Il sistema fiscale italiano, così com’è impostato, fa sì che i più ricchi paghino proporzionalmente meno tasse rispetto a coloro che guadagnano meno. Una situazione che non è attribuibile all’evasione fiscale, ma piuttosto alla struttura stessa del sistema fiscale nazionale.
Il nostro sistema tributario, infatti, tassa in maniera differente il reddito da lavoro (imposta progressiva) e il reddito da capitale (imposta sostitutiva), con quest’ultimo che gode di trattamenti fiscali più favorevoli.
Attraverso esempi pratici, nel video viene illustrato come il sistema fiscale favorisca chi percepisce redditi da capitale (ad esempio i rendimenti da investimenti), rendendo il sistema meno equo e progressivo di quanto si possa pensare.
Ma qual è la soluzione? Proprio per muoversi verso una maggiore equità, ci sarebbe bisogno di nuove riforme per adattare il sistema fiscale alla distribuzione attuale della ricchezza.
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In Italia si dice che le persone più ricche pagano meno tasse rispetto a chi ha meno soldi, ma non c’entra l’evasione.
Categorizzazione del reddito fiscale
Ciao a tutti! Io sono Edoardo, questa è Star in Finance e oggi parliamo del perché i ricchi in Italia pagherebbero meno tasse degli altri. Ma prima chiariamo alcune cose, per esempio: cosa vuol dire essere ricco in Italia?
Iniziamo col fare una distinzione tra reddito e patrimonio, ovvero tra quanto ci entra in tasca durante un certo periodo di tempo e quante proprietà abbiamo. Il reddito è la somma di tutte le entrate che una persona guadagna in un determinato periodo di tempo. Questi soldi possono arrivare dal lavoro, da affitti di case, da rendimenti su investimenti e da tante altre fonti. Si dice che il reddito sia di natura fluttuante e periodica, il che vuol dire che può variare da mese a mese o da anno ad anno a seconda di diversi fattori.
Il patrimonio, invece, rappresenta il valore totale di tutti i beni e le risorse economiche che una persona possiede in un momento specifico: immobili, contanti, gioielli, automobili, eccetera. È come se fosse una fotografia delle nostre proprietà alla fine dell’anno, per esempio.
L’Istat definisce il livello di ricchezza delle persone in base al reddito. Tuttavia, non ci dice esattamente quale reddito classifica una persona come ricca. Però abbiamo trovato un report che ci aiuta a farci un’idea. Lo studio ci dice che nel nostro Paese chi guadagna tra i 70.000 e i 100.000 euro all’anno è considerato benestante, chi guadagna tra i 100.000 e i 300.000 euro all’anno è considerato ricco, mentre chi guadagna oltre 300.000 euro l’anno è considerato super ricco.
A questo punto, però, dobbiamo fare un’altra distinzione per il nostro sistema fiscale. Infatti, non tutti i redditi sono uguali: si possono dividere in varie categorie. Le più comuni sono lo stipendio e gli investimenti, anche se ce ne sono altre. Ci soffermiamo per ora su queste due.
Reddito da lavoro e reddito da capitale
Il reddito da lavoro, per eccellenza, è appunto lo stipendio o la pensione, ma in generale comprende tutti i compensi che riceviamo in cambio di un’attività lavorativa. Poi, se ci pensate, possiamo ricevere soldi sia dal lavoro che dagli investimenti. Il reddito da capitale, infatti, riguarda le entrate che non derivano direttamente da un’attività lavorativa, ma dall’investimento del capitale dei nostri risparmi.
Per esempio:
- Gli interessi che si ottengono dalle obbligazioni o dai depositi in banca.
- I guadagni fatti dagli investimenti, le cosiddette plusvalenze, quando vendiamo un’azione in positivo dopo che è salita.
- I dividendi che ci danno le società in quanto soci.
- Le rendite, come i soldi che arrivano dagli affitti di immobili.
Ed è qui che si cela il motivo per cui i ricchi pagherebbero meno tasse: nel modo differente in cui vengono tassati questi due tipi di reddito. Ma cerchiamo di capire come fanno i ricchi a sfruttare questo sistema. Da dove è iniziato tutto? Come siamo arrivati a questa differenza di tassazione?
L’imposta sul reddito
Il sistema di tassazione che abbiamo oggi in Italia non è sempre stato così, ma è il risultato di una serie di riforme che si sono susseguite a partire dall’Unità d’Italia. Prima dell’Unità, non esisteva il concetto di imposta sul reddito. C’erano altre forme di tassazione: i dazi su terreni e proprietà, le decime ecclesiastiche, le gabelle… insomma, modi con cui la popolazione doveva dare qualcosa a un signore o a un sistema organizzato in cambio di sicurezza, controllo sul territorio o servizi. Insomma, quello che ci aspettiamo oggi, oppure semplicemente perché costretti.
Poi cosa è successo? In realtà, il merito dell’esistenza di queste tassazioni si deve a un’idea di William Pitt il Giovane, il ministro britannico più giovane che il Regno Unito abbia mai avuto. Pensate: William Pitt è diventato ministro nel dicembre del 1783 a soli 24 anni. Ah, quanto valorizziamo la gioventù! Ma facciamo un salto direttamente al 1798. Il Regno Unito era l’unica potenza ancora in guerra contro la Francia rivoluzionaria. E lo sappiamo: la guerra richiede soldi per finanziare le spese militari. Il primo ministro doveva trovare un modo per avere più entrate e riuscire a vincere la guerra.
In un primo momento, William Pitt aveva pensato di triplicare i tributi tassando i beni di lusso dei cittadini: cavalli, carrozze e persino i servitori. Questa misura però suscitò diverse polemiche, persino in Parlamento. Alla fine, però, il patriottismo e il rischio di bancarotta ebbero la meglio: la tassa tripla venne approvata, ma non ottenne il risultato sperato.
Il primo ministro capì che doveva cambiare direzione: trovare una modalità più efficiente, ma in linea con le possibilità economiche dei contribuenti. Doveva fare in modo di avere più soldi, ma chiedere ancora di più avrebbe reso la vita impossibile a molti. Ma come conciliare le due cose? Come fare a chiedere di più senza portare alcune famiglie alla fame?
La soluzione, alla fine, soprattutto oggi, sembra quasi ovvia: calcolare le tasse in base a quanto reddito abbiamo, così da far pagare di più a chi con i suoi guadagni poteva permetterselo. In altre parole, adottò un tipo di tassazione in cui la percentuale di reddito richiesta sarebbe aumentata all’aumentare del reddito. Più guadagni, più percepisci, più la porzione di reddito che finirà in imposte sarà maggiore.
A William venne in mente di tassare tutti i proventi dei cittadini, a prescindere dalla fonte, ma in modo proporzionale al loro reddito. Così, nel 1799, William introdusse la prima imposta progressiva sui redditi. Al tempo, un’idea del tutto innovativa. In Europa, ormai, è una pratica che vediamo ovunque, anche oggi in Italia.
All’inizio, però, anche questa tassa della vecchia Inghilterra non ebbe così successo. Fu ampiamente elusa, soprattutto tra commercianti e produttori, anche perché dover comunicare il proprio reddito era visto come una violazione della privacy, ciò che oggi chiameremmo una “violazione della privacy”. Col tempo, però, il desiderio di prevalere sulla Francia ebbe la meglio. La tassa venne accettata come prezzo vitale per vincere la guerra contro Napoleone. E dopo la guerra, visto il successo, venne abolita.
Verrà reintrodotta solo più avanti. Nel frattempo, l’idea di William Pitt il Giovane si diffuse nel resto d’Europa e persino oltreoceano. Alla fine del 1864, l’idea dell’imposta sul reddito arrivò anche nella nostra penisola.
La tassazione in Italia
In un’Italia appena unificata, la prima imposta sul reddito venne istituita nel 1864. La tassa prese il nome di “imposta sulla ricchezza mobile”. Si basava sulla dichiarazione dei redditi che ogni contribuente era tenuto a compilare, indicando tutti i redditi non fondiari, quindi “mobile”, cioè non legati a terreni e beni immobili. Parliamo quindi di stipendio, pensione, ma anche redditi ipotecari, redditi da benefici ecclesiastici, industriali, commerciali e professionali, in generale ogni specie di reddito non fondiario prodotto all’interno dello Stato.
Certo, era un sistema nuovo, andava organizzato. Si cercò anche di capire meglio in che modo le persone percepissero i soldi. I redditi furono classificati in tre categorie:
- La prima riguardava i nobili latifondisti. Si parla di redditi “perpetui”, cioè provenienti da capitale e rendite vitalizie, quindi indipendenti dal lavoro (più o meno quello che per noi è oggi il reddito da capitale).
- Poi c’erano i redditi temporanei misti, cioè provenienti sia dal lavoro che dal capitale e le rendite vitalizie.
- Infine, c’erano i redditi temporanei, cioè provenienti unicamente dal lavoro.
A differenza degli inglesi, però, l’aliquota era uguale per tutti. Ciò che cambiava era quanto del reddito veniva preso in considerazione per fare il calcolo su quanta parte del reddito si potesse imporre l’imposta. Per questo si parla di reddito imponibile, ovvero la base imponibile. Dopodiché ognuno doveva pagare la stessa percentuale.
È importante notare, però, che i redditi provenienti unicamente dal lavoro erano quelli tassati di meno, l’esatto opposto di oggi.
Ora facciamo un salto in avanti. L’imposta sulla ricchezza mobile è rimasta in vigore fino al 1973. In quest’anno, poi, è stata approvata una nuova riforma che ha introdotto l’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, che abbiamo tutt’oggi. Del suo funzionamento parleremo a breve. In generale, la riforma del 1973 ha segnato una svolta significativa nella nostra politica fiscale, orientandola verso una maggiore equità e una maggiore modernizzazione. Da quel momento, infatti, la percentuale di tassa da pagare sarebbe stata calcolata in base al reddito, come per gli inglesi del 1700: più reddito si percepiva, maggiore era l’imposta da pagare.
Le imposte sui redditi da lavoro e da capitale
Un altro momento cruciale è stata la riforma fiscale del 1986, che ha introdotto l’imposta sostitutiva sui redditi da capitale. Con questa riforma si voleva semplificare la tassazione dei redditi da capitale, stabilendo aliquote fisse e più basse rispetto al sistema progressivo dei redditi da lavoro.
Ma perché il governo avrebbe dovuto introdurre delle agevolazioni per i redditi da capitale? La risposta è semplice: per incentivare gli investimenti in azioni, obbligazioni e altri strumenti finanziari. In questo modo si sarebbero ottenuti due risultati:
- Da un lato, l’economia italiana sarebbe cresciuta di più, visti i più numerosi investimenti.
- Dall’altro, l’Italia avrebbe aumentato la propria attrattività verso gli investitori internazionali, cercando così di portare denaro dall’estero.
Questo meccanismo fa bene all’economia, che accumula investimenti sperando che poi vengano reinvestiti. Ma fa bene anche alla valuta. Al tempo avevamo la lira, e ciò significava che molti dall’estero avrebbero comprato lire in cambio di valute estere. Aumentando la domanda di lire, il loro valore sarebbe cresciuto, sostenendo così la valuta nazionale.
Come funziona oggi la tassazione in Italia
Partiamo dal reddito da lavoro. Al reddito da lavoro, sia dei lavoratori dipendenti che autonomi, il nostro sistema applica l’IRPEF, che è un’imposta progressiva. Fino a qui, nulla di nuovo. Vuol dire che la percentuale di tasse da pagare (l’aliquota) aumenta con il reddito.
In Italia, le aliquote partono dal 23% per i redditi più bassi e arrivano fino al 43% per quelli più alti, cioè quasi la metà del reddito del lavoratore. E non stiamo nemmeno considerando gli altri oneri che costituiscono il costo del lavoro, ma non ne parleremo oggi.
Questa è proprio la base. Perché per definire quanto del nostro reddito viene tassato bisogna tenere conto anche delle deduzioni. Per esempio, se siete lavoratori autonomi e avete comprato degli strumenti per lavorare, spesso questo costo è deducibile. Poi, una volta capito quanto bisognerebbe pagare, quindi l’entità dell’imposta, entrano in gioco le detrazioni. Esistono detrazioni specifiche per alcune spese sostenute durante l’anno, come l’affitto, le tasse universitarie e i medicinali in farmacia.
L’IRPEF, però, non copre tutto. L’imposta sostitutiva, infatti, è un tipo di tassazione ad aliquota fissa che si applica al posto dell’IRPEF su specifiche categorie di reddito. Parliamo, tra queste, del reddito da capitale. A differenza di quelli da lavoro, i redditi da capitale sono soggetti a un’aliquota fissa pari al 26%. È ciò che paghiamo sui guadagni derivanti dai nostri investimenti, come azioni, obbligazioni e quant’altro. Pensate che, in alcuni casi, come per i titoli di Stato, si scende a una tassazione con un’aliquota al 12,5%.
Gli effetti del sistema fiscale
Facciamo un esempio pratico per capire come funzionano le tasse in Italia.
Ci sono due amici, Dario e Daniele. Dario è un lavoratore dipendente le cui uniche entrate sono lo stipendio che percepisce mensilmente, la tredicesima e i vari straordinari. Insomma, tutto ciò che percepisce proviene dal lavoro che compie. Dario ha un reddito annuale di 60.000 euro e quindi finirebbe nello scaglione più alto. Ma come funziona nello specifico?
Sui primi 28.000 euro guadagnati da Dario sarà applicata un’aliquota del 23%. Su ciò che ha guadagnato dai 28.000 ai 50.000 euro verrà applicata un’aliquota del 35%, mentre sulla differenza tra ciò che ha guadagnato e i 50.000 euro sarà applicata un’aliquota pari al 43%. Questo vuol dire che, anche se Dario ha guadagnato 60.000 euro in un anno, l’aliquota effettiva che andrà a pagare non sarà del 43%. In media, Dario paga un’aliquota di circa il 30%.
Daniele, invece, è un imprenditore a capo della sua società. Percepisce lo stesso reddito da lavoro di Dario, il suo stipendio, quindi anche lui prende 60.000 euro all’anno e pagherà su questo reddito le stesse imposte di Dario, ovvero circa il 30%. Ma Daniele ha anche altre risorse che investe in borsa e, alla fine dell’anno, tra operazioni in positivo e negativo, arriva a un reddito da capitale di circa 50.000 euro. Su questi 50.000 euro viene applicata un’aliquota fissa del 26%. In media, Daniele non paga come Dario il 30%, ma paga un’aliquota più bassa, circa il 28%, ovvero due punti percentuali in meno rispetto a Dario.
Guardiamo un altro caso ancora più esagerato. Ai due amici si aggiunge un terzo: il ricco ereditiere Tancredi De Pollis. Tancredi ha un reddito annuo di 1 milione di euro, di cui 60.000 guadagnati con un reddito da lavoro (un altro stipendio). Il resto, 940.000 euro, proviene da redditi di capitale e investimenti vari, come azioni. In media, Tancredi si avvicinerà a un’aliquota del 26%, poco più alta di Daniele, ma due punti percentuali in meno rispetto a Dario, che guadagna molto meno.
Quindi, morale della favola: nonostante Tancredi guadagni di più, alla fine dell’anno il sistema fiscale, in qualche modo, lo avvantaggia. Ma al di là del fatto che Tancredi sia più ricco di Dario e Daniele, in realtà sta sfruttando il sistema in un modo che lo agevola. Sia Tancredi che Daniele, pur con differenze di reddito, hanno una composizione di entrate che li avvantaggia.
Il sistema fiscale è equo?
Quindi, il sistema fiscale è equo e progressivo come dovrebbe essere in generale? A quanto pare, non molto. Studi e ricerche ci dicono che il nostro sistema tributario, così come è stato costruito negli anni ’70, non è più adatto all’economia che abbiamo oggi. Ma perché?
Beh, perché si basa in gran parte sulla tassazione dei redditi da lavoro dipendente, anche se, da allora, la quota di questi redditi sul totale è significativamente diminuita. Infatti, non considerando le pensioni, i redditi da lavoro dipendente rappresentano poco più del 40% del totale dei redditi, ma costituiscono circa l’80% della base imponibile dell’IRPEF, generando quasi il 40% del totale delle entrate tributarie. Ce lo dice l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani.
Facendo un confronto internazionale, la tassazione sul reddito da lavoro in Italia risulta particolarmente alta: quasi sei punti percentuali in più rispetto alla media dell’area Euro. Anche uno studio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e dell’Università di Milano Bicocca rivela una situazione paradossale nel sistema fiscale italiano. Da questo studio emerge che l’1% più ricco degli italiani, in proporzione, paga meno tasse rispetto al restante 99% dei contribuenti. Questo perché una gran parte delle loro entrate è classificata come reddito da capitale, quindi soggetta a un’aliquota fissa più bassa rispetto al sistema progressivo dei redditi da lavoro.
Sempre secondo lo studio, il sistema che vorrebbe essere progressivo, nei fatti diventa regressivo: chi ha di più paga aliquote più basse di chi ha di meno. Questo avviene perché solo una piccola parte dei redditi dei più ricchi in Italia proviene da redditi da lavoro e, quindi, è tassata con aliquote più alte. Nel complesso, il sistema fiscale italiano appare poco progressivo per il 95% dei contribuenti con redditi più bassi e addirittura regressivo per il 5% più ricco, che ha un’aliquota effettiva inferiore.
Il paradosso del sistema fiscale
Per questo si sente dire in giro che il nostro sistema fiscale, così com’è costruito, avvantaggia i ricchi. Spesso chi guadagna meno viene di fatto tassato, in proporzione, di più. Questo è il paradosso. Non vuol dire che, singolarmente, i ricchi pagano meno tasse, ma che riescono a pagare una quota inferiore del proprio reddito.
Questi studi mettono in luce la necessità di cambiare le cose. Probabilmente, andare a tassare di più i ricchi non è necessariamente la soluzione, o almeno non è l’unica soluzione. Il nostro sistema andrebbe riorganizzato in base a come è distribuita la ricchezza oggi.
Conclusione
Riformulare il sistema fiscale potrebbe avere un effetto positivo non solo per la società intera, ma anche per la crescita economica del nostro Paese. Inoltre, i singoli cittadini potrebbero sfruttare meglio gli strumenti già a disposizione, chiedendosi se stanno usando gli stessi vantaggi di chi ha già i soldi. Ad esempio, cercando di diversificare le proprie entrate con redditi da capitale, non solo da lavoro.
E magari, così, anche voi potreste piano piano pagare meno tasse come i ricchi. Se questo sia giusto o meno, però, lo lascio a voi nei commenti.
Io, per oggi, mi fermo qui. Come al solito, io sono Edoardo, questa è Star in Finance, e noi ci vediamo nel prossimo video. Ciao!