di Eva Cantarella
Nato nel 427 a.C. nell’isola di Egina, di fronte ad Atene, dove il padre si era temporaneamente stabilito, Aristocle – soprannominato dal suo maestro di ginnastica Platon, per la larghezza delle sue spalle (dall’aggettivo platus, ampio) – apparteneva a una delle famiglie più aristocratiche di Atene, dove ricevette l’educazione riservata agli appartenenti al suo status sociale, e dove a vent’anni conobbe Socrate, di cui divenne un discepolo e al cui fianco rimase fino alla morte di questi (399 a.C.). Attorno al 385 fondò una scuola filosofica poco fuori la città, chiamata «Accademia» dal nome dell’eroe locale Akademos, ove accorsero i migliori intelletti della Grecia. E in quella scuola visse fino alla morte, nel 347, e ivi venne sepolto.
Tra le sue opere, il Simposio (certamente la più nota) assume, come sempre in lui, la forma letteraria del dialogo, che nella specie si svolge durante uno di quei banchetti nei quali un numero variabile di cittadini (maschi liberi e adulti, quindi) mangiava, beveva, ascoltava canti e musica, e assisteva a spettacoli di danza ed esibizioni di vario genere. Ma il momento centrale era quello in cui, quasi al termine della cena (deipnon), si cominciava a bere (donde il nome simposio, da syn pinein, bere insieme) e a discutere l’argomento sul quale si era precedentemente deciso di intrattenersi, in questo caso l’amore. Senonché, nel simposio, né l’assunzione del vino né la conversazione avevano luogo liberamente: come tutti gli aspetti della riunione, esse erano regolate da norme prestabilite, del cui rispetto era garante un «simposiarca» (capo del simposio). Quello che noi spesso traduciamo impropriamente con banchetto era infatti un rito, che accanto al valore sociale e culturale aveva una dimensione religiosa, rappresentata da un’offerta agli dèi di un assaggio del vino che si sarebbe bevuto. Ma sempre, rigorosamente, questo vino era mescolato con l’acqua. Il vino greco, infatti, era molto alcolico e berlo puro portava facilmente all’ubriachezza, che i greci ritenevano manifestazione di inciviltà. Solo i barbari – per definizione incivili, secondo loro – bevevano fino a ubriacarsi (da cui l’espressione popolare «bere alla scita»: come gli sciti, vale a dire appunto come dei barbari). «Il vino bevuto in abbondanza è male: se lo si beve con saggezza (epistemos) non è un male, ma un bene», avverte Teognide (509-510).
L’obiettivo, dunque, era evitare le conseguenze negative del bere mescolando acqua e vino in proporzioni determinate dal rapporto che si intendeva raggiungere tra la dolce follia dell’ebbrezza (purché controllabile), e la saggezza della lucidità che si voleva mantenere. Il simposio, si potrebbe dire, era un’esperienza che nella vita delle società aristocratiche rappresentava e riproduceva il modello dell’etica sociale dei greci: nessun ascetico distacco dai piaceri, ma neppure una frustrante privazione. Anche nel bere, l’ideale greco era la misura.
E veniamo alla conversazione, che nel nostro caso si intrecciò nella casa di Agatone, dove il simposio era stato convocato per festeggiare la vittoria di questi, allora giovane autore tragico emergente, alle Grandi Dionisie del 416 a.C. Il tema della serata – come abbiamo detto, l’amore – doveva essere trattato, come voleva la regola, seguendo un ordine prestabilito di interventi. In quel caso a parlare, lodando a turno Eros, furono Fedro, Pausania, Erissimaco, Agatone, Aristofane e Socrate. Inatteso, invece, l’intervento finale di Alcibiade, che pronunziò un entusiastico, celebre elogio di Socrate, contribuendo comunque, come gli altri, a fare del Simposio un documento fondamentale per conoscere la concezione e la valutazione culturale dell’amore in una società così diversa e lontana da noi com’era quella dei greci.
Anche se in prospettiva diversa, infatti, tutti i discorsi parlano dell’amore come di un rapporto che può legare sia due persone di sesso diverso, sia due persone dello stesso sesso: ma dando luogo, a seconda dei casi, a una valutazione culturale e sociale diversa. Come chiaramente dimostra il discorso attribuito ad Aristofane, nel quale Platone racconta il mito dell’androgino. In origine – racconta quel mito – i sessi non erano due, erano tre. Gli esseri umani avevano la forma di una sfera, si muovevano rotolando su quattro mani e quattro piedi. Ciascuno di essi aveva due volti, ai lati opposti della sfera, e, sempre ai lati della sfera, due organi sessuali: alcuni avevano due organi sessuali maschili, altri due organi sessuali femminili, altri ancora (gli androgini o ermafroditi) un organo maschile e uno femminile. Senonché, un giorno, essendo divenuti troppo arroganti, vennero puniti da Zeus, che li tagliò a metà. E a partire da quel momento ciascuna metà cominciò a cercare la metà perduta. Chi in origine era interamente uomo cercava un altro uomo: e questi sono i migliori tra gli uomini, dice Aristofane, e quando diventano adulti sono i più adatti a essere buoni politici. Chi era stato ermafrodito cercava persone dell’altro sesso: e tra questi, grandi amatori di donne, si trovano per lo più gli adulteri. E quelle che erano state interamente donne cercavano un’altra donna: sono le tribadi (parola volgarissima per indicare le prostitute).
Quale sia il giudizio di valore di Aristofane sui rapporti pederastici e su quelli uomo/donna è così evidente da non richiedere commenti. E il suo giudizio coincide con quello degli altri interventi, dall’insieme dei quali emerge un altro aspetto importantissimo dell’etica sessuale greca: l’importanza culturale della pederastia non significava accettazione di tutti i rapporti oggi chiamati omosessuali. I greci (per i quali la virilità significava attività, anche in campo sessuale) accettavano e valutavano positivamente, all’interno di quei rapporti, solamente quelli nei quali l’adulto, oltre a quello dell’amante, svolgeva il ruolo attivo del maestro e del modello. Nell’età in cui il giovane non era ancora un uomo, ma solo un uomo in fieri, (all’incirca fino ai diciassette anni, dunque) la frequentazione e l’esempio dell’amante erano lo strumento formativo grazie al quale egli apprendeva i valori fondamentali della polis. Il che aiuta a comprendere il complesso rituale del corteggiamento pederastico, secondo il quale l’adulto doveva dare prova di non essere attratto solo dalla bellezza fisica del ragazzo, e questi, nel corso del corteggiamento (durante il quale poteva accettare anche dei doni, purché di valore economico irrilevante) doveva assicurarsi che le intenzioni del corteggiatore fossero serie, e il suo affetto nobile e duraturo. Solo a queste condizioni, cedendo, non rischiava di perdere la sua reputazione. Ma, una volta raggiunta la maggiore età, doveva cambiare ruolo, pena una pesante riprovazione sociale: dell’adulto che continuava a essere un amato si diceva che si era «fatto donna». Divenuto ormai un uomo, doveva assumere il ruolo attivo in politica, in guerra e in amore.
Il Simposio, concludendo, è il trattato sull’amore più esteso pervenutoci dall’antichità. E questo ne fa un’opera di importanza fondamentale non solo dal punto di vista filosofico, ma anche da quello storico. Esso ci fa conoscere i tratti fondamentali dell’etica sessuale greca e capire i lineamenti di un’istituzione, come la pederastia, che a noi, fuori del suo contesto, appare certamente singolare, ma che altrettanto certamente è indispensabile conoscere per comprendere la cultura greca in tutte le sue manifestazioni. Ivi compresa, certamente non ultima, anche quella artistica.
Prefazione al volume Platone, Simposio, I classici del pensiero libero. Greci e Latini, Bur Rizzoli Ed. speciale per il Corriere della Sera, 2012