi le dicevano che era lei che doveva parlare, poiché subito dopo la morte tutti i defunti dovevano fare una relazione della esperienza totale della loro vita. I morti si interessavano moltissimo alle esperienze di vita che i defunti recenti portavano con sé, proprio come se le azioni, con le loro conseguenze, compiute nella vita terrena fossero decisive.
In ogni caso il sogno descrive un pubblico assai insolito, di cui difficilmente si potrebbe trovare l’analogo sulla terra: gente con un interesse vivo per il risultato psicologico finale di una vita umana, che non era stata in alcun modo degna di nota, non più di quanto lo fosse la conclusione che se ne poteva trarre, secondo il nostro modo di pensare. Se, comunque, quel «pubblico» esisteva in una relativa condizione atemporale, nella quale i termini «fine», «eventi», «conseguenze», ecc. erano divenuti concetti problematici, allora poteva darsi benissimo il caso che si interessassero proprio di cose che ormai erano escluse dalla loro condizione.
All’epoca di questo sogno quella signora temeva la morte, e faceva del suo meglio per allontanare dalla sua mente il pensiero di tale possibilità. Eppure la morte è un «interesse» importante, specialmente per una persona di età avanzata. Una domanda categorica sta per esserle posta, e dovrebbe sapervi rispondere. Dovrebbe, a tal scopo, avere un mito della morte, perché la ragione non mostra altro che l’oscura fossa nella quale sta per discendere. Il mito può evocare altre immagini, immagini della vita nella terra dei morti piene di speranza e di bellezza. Se crede in esse, o se dà loro anche soltanto un po’ di credito, ha altrettanta ragione o altrettanto torto di chi a esse non crede. Ma mentre colui che nega va incontro al nulla, colui che ha riposto la sua fede nell’archetipo segue i sentieri della vita e vive realmente fino alla morte. Entrambi, naturalmente, restano nell’incertezza; ma l’uno vive in contrasto con l’istinto, l’altro in accordo con esso, e la differenza è notevole ed è a favore del secondo.
Anche le figure dell’inconscio sono «prive di informazione» e hanno bisogno dell’uomo o del contatto con la coscienza per raggiungere la «conoscenza». Quando cominciai a lavorare con l’inconscio, le figure fantastiche di Salomè e di Elia ebbero una parte di primo piano. Poi scomparvero nell’ombra per riapparire circa due anni dopo. Con mia enorme sorpresa non erano mutate affatto: parlavano e agivano come se nel frattempo non fosse accaduto nulla. In realtà nella mia vita avevano avuto luogo le cose più incredibili. Dovetti, per così dire, cominciare di nuovo dal principio, e raccontare tutto ciò che era accaduto, e spiegarglielo. Allora questo fatto mi sorprese. Solo più tardi capii che cosa era accaduto: nel frattempo i due erano sprofondati nell’inconscio e in se stessi, potrei egualmente dire fuori del tempo. Erano rimasti privi di contatti con l’io e con le sue mutevoli vicende, e perciò erano all’oscuro di ciò che era accaduto nel mondo della coscienza.
Ben presto mi ero accorto di dover istruire le immagini dell’inconscio, o gli «spiriti dei defunti», che spesso non si distinguono da quelle. Lo sperimentai per la prima volta durante un viaggio in bicicletta attraverso l’Italia settentrionale, che feci con un amico nel 1910. Sulla via del ritorno pedalammo da Pavia ad Arona, sulla sponda occidentale del Lago Maggiore, e vi trascorremmo la notte. Avevamo intenzione di costeggiare il lago e di continuare poi attraverso il Ticino fino a Faido. Là avremmo preso il treno per Zurigo. Ma ad Arona feci un sogno che sconvolse i nostri piani.
Nel sogno mi trovavo in una riunione di spiriti illustri di secoli passati; il mio stato d’animo era analogo a quello che provai più tardi di fronte agli «antenati illustri» che si trovavano nella roccia nera, nella mia visione del 1944. La conversazione era condotta in latino. Un gentiluomo con una lunga parrucca ricciuta mi si rivolgeva ponendomi una difficile domanda, che non riuscii più a ricordare quando mi svegliai. Lo capivo, ma non avevo una sufficiente padronanza della lingua per rispondergli in latino, e me ne sentivo tanto profondamente umiliato da svegliarmi per l’emozione.
Non appena mi svegliai pensai subito al libro al quale lavoravo, Wandlungen und Symbole der Libido, e provai un così forte senso di inferiorità a causa di quella domanda a cui non avevo dato risposta, che immediatamente presi il treno per ritornare a casa allo scopo di rimettermi al lavoro. Mi sarebbe stato impossibile continuare il viaggio in bicicletta, sacrificando altri tre giorni. Dovevo lavorare per trovare la risposta.
Solo molto tempo dopo capii il sogno e la mia reazione. Il gentiluomo in parrucca era una specie di «spirito ancestrale», o «spirito dei morti», che mi aveva rivolto delle domande, a cui non avevo saputo rispondere! Era ancora troppo presto, e non ero ancora da tanto, ma avevo l’oscuro presentimento che, lavorando al mio libro, avrei dato una risposta alla domanda che mi era stata posta, per così dire, dai miei antenati spirituali, con la speranza e l’aspettazione di potere apprendere da me ciò che essi non avevano potuto scoprire durante la loro vita terrena, poiché la risposta doveva essere data dai secoli che sarebbero seguiti. Se la domanda e la risposta fossero esistite dall’eternità, da sempre, allora da parte mia non sarebbe stato necessario alcuno sforzo, ed esse avrebbero potuto essere state scoperte in qualsiasi altro secolo. È vero che nella natura pare che vi sia disponibile una conoscenza illimitata, ma in realtà questa può essere compresa dalla coscienza solo in circostanze di tempo opportune. Il processo, presumibilmente, è analogo a quello che si verifica nell’anima individuale: un uomo può portare con sé per molti anni un indizio di qualche cosa, ma riesce a comprenderla con chiarezza solo a un certo momento della sua vita.
Qualche tempo dopo, quando scrissi i Septem Sermones ad Mortuos, ancora una volta furono i morti a rivolgermi una domanda cruciale. Erano – così dissero – «di ritorno da Gerusalemme, dove non avevano trovato ciò che cercavano». Questo fatto allora mi sorprese profondamente, poiché secondo l’opinione tradizionale sono proprio i morti che posseggono una vasta conoscenza. La gente ha l’idea che i morti conoscano molto più di noi, perché la dottrina cristiana insegna che nell’aldilà noi «vedremo faccia a faccia». Apparentemente, comunque, le anime dei morti «conoscono» solo ciò che conoscevano al momento della morte, e nulla più. Di qui il loro tentativo di penetrare nel mondo allo scopo di farsi partecipi della conoscenza dei vivi. Spesso ho la sensazione che essi stiano proprio dietro di noi, aspettando di sentire quale risposta daremo a loro, e quale al destino. A me pare che essi dipendano dai vivi – e cioè da coloro che sono sopravvissuti e vivono in un mondo in mutamento – per ottenere una risposta alle loro domande: come se l’onniscienza, o l’«onnicoscienza», non fosse a loro disposizione, ma potesse fluire solo nell’anima incarnata di un vivo. Lo spirito dei vivi sembra perciò che abbia almeno un vantaggio sullo spirito dei morti, e cioè la capacità di acquisire conoscenze chiare e decisive. Secondo me, il mondo tridimensionale nel tempo e nello spazio appare come un sistema di coordinate: ciò che qui è distinto in ordinate e ascisse può apparire «là», nell’assenza di spazio e di tempo, come una immagine originaria con molti aspetti, forse come una nube diffusa di conoscenza intorno a un archetipo. Ma un sistema di coordinate è necessario per rendere possibile la distinzione di contenuti precisi. Ogni operazione del genere ci sembra impensabile in una condizione di diffusa onniscienza, o, come sarebbe il caso, di coscienza priva di soggettività, senza confini spazio-temporali. La conoscenza, come la generazione, presuppone una opposizione, un qui e là, un sopra e sotto, un prima e dopo.
Se dovesse esservi un’esistenza cosciente dopo la morte, essa dovrebbe, così mi pare, continuare al livello della coscienza raggiunto dall’umanità, che in tutte le età ha un limite superiore, anche se variabile. Vi sono molti uomini che nel corso della loro vita e al momento della morte restano indietro rispetto alle loro possibilità, e – cosa ancor più importante – rispetto alla conoscenza che è stata portata alla coscienza da altri esseri umani durante la loro vita. Di qui il loro desiderio di raggiungere nella morte quella parte di consapevolezza che non sono riusciti a guadagnarsi in vita.
Sono giunto a questa conclusione attraverso l’osservazione di sogni riguardanti i morti. Una volta sognai che stavo facendo visita a un amico che era morto circa due settimane prima. Durante la vita costui non aveva conseguito altro che una convenzionale visione del mondo, ed era rimasto fermo in questo suo atteggiamento irriflessivo. Nel sogno la sua casa era su una collina simile al colle Tüllinger, presso Basilea. C’era un vecchio castello, le cui mura di cinta circondavano una piazza, con una piccola chiesa e alcuni edifici minori: mi ricordava la piazza antistante il castello di Rapperswil. Era autunno, e le foglie dei vecchi alberi erano già dorate e tutta la scena era trasfigurata dalla dolce luce del sole. Il mio amico stava seduto a un tavolo, assieme a sua figlia, che aveva studiato psicologia a Zurigo, e che appunto gli stava parlando di psicologia. Egli era così affascinato da ciò che lei diceva, che mi salutava appena con un cenno della mano, come per dire: «Non disturbarmi». Il saluto era al tempo stesso un cenno di congedo.
Il sogno mi disse che ora, in un modo che naturalmente mi rimane incomprensibile, egli era obbligato a intendere la realtà della sua esistenza psichica, cosa che non era stato mai capace di fare in vita. A proposito del sogno più tardi mi vennero in mente le parole: «Santi anacoreti distribuiti a varie altezze della montagna…». Gli anacoreti della scena finale del Faust rappresentano differenti gradi di evoluzione che si integrano e si sollevano a vicenda.
Un’altra esperienza dell’evoluzione dell’anima dopo la morte la feci quando, a distanza di circa un anno dalla morte di mia moglie, una notte mi svegliai all’improvviso, e seppi di essere stato con lei nella Francia meridionale, in Provenza, e di aver trascorso con lei tutto un giorno. Era lì per i suoi studi sul Graal. Questo fatto mi sembrò significativo, poiché mia moglie era morta prima di completare il suo lavoro su questo argomento.
Una interpretazione endopsichica – e cioè che la mia «anima» non abbia ancora portato a termine il lavoro che ella aveva da fare – non mi dice nulla, perché so bene di non averlo ancora finito; mentre il pensiero che dopo la morte mia moglie continui a lavorare al suo ulteriore sviluppo spirituale (comunque questo si possa concepire) mi pare significativo e perciò in qualche modo rassicurante.
Rappresentazioni di tal fatta sono naturalmente imprecise, e danno un’immagine inadeguata, come la proiezione su un piano di un corpo o, viceversa, come la costruzione di una forma a quattro dimensioni da un corpo tridimensionale. Si avvalgono di determinazioni di un mondo tridimensionale per rendersi evidenti a noi. Come la matematica si trova in grandi difficoltà per creare espressioni che indichino relazioni che vanno al di là della nostra empiria, così è tipico anche dell’essenza di una fantasia disciplinata costruire immagini di cose invisibili secondo i princìpi della logica e in base a dati empirici (per esempio le affermazioni oniriche). Il metodo impiegato è quello che ho chiamato «il metodo dell’affermazione indubbia», che nell’interpretazione dei sogni rappresenta il principio dell’amplificazione, e che può venir dimostrato nei numeri interi semplici.
L’uno, come il primo numerale, è unità; ma è anche «l’unità», l’Uno, l’Uno-tutto, l’Unico e la non-dualità, cioè non un numero ma un concetto filosofico, o un archetipo e un attributo di Dio, la monade. È certo giusto che l’intelletto umano faccia di queste affermazioni, ma l’intelletto è determinato e limitato dalla sua rappresentazione dell’uno e delle sue implicazioni. In altre parole, queste affermazioni non sono arbitrarie. Esse sono determinate dalla natura dell’uno, e perciò indubbie. Teoricamente, la stessa operazione logica si potrebbe compiere per ciascuno dei successivi concetti numerici, ma in pratica il procedimento si arresta subito a causa delle crescenti complicazioni, che diventano incalcolabili.
Ogni nuova unità introduce nuove proprietà e nuove modificazioni. Così, ad esempio, è una proprietà del numero 4 che le equazioni di quarto grado possano ancora essere risolte mentre non si possono risolvere le equazioni di quinto grado. Una «affermazione indubbia» del numero 4, è dunque di essere il vertice e simultaneamente il termine di una precedente serie di ascendente. Dal momento che con l’aggiunta di ogni ulteriore unità appaiono una o più nuove proprietà matematiche, le proposizioni raggiungono una tale complessità da non poter più essere formulate.
L’infinita serie dei numeri naturali corrisponde all’infinito numero di creature individuali. Anche questo consiste di individui, e già le sole proprietà dei suoi dieci membri iniziali rappresentano – se pure rappresentano qualche cosa – un’astratta cosmogonia derivata dalla monade. Ma le proprietà dei numeri sono comunque contemporaneamente proprietà della materia, per cui certe equazioni possono anticiparne il comportamento.
Pertanto potrei avanzare la tesi che altre proposizioni, oltre a quelle matematiche (e cioè proposizioni implicite nella natura), abbiano parimenti la capacità di alludere a realtà che le trascendano e che siano di tal natura che non possono essere intuite. Penso, ad esempio, a quei prodotti della fantasia che riscuotono il consensus omnium o che si distinguono per la frequenza con cui si presentano, e a tutta la categoria dei motivi archetipi. Ci sono equazioni matematiche che non sappiamo a quali realtà fisiche corrispondano; così ci sono realtà mitiche e dapprima non sappiamo a quali realtà psichiche si riferiscano. Le equazioni che governano la dinamica dei gas riscaldati esistevano molto prima che i problemi relativi a tali gas fossero stati indagati con precisione: allo stesso modo i mitologemi che esprimono la dinamica di certi processi subliminali esistevano già da molto tempo, ma solo di recente questi processi sono stati riconosciuti.
Il livello di coscienza già raggiunto, non importa dove, costituisce, secondo me, il limite estremo della conoscenza che i morti possono raggiungere. Questo è probabilmente il motivo per cui la vita terrena ha un così grande significato, ed è così importante che cosa un uomo «porta con sé» al momento della morte. Solo qui, nella vita terrena, dove gli opposti cozzano, può elevarsi il livello generale della coscienza. Pare che sia questo il compito metafisico dell’uomo, compito che può adempiere solo in parte senza mythologhéin. Il mito è lo stadio intermedio inevitabile e indispensabile tra l’inconscio e la conoscenza cosciente. Certo l’inconscio ne sa molto di più della coscienza, ma si tratta di una conoscenza di una specie particolare, di una conoscenza nell’eternità, per lo più senza riferimento al «qui» e all’«ora», senza riguardo al linguaggio dell’intelletto. Solo quando diamo occasione alle sue affermazioni di amplificarsi (come è stato mostrato più su con l’esempio dei numeri) esse raggiungono la portata del nostro intelletto e riusciamo a percepirne un nuovo aspetto. È quanto avviene in ogni analisi di sogni che sia ben riuscita. Ecco perché è così importante non avere alcuna opinione dottrinaria preconcetta circa le indicazioni contenute nei sogni. Non appena una certa «monotonia di interpretazione» ci dà nell’occhio, vuol dire che l’interpretazione è divenuta dottrinaria, e quindi sterile.
Sebbene non vi sia alcun modo di dar prove sicure della sopravvivenza dell’anima dopo la morte, ci sono tuttavia esperienze che danno da pensare. Le considero soltanto indizi, senza avere affatto la pretesa di attribuir loro valore di conoscenze assolute.
Una notte giacevo sveglio, pensando all’improvvisa morte di un amico i cui funerali avevano avuto luogo il giorno prima. Ero profondamente assorbito da questo pensiero. Improvvisamente ebbi la sensazione che egli fosse nella stanza: mi pareva che stesse ai piedi del letto e che mi chiedesse di andare con lui. Non mi sembrava un’apparizione; si trattava piuttosto di un’immagine visiva interna, che mi spiegai come una visione fantastica. Ma con tutta onestà dovetti chiedermi: «Ho qualche prova che si tratti di una fantasia? Se non lo fosse, se il mio amico fosse realmente qui, e io avessi deciso di considerarlo solo una fantasia, non sarebbe un’insolenza?». Eppure avevo ben poche prove che egli stesse «realmente» dinanzi a me, cioè come un’apparizione. Allora mi dissi: «Non ci sono prove né in un senso né nell’altro! Invece di sbarazzarmene considerandolo una fantasia potrei, altrettanto a ragione, concedergli il beneficio del dubbio, e a scopo sperimentale fargli credito di essere una realtà». Non appena ebbi concepito questo pensiero, egli si diresse verso la porta e mi fece cenno di seguirlo. Dovevo dunque, per così dire, prestarmi al gioco! Era una cosa che non mi aspettavo! Dovetti ancora una volta ripetermi le mie considerazioni, e solo allora lo seguii nella mia fantasia.
Mi condusse fuori di casa, nel giardino, poi per la strada, e infine a casa sua. In realtà questa era distante qualche centinaio di metri dalla mia. Entrai, e mi condusse nel suo studio. Qui salì su uno sgabello, e mi indicò il secondo di cinque volumi rilegati in rosso che si trovavano nel secondo scaffale a partire dall’alto. Quindi la visione cessò. Io non conoscevo la sua biblioteca, e non sapevo quali libri possedesse; inoltre non avrei mai potuto distinguere i titoli dei libri che mi aveva indicato, dal momento che stavano nel secondo scaffale in alto.
Questo fatto mi sembrò così singolare che la mattina seguente mi recai dalla sua vedova e le chiesi se potevo guardare qualche cosa nella biblioteca dell’amico defunto. Proprio come nella visione c’era uno sgabello dinanzi alla libreria, e già da lontano notai i cinque volumi rilegati in rosso. Salii sullo sgabello sì da poter leggere i titoli. Erano traduzioni dei romanzi di Émile Zola. Il titolo del secondo volume era: L’eredità dei morti. Il contenuto mi parve privo di interesse: ma il titolo, legato a quella esperienza, era estremamente significativo.
Un’altra esperienza che mi fece meditare l’ebbi prima della morte di mia madre. La notizia della sua morte mi giunse mentre ero nel Canton Ticino ed, essendomi arrivata all’improvviso, inaspettata, mi turbò profondamente. La notte precedente ebbi un sogno pauroso. Mi trovavo in una foresta fitta, buia; giganteschi macigni, dall’aspetto fantastico, stavano in mezzo a enormi alberi, simili a quelli di una giungla. Era un paesaggio eroico, primordiale. Improvvisamente sentivo un fischio lacerante, che pareva risonare per tutto l’universo. Le ginocchia mi tremavano. Poi sentivo un frastuono, in mezzo alla boscaglia, e ne sbucava un gigantesco cane lupo, con le fauci spaventose spalancate. Al vederlo, il sangue mi si gelava nelle vene. Mi passava accanto; e subito capivo: il Cacciatore Feroce gli aveva comandato di portar via un’anima umana! Mi svegliai atterrito, e la mattina seguente ebbi la notizia della morte di mia madre.
Raramente un sogno mi ha turbato a tal punto. A considerarlo superficialmente, pareva che quel sogno volesse dire che mia madre era stata portata via dal diavolo. Ma in realtà era il Cacciatore Feroce, il Grünhütl (quello del cappello verde), che quella notte – era in gennaio, la stagione del Föhn – cacciava con i suoi lupi: era Wotan, il dio dei miei avi germanici, che accompagnava mia madre dai suoi antenati – cioè, negativamente, dall’«orda selvaggia», ma, positivamente, presso il sälig Lüt, presso la gente beata. Furono i missionari cristiani a fare di Wotan un demonio; in se stesso egli è un dio significativo, un Mercurio o un Hermes, come riconobbero correttamente i romani, uno spirito della natura, che tornò a rivivere nel Merlino della leggenda del Graal, e che divenne, come spiritus mercurialis, l’arcano ricercato dagli alchimisti. Quindi il sognò voleva dire che l’anima di mia madre era stata assunta nella compagine del «Sé», che si trova al di là del limite della moralità cristiana, assunta in quella totalità di natura e spirito che accoglie e risolve il conflitto degli opposti.
Ritornai a casa immediatamente, e durante la notte, mentre mi trovavo in treno, pur provando una profonda tristezza, nell’intimo del cuore non potevo stare in lutto, per uno strano motivo: durante tutto il viaggio sentivo una musica di danza e un lieto chiacchierio e risate, come se si stesse celebrando uno sposalizio. Tutto ciò contrastava fortemente con la paurosa impressione del sogno. La lieta musica e le allegre risate mi rendevano impossibile abbandonarmi del tutto al dolore; non appena questo era sul punto di vincermi ero subito ripreso in pieno dalle allegre melodie. Provavo un senso di calore e di gioia, misto a terrore e dolore, e mi dibattevo continuamente tra questi sentimenti contrastanti.
Si può spiegare questo paradosso pensando che la morte ora era rappresentata dal punto di vista dell’io, ora da quello dell’anima. Nel primo caso appariva una catastrofe: ed è così che di solito appare, come se fossero forze malvagie e crudeli a troncare una vita umana.
Certamente la morte è anche una spaventosa brutalità, e non c’è da illudersi: non è solo brutale come evento fisico, ma anche, e più, come evento psichico. Un essere umano ci è strappato, e ciò che rimane è un gelido silenzio di morte; non vi è più speranza di un rapporto qualsiasi, perché tutti i ponti sono tagliati di colpo. Coloro che meriterebbero una vita lunga sono stroncati nel fior degli anni, e i buoni a nulla raggiungono una florida vecchiezza. Questa è una crudele realtà che non possiamo ignorare. La crudeltà e arbitrarietà della morte possono amareggiare talmente gli uomini da portarli a concludere che non esiste un Dio pietoso, né giustizia, né bontà.
Da un altro punto di vista, tuttavia, la morte appare come un avvenimento gioioso. Sub specie aeternitatis è uno sposalizio, un mysterium coniunctionis. L’anima raggiunge per così dire, la metà che le manca, realizza la sua completezza. Sui sarcofagi greci l’elemento gioioso era rappresentato da fanciulle danzanti, sulle tombe etrusche da scene conviviali. Quando il pio cabbalista Rabbi Simon ben Jochai giunse a morte, gli amici dissero che stava celebrando le sue nozze. Ancora oggi in molti paesi c’è l’usanza di avere un picnic sulle tombe nel giorno dei morti. Tali usanze esprimono il sentimento che la morte in effetti sia una festa gioiosa.
Un paio di mesi prima della morte di mia madre, nel settembre del 1922, feci un sogno che la presagiva. Il sogno concerneva mio padre, e mi fece una profonda impressione. Non avevo più sognato mio padre fin dalla sua morte, dunque dal 1896. Ora mi riappariva in sogno, come uno che ritorna da un lungo viaggio. Appariva ringiovanito, e senza la sua autorevole aria paterna. L’accompagnavo nella mia biblioteca e mi rallegravo grandemente di apprendere come gli fossero andate le cose. Pensavo anche con particolare gioia alla possibilità di presentargli mia moglie e i miei figli, di mostrargli la casa, e di raccontargli tutto ciò che avevo fatto e che ero divenuto nel frattempo. Volevo anche parlargli del mio libro sui tipi psicologici, che era stato pubblicato recentemente. Ma presto mi accorgevo che tutto ciò era impossibile, perché mio padre appariva preoccupato. Sembrava che volesse da me qualche cosa: lo sentivo con tanta evidenza, che mi astenevo dal parlare delle cose che mi interessavano.
Allora egli mi diceva che, siccome ero uno psicologo, avrebbe avuto piacere di consultarmi circa la psicologia della vita coniugale. Mi disponevo a fargli un’ampia relazione sulla complessità dei problemi del matrimonio, quando a questo punto mi svegliai. Non potei capire esattamente il sogno, poiché non mi passò mai per la testa che potesse riferirsi alla morte di mia madre. Me ne resi conto soltanto quando ella morì, improvvisamente, nel gennaio del 1923.
Il matrimonio dei miei genitori non fu un matrimonio felice: fu una prova di sopportazione irta di difficoltà. Entrambi fecero gli errori tipici di molte coppie. Il mio sogno preannunziava la morte di mia madre, perché in esso mio padre, dopo un’assenza di ventisei anni, si rivolgeva a me, in quanto psicologo, per chiedermi le più recenti vedute sui problemi coniugali, dal momento che ben presto avrebbe dovuto riaffrontare il problema. Evidentemente egli non ne aveva acquistata una migliore comprensione, nella sua condizione extratemporale, e doveva pertanto rivolgersi a un vivente che nelle mutate circostanze di tempo avesse potuto acquistare nuovi punti di vista.
Tale era il messaggio del sogno. Indubbiamente avrei potuto ricavarne molto di più considerandolo nel suo significato soggettivo, ma perché lo avrei sognato proprio prima della morte di mia madre, che non avevo previsto affatto? Si riferiva chiaramente a mio padre, verso il quale io provavo una simpatia che era andata crescendo con gli anni.
Dal momento che l’inconscio, come risultato della sua relatività spazio-temporale, possiede migliori fonti d’informazione della coscienza, che ha a sua disposizione soltanto le percezioni sensoriali, per ciò che riguarda il nostro mito della vita ultraterrena, dobbiamo attingere ai pochi accenni dei sogni e di simili manifestazioni spontanee dell’inconscio. Non possiamo attribuire a questi indizi – come ho già detto – valore di conoscenza o di prova; ci possono comunque servire come basi convenienti per amplificazioni mitiche: forniscono all’intelletto raziocinante quel campo di possibilità indispensabili alla sua vitalità. Se si rompe il legame col mondo dell’immaginazione mitica lo spirito minaccia di irrigidirsi nel dottrinarismo. D’altro canto aver troppo a che fare con questi spunti mitici, è pericoloso per gli spiriti deboli e suggestionabili, perché sono portati a fraintendere facilmente questi vaghi indizi con la conoscenza, e a dar corpo ai fantasmi.
Un mito assai diffuso dell’aldilà si basa su idee e rappresentazioni della reincarnazione.
In un paese la cui cultura spirituale è molto diversa e assai più antica della nostra – e cioè in India – l’idea della reincarnazione è accettata con la stessa semplicità con cui tra noi l’idea che vi è un Dio creatore del mondo, o che vi è uno spiritus rector. Gli Indù colti sanno che noi non condividiamo le loro idee su questo argomento, ma ciò non li amareggia. Secondo lo spirito dell’Oriente la successione di nascita e morte è una continuità infinita, come una ruota che giri in eterno senza una meta. Si vive, si conosce, si muore, e si ricomincia da capo. Solo con Buddha si presenta l’idea di una meta, e cioè di un superamento dell’esistenza terrena.
I bisogni mitici degli occidentali richiedono una cosmogonia evoluzionistica con un principio e una meta. Gli occidentali si ribellano a una cosmogonia con un principio e una mera fine, così come non possono accettare l’idea di un eterno ciclo statico degli eventi concluso in se stesso. Gli orientali d’altra parte sembrano più disposti ad accettare questa idea. Non vi è evidentemente un consenso unanime circa la natura del mondo, non più di quanto vi sia a tutt’oggi un accordo generale su questo argomento tra gli astronomi. L’uomo occidentale considera insopportabile l’idea di un universo assolutamente statico, privo di significato; deve presumere che ne abbia uno. L’orientale non ha bisogno di questo presupposto, ma l’incarna egli stesso. Mentre l’occidentale sente il bisogno di portare a compimento il significato del mondo, l’orientale tende al compimento del significato nell’uomo, rifiutando il mondo e l’esistenza stessa (Buddha).
Direi che entrambi hanno ragione. L’occidentale sembra prevalentemente estroverso, l’orientale prevalentemente introverso. Il primo proietta il significato e lo suppone negli oggetti; l’altro lo sente in se stesso. Ma il significato è tanto dentro che fuori.
L’idea della rinascita è inseparabile da quella del karma. Il problema cruciale è se il karma di un uomo sia o no personale; se lo è allora il destino predeterminato col quale un uomo entra nella vita rappresenta il compimento delle opere di vite precedenti e perciò esiste una continuità personale. Se non è così, all’atto della nascita si assume un karma impersonale, e allora questo si incarna di nuovo senza che vi sia alcuna continuità personale.
Due volte i discepoli chiesero a Buddha se il karma dell’uomo fosse personale o no; ogni volta egli eluse la domanda e non esaminò la questione a fondo: saperlo, egli disse, non avrebbe contribuito alla liberazione di se stessi dall’illusione dell’esistenza. Buddha riteneva molto più utile per i suoi discepoli meditare sulla catena del Nidâna, cioè sulla nascita, la vita, la vecchiaia, la morte, e sulla causa e l’effetto della sofferenza.
Non conosco risposta alla domanda se il karma che io vivo sia il risultato di mie vite passate, o se non sia piuttosto il conseguimento dei miei antenati, la cui eredità si assomma in me. Sono forse una combinazione delle vite dei miei antenati, e reincarno le loro vite? Sono vissuto già nel passato, come una determinata personalità, e sono tanto progredito in quella vita da essere ora capace di cercare una soluzione? Non lo so. Buddha lasciò aperta la questione, e presumo che egli stesso non ne conoscesse con certezza la risposta.
Potrei ben supporre di esser vissuto nei secoli passati, e di avervi affrontato problemi a cui non ero ancora capace di rispondere; di esser dovuto nascere di nuovo perché non avevo adempiuto il compito che mi era stato assegnato. Quando morirò – immagino – le mie azioni mi seguiranno. Porterò con me ciò che ho fatto. Ma nel frattempo il problema è questo, che alla fine della mia vita non mi trovi con le mani vuote. Sembra che anche Buddha abbia avuto questo pensiero quando tentò di impedire ai suoi discepoli inutili speculazioni.
Il significato della mia esistenza è che la vita mi ha posto un problema. O, viceversa, io stesso rappresento un problema che è stato posto al mondo, e devo dare la mia risposta, perché altrimenti mi devo contentare della risposta del mondo. Si tratta del compito di una vita sovrapersonale, che realizzo solo con difficoltà. Forse si tratta di un problema che già preoccupò i miei antenati, e al quale essi non seppero trovare risposta. Potrebbe essere questa la ragione per la quale fui così colpito dal fatto che la conclusione del Faust non contiene soluzione? O dal problema contro il cui scoglio Nietzsche naufragò, quell’esperienza dionisiaca della vita che i cristiani sembra abbiano perduto? O forse è l’irrequieto Wotan-Hermes dei miei antenati germanici e franchi che mi provoca proponendomi enigmi? O è giusta la supposizione scherzosa di Richard Wilhelm, che nella mia vita anteriore io sia stato un cinese ribelle che per castigo deve scoprire in Europa la sua anima orientale?
Ciò che sento come risultato delle vite dei miei antenati, o come karma acquistato in una precedente vita personale, potrebbe forse essere egualmente un archetipo impersonale, che oggi tiene tutto il mondo in sospeso, e mi tocca in modo particolare un archetipo come, per esempio, lo sviluppo attraverso i secoli della triade divina e il suo confronto con il principio femminile; o la domanda ancora senza risposta degli gnostici circa l’origine del male o, con altre parole, l’incompletezza dell’immagine cristiana di Dio.
Penso anche alla possibilità che attraverso l’opera di un individuo sorga nel mondo un problema a cui si debba dare una risposta. Il mio modo di porre il problema, come la mia risposta, potrebbero essere insoddisfacenti. Stando così le cose, dovrebbe rinascere qualcuno che avesse il mio karma – forse anche io stesso – allo scopo di dare una risposta più esauriente. Potrebbe accadere che io non rinasca finché il mondo non abbia bisogno di una tale risposta, e che io abbia diritto ad alcune centinaia di anni di pace, finché non sia ancora una volta necessario qualcuno che s’interessi a tali problemi, e possa con profitto affrontare di nuovo il compito. Ritengo che si possa avere un periodo di riposo fino a che il penso attuale sia portato a compimento.
La questione del karma mi riesce oscura, come pure il problema della rinascita o della trasmigrazione delle anime. Libera et vacua mente prendo in considerazione la dottrina indiana della rinascita, e mi guardo intorno nel mondo della mia personale esperienza per vedere se da qualche parte o in qualche modo si presentino indizi seri che facciano pensare alla reincarnazione. Naturalmente prescindo dalle testimonianze, nel mondo occidentale relativamente numerose, di fede nella reincarnazione. Una fede, secondo me, prova soltanto il fenomeno della fede, non il suo contenuto: questo mi deve essere evidente in sé e per sé empiricamente, perché lo si possa accettare. Fino a pochi anni fa non sono riuscito a trovare nulla di convincente al riguardo, sebbene continuassi a fare attenzione con cura a ogni indizio. Recentemente, comunque, ho osservato in me stesso una serie di sogni che sembrerebbero descrivere il processo della reincarnazione in una persona defunta di mia conoscenza. Certi aspetti si potrebbero seguire con una certa verosimiglianza fino alla realtà. Ma non ho mai osservato né inteso qualcosa di simile, e perciò non ho gli elementi per un confronto. Dal momento che questa osservazione è unica e soggettiva, preferisco limitarmi a menzionarne l’esistenza, senza dilungarmi nel suo contenuto. Devo confessare, comunque, che dopo questa esperienza considero il problema della reincarnazione con altri occhi, pur non trovandomi nella condizione di poter sostenere un’opinione definita.
Se supponiamo che la vita continui «di là», possiamo pensare solo a una forma di esistenza psichica, perché solo questa non richiede lo spazio e il tempo. L’esistenza psichica, e soprattutto le immagini interiori con le quali abbiamo a che fare già in questa vita, forniscono il materiale per tutte le speculazioni mitiche circa una vita nell’aldilà, e mi rappresento tale vita come un progredire nel mondo delle immagini. Pertanto l’anima potrebbe essere quell’esistenza che si trova nell’«aldilà» o nella «terra dei morti». Per questo rispetto l’inconscio e la terra dei morti sarebbero sinonimi.
Dal punto di vista psicologico «la vita nell’aldilà» parrebbe essere un conseguente proseguimento della vita psichica nella vecchiaia. Col passare degli anni la contemplazione, la meditazione, le visioni interne hanno naturalmente una parte sempre maggiore nella vita di un uomo. «I vostri vecchi sogneranno sogni.»3 Ciò naturalmente presuppone che l’anima dei vecchi non sia divenuta di legno, o non sia impietrita: sero medicina paratur cum mala per longas convaluere moras.4 Nella vecchiaia si cominciano a passare in rassegna i ricordi, e meditando, ci si riconosce nelle immagini interne ed esterne del passato. È come una introduzione o una preparazione per un’esistenza nell’aldilà, così come, secondo Platone, la filosofia è una preparazione alla morte.
Le immagini interiori mi salvaguardano dal perdermi in una retrospezione personale. Molti vecchi si lasciano prendere troppo dalla ricostruzione dei loro eventi passati, e rimangono prigionieri dei ricordi. Ma la retrospezione, se è riflessiva e si traduce in immagini, può essere un reculer pour mieux sauter. Io cerco di vedere la linea che attraverso la mia vita ha portato nel mondo, e poi di nuovo fuori del mondo.
In generale, la concezione che ci si fa dell’aldilà è in gran parte costituita da desideri e da pregiudizi. Per lo più l’aldilà è rappresentato come un posto piacevole. Ciò a me non pare tanto ovvio: mi riesce difficile pensare che dopo morti saremo trasportati in qualche amabile prato fiorito. Se nell’aldilà tutto fosse piacevole e buono, certamente vi sarebbe un’amichevole relazione tra noi e gli spiriti beati, e la bontà e la bellezza si effonderebbero su di noi fin dallo stato prenatale. Ma non capita nulla di simile. Perché vi è questa insormontabile barriera tra i vivi e i morti? Almeno la metà dei racconti di incontri con i defunti narra di terrificanti esperienze con spiriti oscuri; e di regola il regno dei morti osserva un silenzio gelido, non turbato dal dolore dei familiari dei defunti.
Per seguire il pensiero che involontariamente mi viene: il mondo, così mi pare, è troppo unitario perché possa esservi un aldilà nel quale la natura degli opposti sia del tutto assente. Anche di là vi è la «natura», che a suo modo è di Dio. Il mondo nel quale entreremo dopo la morte sarà un mondo grandioso e terribile, come Dio e come tutta la natura che conosciamo; e non credo che la sofferenza possa cessare del tutto. Certo ciò che provai nelle mie visioni del 1944 – la liberazione dal peso del corpo, e la percezione del significato – era profonda beatitudine. Tuttavia, c’era anche oscurità, e uno strano venir meno del calore umano. Si ricordi la nera roccia sulla quale giunsi! Era cupa e del più puro granito! Che significa ciò? Se nelle fondamenta della creazione non vi fossero imperfezioni, né difetti originari, perché un impulso a creare, un anelito a ciò che deve essere compiuto? Per quali motivi gli dèi dovrebbero minimamente interessarsi dell’uomo e della creazione? Dell’infinita continuazione della catena del Nidâna? Quando Buddha oppone alla dolorosa illusione dell’esistenza il suo quod non, e il cristiano spera in una prossima fine del mondo?
Ritengo probabile che anche nell’aldilà esistano certe limitazioni, ma che le anime dei morti solo per gradi scoprano dove siano i limiti del loro stato di libertà. Da qualche parte «di là» deve esserci un elemento determinante, una necessità che condiziona il mondo, che cerca di porre una fine alla condizione ultraterrena. Questa costrizione creativa deciderà – così immagino – quali anime si immergeranno di nuovo nella nascita. Alcune anime forse ritengono lo stato dell’esistenza tridimensionale più beato di quello «eterno»; ma forse questo dipende dalla misura di compiutezza o di incompiutezza della loro vita terrena che hanno portato con sé.
È possibile che la continuazione della vita tridimensionale non abbia più alcun senso una volta che l’anima abbia raggiunto un certo stadio di comprensione; e che allora non debba più tornare indietro, perché quella più piena comprensione avrebbe reso impossibile il desiderio di reincarnarsi. In tal caso l’anima si dileguerebbe dal mondo tridimensionale, e raggiungerebbe ciò che i buddhisti chiamano il Nirvana. Ma se ancora rimane un karma disponibile, allora l’anima è ripresa da desideri e ritorna ancora una volta alla vita, forse anche perché resta ancora qualcosa da compiere.
Nel caso mio deve essere stata innanzi tutto un’appassionata ansia di capire ad aver determinato la mia nascita, perché è questo l’elemento più forte della mia natura. Questa insaziabile bramosia di conoscenza ha, per così dire, prodotto una coscienza, allo scopo di conoscere ciò che è e ciò che accade, e, inoltre, di ricavare rappresentazioni mitiche dagli scarsi indizi dell’inconoscibile.
Non siamo assolutamente in grado di provare che qualcosa di noi si conservi per l’eternità. Tutt’al più possiamo dire che vi è una certa probabilità che qualcosa della nostra psiche continui oltre la morte fisica; ma non sappiamo se ciò che continua a esistere abbia coscienza di sé. Se sentissimo il bisogno di formarci un’opinione su questo argomento, potremmo presumibilmente prendere in considerazione ciò che si è appreso dai fenomeni di dissociazione psichica. In molti casi nei quali si manifesta un complesso scisso e isolato, ciò avviene nella forma di una personalità, come se il complesso avesse coscienza di sé. Così, ad esempio, le voci sentite dai malati di mente sono personificate. Già nella mia tesi di laurea mi sono occupato di questo fenomeno dei complessi personificati. Potremmo, volendo, addurre questi complessi come testimonianze a favore di una continuità della coscienza. Anche certe osservazioni sorprendenti fatte in casi di profonda sincope, conseguente a gravi lesioni al cervello, e in casi di gravi stati di collasso, contribuiscono a rafforzare questo assunto. In entrambi i casi la totale perdita della coscienza può essere accompagnata da percezioni del mondo esterno e da intense esperienze oniriche. Dal momento che la corteccia cerebrale, sede della coscienza, in queste occasioni non funziona, non vi è ancora una spiegazione per fenomeni del genere. Potrebbero essere la prova di una persistenza, per lo meno soggettiva, della coscienza, anche in uno stato di apparente mancanza di coscienza.5
Lo spinoso problema della relazione tra l’uomo eterno, il «Sé», e l’uomo terreno – nello spazio e nel tempo – fu lumeggiato da due miei sogni.
In un sogno, che feci nell’ottobre del 1958, vedevo da casa mia due dischi a forma di lenti dai riflessi metallici che passavano veloci, compiendo una stretta parabola sopra la casa e finendo sibilando verso il lago. Erano due dischi volanti. Quindi un altro corpo veniva volando direttamente verso di me: era una lente perfettamente circolare, come l’obiettivo di un telescopio. Alla distanza di quattro o cinquecento metri si fermava un attimo, poi proseguiva volando via. Immediatamente dopo veniva un altro corpo, passando veloce attraverso l’aria: una lente con un dispositivo metallico che la collegava a una scatola, una lanterna magica. A sessanta o settanta metri di distanza si fermava nell’aria, e puntava direttamente verso di me. Mi svegliai con una sensazione di stupore. Nel dormiveglia ancora, mi passò per la testa: «Pensiamo sempre che i dischi volanti siano nostre proiezioni, e adesso risulta che noi siamo proiezioni loro. Sono proiettato dalla lente magica come C.G. Jung. Ma chi manovra l’apparecchio?». Già una volta, prima, avevo sognato del problema del rapporto tra il «Sé» e l’io. In quel primo sogno ero in giro per il mondo; camminavo per una piccola strada attraverso un paesaggio collinoso; c’era il sole e avevo un’ampia vista in tutte le direzioni. Giungevo a una piccola cappella, situata al margine della strada. La porta era accostata e io entravo. Con mia sorpresa non c’era sull’altare né un’immagine della Vergine, né un Crocifisso, ma solo una meravigliosa composizione floreale. Ma poi vedevo sul pavimento, davanti all’altare, ma rivolto verso di me, uno yogi seduto nella posizione del loto, assorto in profonda concentrazione. Quando lo guardavo più da vicino mi rendevo conto che aveva la mia stessa faccia, ed ero vinto dalla paura. Poi mi ero svegliato col pensiero: «Ah, ah, allora è lui quello che mi sta meditando. Ha un sogno, e io sono quel sogno». Sapevo che quando egli si fosse svegliato, non sarei più «esistito».
Feci questo sogno dopo la mia malattia nel 1944. Il sogno stabilisce una similitudine: il mio «Sé» si apparta in meditazione, come uno yogi, e medita la mia figura umana. Si potrebbe anche dire: assume la forma umana per entrare nel mondo tridimensionale, come qualcuno si mette lo scafandro da palombaro per tuffarsi in mare. Quando rinuncia all’esistenza nell’aldilà, il «Sé» assume un atteggiamento religioso, al quale allude anche la cappella del sogno. Nella forma terrena può fare esperienza nel mondo tridimensionale, e quindi compiere con maggiore coscienza un ulteriore passo verso la realizzazione.
La figura dello yogi, allora, rappresenterebbe in certo qual modo la mia totalità inconscia prenatale, e l’estremo Oriente, come spesso avviene nei sogni, uno stato psichico contrapposto alla coscienza. Come la lanterna magica, la meditazione dello yogi «proietta» la mia realtà empirica. Ma di solito vediamo questo nesso causale rovesciato: nei prodotti dell’inconscio scopriamo simboli di un mandala, e cioè le figure circolare e quaternaria che esprimono la totalità; e ogni volta che esprimiamo la totalità impieghiamo proprio queste figure. La nostra base è la coscienza dell’io, il nostro mondo un fascio di luce centrato sul punto focale dell’io. Da quel punto guardiamo verso un misterioso mondo di tenebre e non sappiamo se le sue pallide tracce siano causate dalla nostra coscienza, o invece posseggano una realtà propria. L’osservatore superficiale si accontenta della prima ipotesi. Ma un’indagine più accurata mostra che di regola le immagini dell’inconscio non sono prodotte dalla coscienza, ma posseggono una loro precisa realtà e spontaneità. Ciò nonostante ci limitiamo a considerarle semplicisticamente come fenomeni marginali.
Entrambi questi sogni tendono a effettuare un capovolgimento della relazione tra la coscienza dell’io e l’inconscio, e a rappresentare l’inconscio come il generatore della personalità empirica. Questo capovolgimento suggerisce che secondo l’opinione dell’«altra parte» la nostra esistenza inconscia è quella reale e il nostro mondo cosciente una specie di illusione, o una realtà apparente costruita per uno scopo preciso, simile a un sogno (che sembra una realtà fino a che vi siamo dentro). È chiaro che questo stato di cose rassomiglia molto da vicino alla concezione indiana del Maja.6
La totalità inconscia pertanto mi sembra il vero spiritus rector di tutti i fatti biologici e psichici. Essa aspira a una realizzazione totale, cioè, nel caso dell’uomo, a una totale presa di coscienza. La presa di coscienza è cultura nel senso più ampio della parola, e la conoscenza di sé è perciò l’essenza e il nocciolo di questo processo. L’orientale attribuisce al «Sé» un indubitabile significato, e secondo l’antica concezione cristiana la conoscenza di sé è la via che porta alla cognitio Dei.
La domanda decisiva per l’uomo è questa: è egli rivolto all’infinito oppure no? Questo è il problema essenziale della sua vita. Solo se sappiamo che l’essenziale è l’illimitato, possiamo evitare di porre il nostro interesse in cose futili, e in ogni genere di scopi che non sono realmente importanti. Altrimenti, insistiamo per affermarci nel mondo per questa o quella qualità che consideriamo nostro possesso personale, come il «mio talento» o la «mia» bellezza. Quanto più un uomo corre dietro a falsi beni, e quanto meno è sensibile a ciò che è l’essenziale, tanto meno soddisfacente è la sua vita: si sentirà limitato, perché limitati sono i suoi scopi, e il risultato sarà l’invidia e la gelosia. Se riusciamo a capire e a sentire che già in questa vita abbiamo un legame con l’infinito, i nostri desideri e i nostri atteggiamenti mutano. In ultima analisi, contiamo qualcosa solo grazie a ciò che di essenziale possediamo e se non lo possediamo la vita è sprecata. Anche nel nostro rapporto con gli altri uomini la questione decisiva è se in essi si manifesti o no un elemento infinito.
Il sentimento dell’illimitato, comunque, si può raggiungere solo se siamo definiti al massimo. La più grande limitazione per l’uomo è il «Sé»; ciò è palese nell’esperienza: «Io sono solo questo!». Solo la coscienza dei nostri angusti confini nel «Sé» costituisce il legame con l’infinità dell’inconscio. In questa consapevolezza io mi sento insieme limitato ed eterno, mi sento l’uno e l’altro. Se mi so unico nella mia combinazione individuale, vale poi a dire limitato, ho la possibilità di prendere coscienza anche dell’illimitato.
In un’epoca che tende esclusivamente e a ogni costo ad ampliare lo spazio vitale, e ad accrescere la conoscenza razionale, è suprema esigenza essere coscienti della propria unicità e dei propri limiti. Unicità e limitazione sono sinonimi. Senza di essi non v’è percezione dell’illimitato – e, conseguentemente, neppure presa di coscienza – ma soltanto l’illusione di identificarsi con esso, illusione che si manifesta nell’ebbrezza delle grandi cifre e del potere politico assoluto.
La nostra età ha posto il più possibile l’accento sull’uomo in questo mondo, effettuando così una demonizzazione dell’uomo e del mondo. Il fenomeno dei dittatori, con tutte le sciagure che essi hanno provocato, scaturisce dal fatto che l’uomo è stato depauperato dell’altro mondo dalla miopia dei superintelligenti. Come questi è caduto preda dell’inconsapevole. Ma il compito dell’uomo è esattamente l’opposto: diventare cosciente di ciò che preme dall’interno, dall’inconscio, invece di rimanerne inconsapevole o di identificarsi con esso. In entrambi i casi viene meno al suo destino, che è quello di creare coscienza. Per quanto ci è dato conoscere, l’unico significato dell’esistenza umana è di accendere una luce nelle tenebre del puro essere. Si può benissimo supporre che, come l’inconscio agisce su di noi, così lo sviluppo della nostra coscienza agisca sull’inconscio.
1. Sulla «conoscenza assoluta» nell’inconscio cfr. C.G. Jung, Synchronizität als ein Prinzip akausaler Zusammenhänge, 1952; trad. it. La sincronicità come principio di nessi acausali, in vol. 8 delle «Opere di C.G. Jung», Boringhieri, Torino 1976, pp. 447-538.
2. J.B. Rhine, Duke University di Durham, USA, con i suoi esperimenti con le carte ha provato che l’uomo è capace di percezioni extrasensoriali. [N.d.A.J.]
3. Atti degli Apostoli, II, 17; Gioele, III, 1.
4. La medicina viene preparata troppo tardi, quando il male si è fatto forte per i lunghi indugi.
5. Cfr. Synchronizität als ein Prinzip akausaler Zusammenhänge, 1952; trad. it. La sincronicità come principio di nessi acausali, in vol. 8 delle «Opere di C.G. Jung», op. cit., pp. 447-538. [N.d.A.J.]
6. L’incertezza sull’oggetto o il «luogo» della realtà si era manifestata già altre volte nella vita di Jung: quando, bambino, sedeva sulla pietra e gli piaceva immaginare che la pietra dicesse d’essere o fosse «io». Cfr. anche il ben noto sogno della farfalla in Ciuang-tzé. [N.d.A.J.]
Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni (Raccolti ed editi da Aniela Jaffé)