Emanuele Severino: la fede e il problema della verità

Emanuele Severino risponde alle domande degli alunni del liceo Plauto di Roma sul tema del rapporto tra fede e la verità.

Emanuele Severino, in una puntata del Grillo-Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche del 1999, risponde alle domande degli alunni del liceo Plauto di Roma sul tema del rapporto tra fede e la verità.

Severino, che un tempo insegnava all`Università Cattolica, racconta del “divorzio consensuale” che ha sancito il suo allontanamento dalla Chiesa. Da tempo egli ha teorizzato la cosiddetta “alienazione” del cristianesimo, ovvero il pessimismo con il quale il cristianesimo intende la caducità dell’esistenza umana.

I temi della critica di Severino investono la fede intesa come volontà che il mondo abbia un senso piuttosto che un altro. Intesa in questi termini, la fede costituisce una violenza contro la pluralità irriducibile di tutti gli alternativi sensi possibili del mondo.

* * *

Buongiorno, sono Emanuele Severino e siamo qui per discutere il tema che ha per titolo la Fede e il problema della verità.

Salve. Io vorrei sapere perché nel suo libro A Cesare e a Dio lei definisce il cristianesimo come quell’alienazione che poi caratterizza la storia dell’Occidente. Quindi, in che modo dobbiamo intendere questa nostra affermazione?

Signorina, ha incominciato dalla parte più difficile e cioè la risposta. Dovrebbe dire questa sua domanda che in tutta la storia dell’Occidente c’è la convinzione che l’uomo e le cose sono caduchi, precari. Come dice il Vecchio Testamento: Adamo è polvere e tornerà a essere polvere. È Dio stesso a dirlo. Ecco, si tratta di capire che qui sta l’alienazione, nel pessimismo estremo con il quale anche il cristianesimo, come tutte le altre forme… Quindi, la critica che dal mio punto di vista viene rivolta al cristianesimo non è una critica riduttivistica, dove io mi pongo, mi schiero con coloro che dicono che c’è soltanto il mondo. No, c’è di più, c’è di più di Dio, c’è qualcosa di più di Dio. Ecco, questo tanto per dare una direzione a una risposta che, se fosse giusta, ci prenderebbe tutto il tempo della trasmissione.

Nel ’71, mi sembra, un suo libro è stato messo all’indice, è stato condannato dalla Chiesa. Può spiegarci dove nasce il contrasto con la Chiesa e quindi dove è nato il problema?

Mmm… No, non è stato messo all’indice. A un certo momento c’è stato un divorzio consensuale tra me e la Chiesa, nel senso che a un certo momento mi sono reso conto che il discorso filosofico che già avevo fatto da tempo implicava la negazione del cristianesimo. Allora io insegnavo all’Università Cattolica, un po’ per i motivi che ho detto prima alla sua compagna. Perché i motivi erano appunto l’alienazione del cristianesimo e allora si arrivò a quello che probabilmente è rimasto l’ultimo vero e proprio processo, ma di altissimo interesse culturale. E non crediamo che la Chiesa faccia delle stupidaggini o delle malversazioni a livello spicciolo. Da parte dell’autorità dell’Università Cattolica c’era il desiderio che io me ne andassi, quindi per questo prima dicevo che è stato un divorzio consensuale.

Volevo sapere da dove nasce però concettualmente proprio il divorzio.

Eh sì, se c’è un discorso che dice: “Badate, la fede di fondo di tutta la cultura occidentale è la persuasione che l’uomo e le cose sono polvere, sono cose caduche”. Ed è una persuasione che è presente in campo filosofico, poi in campo scientifico, poi in campo artistico, poi in campo istituzionale. È diffusa dappertutto. Se c’è questa persuasione di fondo, che è il vero pensiero dominante dell’Occidente, e poiché il cristianesimo condivide questa concezione di un essere uomo come essere cosa caduca, allora discende — ma si tratterebbe di vedere poi in concreto il perché di questa affermazione — che il cristianesimo appartiene all’alienazione essenziale dell’Occidente. Pensare che le cose sono caduche, che escono e ritornano nel niente, significa pensare che le cose sono niente. Questa è la follia estrema. Allora, un discorso che dice che, all’interno della follia estrema, sta anche il cristianesimo… è chiaro che doveva provocare la reazione da parte dei cristiani, ma anche da parte della Chiesa. Quindi nulla di particolarmente drammatico in questo senso. Anzi, mi ricordo che ho avuto un’esperienza culturale estremamente interessante.

Salve, abbiamo visto la scheda filmata. Si è parlato di fede. Sono qui, eccomi qua. Volevo porle questa domanda: poiché la fede, come sappiamo, si basa su dogmi, per esempio la verginità della Madonna o l’esistenza di Dio e la Trinità di Dio, come può una persona che non ha fede, considerata come un dono di Dio, avvicinarsi alla religione con la ragione, tenendo presente che questa deve dare delle spiegazioni logiche e razionali anche a fenomeni con metodologie scientifiche?

Sentendo la scheda, ero già in disaccordo, anche se chi l’ha costruita ha fatto benissimo a costruirla come l’ha costruita. Ero già in disaccordo quando sentivo che la fede è un dono di Dio, un dono della grazia. Un dono… Chi si pone, chi dice questo — e purtroppo lo vedo dire anche da laici — dice: “Io non ho il dono della fede”. Lo diceva anche D’Alema, o anche Indro Montanelli, “Io non ho il dono della fede”. Ma chi dice questo riconosce che la fede sia qualcosa che valga la pena di ricevere in dono. Laddove potrebbe benissimo darsi che il dono vero e proprio sia quello di non avere fede.

Allora, a questo punto, io le chiedo: secondo lei che cos’è, che cosa diventa la fede? E in che modo può aiutarmi come persona, ma anche a livello di comunità?

Lei mi dice: “Che cos’è la fede?”. E allora qui devo dire a voi giovani — e dopo farò un piccolo predicozzo, ma brevissimo — devo dire a voi giovani che la fede è volere che il mondo abbia un senso piuttosto che un altro. È d’accordo su questo? È la volontà che il mondo abbia un certo senso, per esempio il senso cristiano e non il senso buddista, cioè che abbia un senso che sia equivalente ai sensi alternativi. Allora, questa volontà che il mondo abbia un certo senso è una prevaricazione, è violenza. Se lei mi chiede, così ex abrupto1, di dire che cosa dal punto di vista dell’oggettività si deve dire, allora nella fede non vedo uno strumento che possa chiarire il senso della verità, anche se non avendo fede noi non staremmo seduti dove siamo seduti, perché per essere seduti dobbiamo avere fede che ci sia un pavimento, una seggiola che ci regge, eccetera.

Ecco, la fede serve dal punto di vista pratico, ma dal punto di vista della verità è proprio uno sbandamento nella direzione opposta a quella della verità. È la prevaricazione, è dire: “Il mondo ha questo senso, non un altro”. Questo è il prevaricare, questa è violenza.

Il predicozzo che volevo fare lo faccio magari rispondendo a un’altra domanda.

Salve, professore. Volevo chiederle: nel suo libro A Cesare e a Dio lei riporta che è nell’essenza della logica del cristianesimo l’interesse per il potere politico, riportando una frase di Gesù: “Date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio”. Io non mi trovo d’accordo su questo perché, mi permetta, io credo che quella frase di Gesù abbia un senso molto all’interno della situazione in cui si trovava, cioè… Quello era un tranello teso dai farisei ai danni di Gesù, perché i farisei mal tolleravano il governo politico romano. A questo punto, qualsiasi fosse stata la risposta di Gesù, si sarebbe automaticamente auto-danneggiato. In questo modo, Gesù ha avuto una risposta magistrale che però ha senso all’interno della situazione in cui è stata espressa. Anche perché, in altri passi, Gesù dice: “Il mio regno non è di questo mondo”. Per esempio, nel discorso a Pilato, dice: “Il mio regno non è di questo mondo”. Il potere politico che si è arrogata la Chiesa nel corso dei secoli… attualmente il Papa ancora ricopre il ruolo di capo politico. È qualcosa di assolutamente contrario al cristianesimo. Secondo me è qualcosa che non c’entra niente con il cristianesimo.

Tutte le frasi evangeliche sono nella situazione, però non credo che lei pensi che Gesù volesse dire: “Non date a Cesare quel che è di Cesare, non date a Dio quel che è di Dio”.

No, infatti non condivido questa espressione che poi è spiegata nel libro.

No, no, dico: “Non date a Cesare”. E non penso che lei voglia dire che Gesù, per trarsi d’impaccio, pensasse che non si deve dare a Cesare e non si deve dare a Dio. Quindi, lo si deve prendere in modo minimale sul serio. Ma c’è un’altra frase di Gesù: “Non si possono servire due padroni”. Ora, per quanto ogni frase sia contestualizzata, il non poter servire due padroni è il segreto della frase: “Date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio”. Cioè, Gesù può pensare che il vero credente dia a Cesare qualcosa che è contro Dio?

Io, in questo caso, credo quello che ho detto prima. Cioè, l’unica soluzione è che quando Cesare chiede qualcosa che sia contrario a Dio, non è possibile.

Bene, siamo d’accordo. E allora questo cosa vuol dire? Vuol dire che non è soltanto la Chiesa attuale ad essere politica, ma è Gesù stesso che originariamente dice: “Attenzione, il politico, la politicità, deve essere inteso in modo tale che non si dia a Cesare quello che è contro Dio”. Allora, l’istanza politica discende naturalmente. La Chiesa non altera il messaggio di Gesù, non è tutto l’opposto, come diceva lei, di quello che dice Gesù, ma la politicità è immanente nel messaggio di Gesù. Lo Stato non deve essere contrario a Dio. Quando cominciamo a dire questo, cominciamo a dire: “Eh, ma allora se in uno Stato c’è la violazione dei diritti di Dio, questa violazione non può essere lasciata vivere”. Perché lasciarla vivere sarebbe tollerare che nello Stato ci sia la violazione. Ma cosa vuol dire “Non può essere lasciata vivere”? Vuol dire che devono esserci delle leggi che impediscono la violazione e quindi, siccome non ci sono leggi se non ci sono sanzioni, ci devono essere sanzioni che puniscono la violazione delle leggi. Quindi, ci deve essere uno Stato che sanziona un comportamento contrario al cristianesimo. Che la Chiesa, di fronte a queste conseguenze, si tiri indietro e cerchi di evitarle, questo l’ho sempre riconosciuto, l’ho sempre detto. Ma che il pensiero della Chiesa e del cristianesimo, e di Gesù, sibi permissus2, cioè lasciato a se stesso, conduca a queste conclusioni, ecco, questo è quanto sostengo.

Ho sempre il debito del predicozzo, ma…

Lei riconosce comunque una certa coerenza nel comportamento e nelle idee della Chiesa e quindi del Papa. Forse l’unico punto coerente che è rimasto costante nelle proprie idee nei giorni d’oggi, almeno. E poi, un’altra cosa: sempre nell’enciclica3, il Papa sottolinea una grande crisi, negli ultimi anni, del pensiero e quindi dei pensatori. È d’accordo con questa sua idea?

Sono perfettamente d’accordo sul fatto che la Chiesa sia profondamente coerente. Proprio per questa coerenza, nell’ultima enciclica non c’è una virgola di novità. Una virgola non c’è. È fatta molto bene, è molto interessante, uno di quei documenti che si dovrebbero moltiplicare, però il riferimento a Tommaso c’è sempre. C’è insieme quello che possiamo chiamare un luogo comune per cui, formulando il discorso, si dice che la ragione umana è finita, non conosce tutto. Allora, proprio perché la ragione umana è finita, ecco che viene la fede a riempire gli spazi lasciati vuoti dalla ragione umana. È vero che la ragione è finita, e non c’è stata nessuna filosofia o scienza che abbia fermato l’infinità della ragione. Neanche Hegel, lo dico per i giovani che studiano filosofia. Neanche Hegel si è sognato di affermare una stupidaggine del genere. Certo, ci sono dei campi non toccati, non esplorati. Ma perché deve essere proprio la fede cristiana a dire: “Ecco, io sono l’abitatrice di questi spazi”? Ci sono tante altre fedi alternative. Ritornando a quanto dicevo prima sulla violenza della fede: questo entrare in campo, puntare i piedi e dire “Io sono l’abitatrice degli spazi vuoti lasciati dalla ragione”, questa è la prevaricazione, questa è la violenza a cui mi riferivo.

Scusi, ma la fede può essere considerata come qualcosa che è innata in noi, oppure possono intervenire determinati fattori, quali la ragione, a svilupparla oppure a condizionarla in qualche modo?

Signorina, se noi parliamo della fede cristiana, i grandi padri della Chiesa dicono: Fides ex auditu4. Allora, si ha fede solo se si sente una voce che parla in modo tale che l’uomo da solo non sarebbe mai arrivato a pensare quello che questa voce dice. Allora, dal punto di vista di questa grande ortodossia cristiano-cattolica, non si può parlare di un’anima naturaliter cristiana5. Non è innata la fede, perché se fosse innata, non ci sarebbe bisogno della grazia, del messaggio di Dio. Quindi non è innata, è storica, è qualcosa che adveniens ab extra6, viene dall’esterno. Se si parla dell’innatezza della fede, si distrugge la soprannaturalità. O meglio, si distrugge quella soprannaturalità che per il cattolicesimo è essenziale alla fede. Soprannaturalità vuol dire che il messaggio di Cristo contiene qualcosa che la ragione umana da sola non può raggiungere.

Salve, professore. Io volevo dirle che, nel contesto del rapporto fra fede e ragione, fede e verità, io credo che il miglior punto di incontro ce lo fornisca Cartesio. Fino al tempo di Cartesio, si era visto nel nome di Dio un ostacolo al progresso scientifico. Ora, invece, Cartesio pone Dio come il garante delle verità supreme, come il garante dell’intelletto umano. Io volevo sapere cosa ne pensa.

Sì, la storia della filosofia — e sentendo lei parlare, penso che abbiate un bravissimo insegnante — non è quel campo di lotta senza fine dove uno sta da una parte e l’altro dall’altra. C’è uno sviluppo, e a un certo momento Cartesio è inevitabile, così come c’è un momento in cui Aristotele è inevitabile, così come poi c’è un momento in cui Kant è inevitabile. Allora, in relazione a quella fase dello sviluppo del pensiero filosofico, certo, Cartesio è un contributo inevitabile. Ma se vogliamo dire qual è, come mi pare che lei voglia dire, la posizione che più adeguatamente stabilisce i rapporti tra fede e ragione, allora i due modelli sono quello greco — e non esito a dire greco-kantiano — che dice: se la fede contrasta la ragione, la fede è errore, liberiamocene. Questo è il gesto originario della filosofia. Platone, e prima Eraclito, e lo stesso Parmenide, e poi Aristotele, Plotino, gli Stoici, e gli Epicurei dicono questo: nel conflitto tra ragione e fede, la parola ultima è della ragione.

L’enciclica, che è interessantissima, anche se non dice nulla di nuovo — ha alle spalle Agostino, Tommaso, Anselmo — fa questo discorso, riprendendo Tommaso: se c’è contrasto tra fede e ragione, allora, poiché la fede è rivelata da Dio e Dio non può rivelare l’errore, non ci può essere contrasto tra fede e ragione. Dunque, quando la ragione smentisce la fede, non è una vera ragione, ma è un abuso della filosofia. Tommaso dice proprio: abusus philosophiae ex defectu rationis, cioè un abuso della filosofia per mancanza di ragione. Allora qui il perno è la fede. Se c’è una ragione che smentisce la fede, quella non è verità. Soltanto che il guaio grosso è che la premessa di tutto questo discorso è che ci sia un Dio che dona una fede vera. Ora, questo discorso si costituisce all’interno della fede, è esso stesso un atto di fede, non è qualcosa che sta al di fuori della fede e possa essere trattato come una verità oggettiva. È dal punto di vista del credente che Dio dà una fede e la dà in modo tale che questa fede non sia errore. Il dilemma, che non vedo come la Chiesa possa evitare — ma non solo la Chiesa, tutti coloro che si ispirano a questa concezione — è di spacciare come verità indiscutibile l’affermazione che Dio rivela la fede e che la fede che Dio rivela sia una verità incontrovertibile. Questo vuol dire che si sa che c’è Dio, che Dio rivela, che l’uomo ascolta e che Dio rivela una fede vera.

Io volevo sapere come mai ha portato quell’affresco di Raffaello7, che valore simbolico gli attribuisce…

La grande scuola greca è quella che dice quello che Socrate diceva sempre: “Io in tutta la mia vita ho seguito la verità”. E per Socrate, seguire la verità vuol dire non seguire la fede. Tutta questa gente del quadro di Raffaello è gente che dice: l’uomo deve tener dietro alla verità.

A questo punto sì, si fa presto a dire verità, ma che cosa significa verità? Allora dovremmo incominciare a vedere che cosa significhi verità per il pensiero greco.

Io volevo sapere cosa ne pensa lei del ruolo dell’uomo nella vita, perché comunque, come aveva detto lei precedentemente, che l’uomo nasce dalla polvere e ritorna polvere. Volevo sapere anche cosa ne pensava lei dell’anima, perché, comunque, se l’uomo, partendo dal presupposto che non avesse un’anima e tornasse polvere, che ruolo avrebbe? Cioè, avrebbe un ruolo in un disegno più grande, qualcosa di religiosità che dovrebbe essere?

Certo. È chiaro che le risposte, in questa sede sono solo accenni di risposte. Lei mi chiedeva cosa penso dell’uomo. Io penso che l’uomo è l’eterna visione della verità. Cioè, noi siamo infinitamente di più di quello che crediamo di essere. Quando sono entrato e ho detto: “Io sono Emanuele Severino“, stavo sbagliando. Perché anch’io, come lei, come tutti, siamo infinitamente di più di quello che tutta la cultura pessimistica dell’Occidente ci dice. Ci dice che siamo povere cose, aiutate da un Dio, aiutate da un Salvatore, che però di per sé stesse oscillano tra l’essere e il niente, che hanno bisogno di un sostegno, di un aiuto, di un riparo, come dicevamo prima.

Cosa penso dell’uomo? L’uomo è l’eterna, ripeto, visione dell’eterno, dell’eternità di tutte le cose. Ma, ovviamente, non possiamo qui esaurire questo discorso.

Non è proprio il cristianesimo a dire che l’uomo non finisce mai, che lo spirito, almeno, che l’anima non finisce mai? Il corpo, in realtà, non è molto importante nella religione cristiana.

Purtroppo, perché il corpo non si vede come qualcosa di inferiore alla psiche, alla coscienza, ai pensieri. Perché questo svilimento del corpo?

Il corpo è un eterno come gli altri eterni. In questo senso Platone diceva una cosa molto interessante: “Sono idee anche i peli della barba di Socrate”. Soltanto che per Platone, oltre alle idee, c’è il mondo. Allora, non è solo il cristianesimo a dire che c’è un eterno; è tutta la filosofia greca, è quel Cartesio di cui parlava la signorina.

Ma non è pessimista, però?

Aspetti… Allora dicendo questo è un anelito verso il superamento del pessimismo. Dire che l’eternità riguarda soltanto una parte della realtà, la parte nobile, la parte spirituale, non è l’eterno di cui parlavo prima. Questo eterno è il Dio che fa da padrone sul corpo, sul mondo, sul divenire. Fa da padrone e finisce con lo schiacciarlo. Dire che– nel senso che io non posso vivere se non conformemente a questo Dio che esige rispetto, eccetera, significa introdurre una gerarchia tra ciò che è eterno. Quando si dice che tutto è eterno, si dice che non esiste un padrone e un servo. Tutto è eterno, tutto è paritario: il corpo, il pelo della barba, il più sublime dei pensieri di Goethe, la melodia più sublime di Beethoven. Varietà totale. L’essere in quanto essere è eterno. Questo porta a una dimensione del tutto diversa da quella dell’eterno pseudo-ottimistico, in cui c’è un Dio eterno che trattiene presso di sé l’eternità. Lei sa che, dopo che Dio manda via Adamo, mette un cherubino a guardia dell’albero della vita, dicendo: “Affinché non venga a mangiare dell’albero della vita e diventi eterno come noi”. Ecco, questo Dio è invidioso della eternità possibile dell’uomo.

Continuiamo a essere in disaccordo, perché queste cose qui… Probabilmente bisogna passare… Voi avete il compito di vivere, prima si vive e poi si riflette criticamente sulla vita. Quindi, con questa esortazione a tenere viva la dinamica tra fede e critica della fede, io concluderei questo nostro incontro.

[Applauso]

NOTE

1. Ex abrupto è una locuzione latina che significa “improvvisamente”, “di punto in bianco” o “senza preavviso”. Viene spesso usata per indicare qualcosa che avviene in modo brusco o senza una preparazione o introduzione adeguata. Ad esempio, si può dire che qualcuno ha iniziato un discorso ex abrupto se ha iniziato a parlare senza un’introduzione o un contesto, saltando direttamente al punto.

2. Sibi permissus è la forma passiva e ablativa singolare del participio passato del verbo latino permittere, che significa “lasciato a se stesso” o “abbandonato a se stesso”. Viene usato per descrivere qualcuno a cui è stata concessa totale libertà o che si trova senza controllo o vincoli esterni. È un concetto che può evocare un senso di abbandono, di autonomia assoluta, o anche una situazione in cui una persona è libera di agire senza restrizioni imposte da altri.

In filosofia o letteratura, sibi permissus può essere usato per indicare un individuo che agisce o pensa senza essere condizionato da norme sociali o morali, esplorando il proprio percorso senza guida o restrizioni. Può avere una connotazione sia positiva, come espressione di completa libertà e autodeterminazione, sia negativa, come indicazione di smarrimento o disorientamento.

3. “Fides et ratio” (Fede e ragione) è una delle encicliche più significative di Papa Giovanni Paolo II, pubblicata il 14 settembre 1998. In questo documento, il pontefice affronta il rapporto tra fede e ragione, due dimensioni che nella tradizione cristiana hanno sempre avuto un ruolo fondamentale ma, spesso, percepite in contrasto. Il tema centrale è l’affermazione che fede e ragione non sono opposte, ma complementari: entrambe concorrono alla ricerca della verità e al raggiungimento di una comprensione più piena del senso dell’esistenza umana e del mistero divino.

Giovanni Paolo II sottolinea che la fede senza la ragione può degenerare nel fideismo, cioè una fede cieca e priva di comprensione critica, mentre la ragione senza fede rischia di sfociare nel relativismo, perdendo il contatto con i valori assoluti e universali. Secondo l’enciclica, la verità è una, e sia la fede che la ragione sono strumenti per avvicinarsi ad essa.

Un altro punto chiave dell’enciclica è l’appello ai filosofi e ai teologi di continuare a lavorare insieme per esplorare le grandi domande esistenziali, rifiutando il nichilismo e lo scetticismo che caratterizzano parte della cultura moderna. Giovanni Paolo II insiste sul fatto che la Chiesa deve accogliere e valorizzare la ricerca filosofica, ma che questa ricerca non può esaurirsi in una visione puramente razionale e autonoma, poiché la rivelazione divina ha un ruolo fondamentale nell’arricchire e completare la comprensione umana.

Questa enciclica si inserisce in un contesto più ampio di riflessione sul dialogo tra cultura e religione, filosofia e teologia, che è stato uno dei temi centrali del pontificato di Giovanni Paolo II.

4. Fides ex auditu è una frase latina che significa “la fede viene dall’ascolto” o “la fede deriva dall’udito”. Si tratta di un concetto tratto dalla Lettera ai Romani (Romani 10,17) di San Paolo, dove si afferma: “Fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi” — “La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo.”

Il significato teologico di questa espressione è che la fede non nasce da un atto puramente spontaneo o razionale dell’individuo, ma dall’ascolto della Parola di Dio, trasmessa attraverso la predicazione. È attraverso l’udire l’annuncio del Vangelo e la rivelazione divina che una persona può arrivare alla fede. L’ascolto non è inteso solo come un atto passivo o fisico, ma piuttosto come un’apertura interiore, un’accoglienza attiva del messaggio divino che può poi essere trasformato in credenza e adesione.

Questa idea sottolinea l’importanza della trasmissione della fede attraverso la predicazione, l’insegnamento e il ruolo della comunità ecclesiale nel diffondere il messaggio di Cristo. È anche un concetto che evidenzia come la fede non sia solo un’esperienza intellettuale o individuale, ma qualcosa che si radica nell’interazione con gli altri e nella ricezione di una tradizione di credenze trasmesse nel tempo.

5. L’espressione anima naturaliter christiana deriva dal pensiero di Tertulliano, un importante scrittore cristiano del II-III secolo, e si traduce in “anima naturalmente cristiana”. Questa idea è legata alla convinzione che l’anima umana, per sua stessa natura, è orientata verso Dio e la verità cristiana, anche se l’individuo non è consapevole di tale inclinazione o non ha ancora ricevuto il messaggio evangelico.

Tertulliano voleva affermare che la capacità di percepire la verità di Dio e i principi del cristianesimo non è qualcosa di estraneo o innaturale all’essere umano, ma che, al contrario, è profondamente inscritta nella natura stessa dell’uomo. In altre parole, l’essere umano, con la sua coscienza e la sua naturale inclinazione alla giustizia, alla verità e al bene, riflette una predisposizione innata a riconoscere Dio, anche senza una rivelazione diretta. Secondo questa prospettiva, la fede cristiana non è qualcosa che viene imposta dall’esterno, ma piuttosto una rivelazione di ciò che è già in sintonia con la struttura intima dell’anima umana.

Tertulliano sviluppa questa visione nel contesto della difesa del cristianesimo, sottolineando che la religione cristiana risponde alle esigenze più profonde della natura umana, e che ogni persona, nella propria interiorità, è in qualche modo già predisposta ad accogliere la verità cristiana. Tuttavia, questo orientamento naturale deve essere nutrito e completato attraverso la rivelazione divina e la grazia, elementi fondamentali nel percorso della fede.

La frase anima naturaliter christiana è quindi un’affermazione dell’universalità della verità cristiana, che si collega profondamente all’antropologia teologica e alla concezione cristiana dell’uomo come creatura fatta a immagine di Dio.

6. Adveniens ab extra è un’espressione latina che significa “giungendo dall’esterno” o “venendo da fuori”. Questa locuzione può essere usata in contesti filosofici, teologici o metaforici per indicare qualcosa che arriva da una fonte esterna o da una realtà esterna rispetto a un contesto preesistente.

In ambito teologico, l’espressione si riferisce all’idea che la verità o la rivelazione provengano dall’esterno dell’esperienza umana ordinaria, come la rivelazione divina che si manifesta agli esseri umani dall’esterno della loro capacità naturale di comprensione. L’idea di una verità adveniens ab extra sottolinea che certi aspetti della conoscenza, come la fede o la salvezza, non possono essere semplicemente scoperti o raggiunti dall’uomo per mezzo della sua ragione o dei suoi sforzi, ma necessitano di un intervento che giunge dall’esterno, in questo caso da Dio.

In un contesto più ampio, può indicare l’influenza di forze esterne su un sistema chiuso o su una realtà interna, sia che si parli di filosofia, politica o cultura. Un cambiamento, una verità o una novità che advenit ab extra può essere qualcosa che interrompe o modifica lo stato attuale delle cose, generando nuove dinamiche o prospettive.

7. L’affresco mostrato è “La Disputa del Sacramento”, realizzato da Raffaello Sanzio tra il 1509 e il 1510. Si trova nella Stanza della Segnatura nei Musei Vaticani, Roma. L’opera rappresenta una discussione teologica sulla presenza di Cristo nell’Eucaristia, illustrata con un ampio gruppo di figure sacre e teologi.

In alto si vede la Trinità: Dio Padre, Cristo e lo Spirito Santo sotto forma di colomba. A sinistra di Cristo c’è la Vergine Maria, e a destra Giovanni Battista, circondati da santi, patriarchi e apostoli. In basso, una schiera di teologi e dottori della Chiesa discute la dottrina dell’Eucaristia, rappresentata dall’ostensorio posto al centro della composizione.

L’affresco simboleggia l’unità tra la Chiesa celeste e la Chiesa terrena, un tema centrale nel pensiero teologico del Rinascimento.

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