Massimo Cacciari – Cos’è il capitalismo?

Il capitalismo non ha limiti, si adatta superando crisi e ostacoli. È una visione globale basata sul progresso infinito e sulla potenza della mente umana.

Lo spirito del capitalismo, straordinario—sotto certi aspetti esaltato da Marx—, è proprio questo: non c’è fine.

Questo progresso, questo sviluppo, procede, può procedere, ha in se stesso la forza per procedere indefinitamente.

Ma ci sono dei limiti dello sviluppo! Ma che i limiti dello sviluppo! La rivoluzione tecnologica supererà i limiti. Ci siamo posti dei limiti quando non si respirava a Londra nel Seicento per il carbone? Abbiamo cessato di usare il carbone, eccetera, eccetera.

Teoricamente, il capitalismo non si pone dei limiti. Questa è la forza straordinaria del suo spirito, che è giunto a dominare il pianeta.

Ma in questo non aver fini, non c’è fine! La fine dei fini.

Cioè, in questo progresso indefinito, non puoi… poi sempre meno, sempre meno, riusciamo a porsi dei fini, tra cui quello fondamentale di cui prima parlavamo: il fine che la produzione di ricchezza, che è derivata essenzialmente dal nostro cervello, dalla scienza, che questa produzione di ricchezza possa valere per un bene universale, un fine.

All’interno dello spirito capitalista non ci sono fini, non c’è il fine.

Allora, la fine, giustamente, dei fini.

Ma io invece ritengo che noi dobbiamo—e la politica deve—ritrovare i fini, deve ritrovare i fini.

* * *

Quello che è certo è che leggere il sistema capitalistico come semplicemente un mezzo è quanto di più stupido possa attraversare la testa di una persona.

Il sistema capitalistico è un sistema sociale di produzione, informa di sé tutta la nostra vita, non è affatto un mezzo, è una Weltanschauung, direbbero i filosofi, è una visione del mondo che è diventata globale.

Certo, il salto è questo, ma non è mica la prima globalizzazione… Il capitalismo nasce globale, come idea regolativa, fin dalle sue prime espressioni. Il capitalismo pensa di sé in termini globali.

Insomma, basta leggere Ricardo, basta leggere Marx per capire che il capitalismo è un sistema sociale mondiale di produzione e che questa sua natura globale è il suo stesso essere. Esso impronta di sé tutto, la nostra visione della cosa, della natura, come utilitas, fin dall’inizio di questo sistema di produzione, che è un sistema e, appunto, una visione del mondo.

La cosa, per noi, è utilitas. Keynes lo sapeva bene quando diceva che “noi spegneremmo il Sole e la Luna se ci aspettassimo da loro dei dividendi”. E lo diceva Keynes, non lo diceva Marx.

Quindi, una visione della cosa è una visione del rapporto tra le persone, tutte improntate alla logica del contratto. Il capitalismo è un nesso, è una rete di contratti. I rapporti tra le persone sono regolati da contratti—e voi, che siete avvocati, lo sapete bene.

Si assiste, sostanzialmente, alla riduzione della sfera del diritto pubblico al diritto privato. Questa è la tendenza di fondo, anche negli ultimi anni: tentare di derubricare ogni forma di relazione alla forma del contratto, cioè al diritto privato.

Quindi, diciamo che il capitalismo è un mezzo? Per carità!

È una colossale, grandiosa visione del mondo, improntata a un’idea di progresso infinito.

Di nuovo, non cito né Marx né Lenin, ma Weber e Sombart, quando si interrogavano dicendo: “Ma questo sabba delle streghe avrà mai fine?”

Se togli questa idea, togli il capitalismo. L’idea è esattamente questa.

Fanno ridere, da una prospettiva eroicamente capitalista, quelli che parlano di limiti dello sviluppo. Ma quali limiti dello sviluppo?

Non c’è più legna? Si sfrutta il petrolio.

Non c’è più petrolio? Ci sarà l’energia atomica.

Non c’è più l’energia atomica? Ci sarà qualcos’altro…

Il capitalismo è questa energia straordinaria, che punta tutto sulla potenza della mente—actio mentis, direbbe Spinoza—una mente capace di superare ogni ostacolo naturale.

È filosofia al cento per cento.

Se non si parte da questi presupposti filosofici, non si capisce assolutamente nulla del capitalismo. Nulla. Zero. Zero.

Se lo si prende come un semplice meccanismo di mercato, se si prende il concetto di lavoro solo come misura del valore, e non come sostanza del valore, non si capisce niente.

“Questo sistema è superabile.”

Ma da che cosa? Da chi volete che sia superato? Da niente.

“Vogliamo regolarlo eticamente.”

Ma siete dei poveri illusi.

Volete regolare eticamente tutto ciò?

Più ethos di quello che ho descritto… è un grande ethos, un eroico ethos planetario.

Questo è l’ethos del capitalismo.

Non ce ne sono altri.

Certo, è un sistema di contraddizioni, quindi va avanti attraverso crisi, non c’è dubbio alcuno.

Non è un’autostrada lineare, è una costante mancanza di strada, che viene superata attraverso il salto tecnologico, la riorganizzazione dei fattori, e così via.

Ma il capitalismo è costantemente crisi, per una ragione semplicissima, che, di nuovo, Marx aveva spiegato benissimo.

L’altro giorno ero con Tremonti, e lui diceva: “Se avessimo letto Marx…”

Io l’avevo letto, anche in tedesco, da ragazzo.

Se l’avesse letto pure lui, avrebbe perso meno tempo.

Prendiamo la merce.

La merce è merce solo quando viene usata.

Prima non è merce. Prima non è niente.

Io produco la merce, ma affinché diventi merce, dev’essere consumata da altri soggetti.

Allora, il produttore deve produrre—ma dove produce, produce anche il consumo.

Perché?

Perché, per essere sicuro che la sua merce venga realmente consumata, deve produrre anche il consumatore.

Altro che tecnica, altro che intelligenza!

Qui bisogna entrare nella testa dei consumatori.

Bisogna formare la mente dell’altro—actio mentis.

Ma nulla assicura che questi soggetti si armonizzino tra loro.

Non c’è nessuna armonia prestabilita.

Ci sono il denaro, i produttori, e ci sono quelli che producono anche il consumo, ovvero i consumatori.

Se questi soggetti non si combinano, c’è la crisi.

E la crisi è endemica, fisiologica.

Si va avanti attraverso le crisi.

Le crisi sono produttive.

Quando finirà questo sistema? Quando si uscirà da esso?

Basta raccontarci palle.

Non possiamo sostituire la mano invisibile, che non è mai esistita, con codici etici o con altre stupidaggini.

Ecco. Questo è il capitalismo.

[Intervistatore] Quindi un capitalismo che ha una sua etica.

Un’etica immanente, implicita, una sorta di atletica interna al sistema stesso.

Vuoi andare a fare prediche? Come quelli che fanno prediche agli scienziati?

Che prediche vuoi fare? Quale morale vuoi imporre?

Questo è il capitalismo.

Dopodiché, certo, il capitalismo ha bisogno dello Stato.

Ha bisogno di regole, perché non è mai esistito un mercato senza Stato.

Chi l’ha mai visto un mercato senza Stato?

Lo Stato serve per tentare, per quanto possibile, di governare i meccanismi di crisi, perché in ogni momento potresti precipitare nel nulla.

Niente ti assicura stabilità.

Tutte le cose in questo mondo nascono, crescono e muoiono—il capitalismo non fa eccezione.

Morirà. Sicuramente morirà.

Può morire tra dieci secoli come può crollare in una di queste crisi.

E lo sa.

E quindi, ha bisogno dello Stato.

Quando vede il pericolo, si affida allo Stato.

Appena il pericolo è passato, lo abbandona.

E così è sempre stato.

Chi vuole capire il capitalismo, lo legga così.

La chiave per entrare nel Capitale è fornita immediatamente da Marx e ruota intorno alla figura del lavoro.

Il lavoro si presenta come una merce sul mercato: è una merce, ma non è una merce qualunque.

L’operaio è costretto a vendere il proprio lavoro come merce, ma la sua non è una merce qualunque. La sua capacità lavorativa è una merce, ma questa non funziona come una merce ordinaria:

  • Funziona come motore mobile, come primo motore del processo di valorizzazione.
  • È il primo motore dello sviluppo produttivo, dello sviluppo delle forze produttive.

C’è quindi questo carattere paradossale della merce-lavoro: si presenta come una merce, ma non è una merce qualunque.

È eccezionale rispetto all’universo delle merci, perché è l’anima stessa, il primo motore del processo di valorizzazione.

Il processo lavorativo è un semplice mezzo all’interno di un processo più grande: il processo di valorizzazione e sviluppo delle forze produttive.

L’economia politica classica e neoclassica sa benissimo che il lavoro è una merce e che viene scambiato come una merce.

Ma lo tratta come una merce qualunque.

In Marx, invece, è proprio questa merce che, per la sua intrinseca forza, spiega il processo di valorizzazione, spiega lo sviluppo capitalistico, spiega lo sviluppo delle forze produttive.

Un lavoro che è mobilitazione culturale e politica—questo è un altro aspetto fondamentale, un’altra chiave essenziale del Capitale.

Il lavoro non si limita soltanto a spiegare i rapporti economici, ma spiega anche i rapporti culturali, nel senso antropologico del capitalismo di Marx.

Il lavoro è mobilitazione totale, non solo delle risorse economiche, ma anche delle risorse culturali.

È, come diranno poi i sociologi più influenzati da Marx negli anni successivi, rottura dei cerchi sociali tradizionali, rottura delle comunità tradizionali.

È mobilitazione universale di risorse, di intelligenza e di spiriti.

Questa è la grande apologia—nel senso letterale del termine—la grande, profondamente romantica sinfonia sul lavoro, che Marx costruisce con Il Capitale e con le sue opere economiche.

Alla base vi è veramente una filosofia romantica del lavoro.

Non vi è dubbio.

[…]

Sicuramente Marx trova nelle vicende intorno al 18 Brumaio conferma di alcune sue idee, sviluppate soprattutto sotto il profilo della storia economica, della storia dei concetti e dei problemi economici, nonché delle sue intuizioni sull’evoluzione dei rapporti di produzione e dei rapporti sociali di produzione capitalistici.

Il rapporto di produzione, in Marx, assume un’ampiezza del tutto meta-economica: non è solo un dato economico, ma anche un rapporto socio-culturale.

Abbraccia temi specificatamente culturali, ma talvolta anche antropologici.

È proprio in questo senso che Marx trova conferma nelle vicende intorno al 18 Brumaio.

Vi sono, secondo me, delle analisi assolutamente geniali da questo punto di vista, in particolare nel 18 Brumaio, che è tra le opere storiche più rilevanti di Marx.

Che cosa affascina Marx di queste vicende?

Soprattutto una cosa: il rafforzamento del potere esecutivo.

Il rafforzamento del potere esecutivo di fronte e contro quella che lui chiama, in termini hegeliani, la società borghese—cioè la società dei privati, la società degli interessi distinti, la società delle corporazioni, per intenderci brevemente.

Il 18 Brumaio, il colpo di Stato, ha lo scopo di isolare e rafforzare il potere esecutivo, ponendolo di fronte e contro questa società che, nonostante il terremoto politico del ’48, era ancora sopravvissuta.

Per Marx, questo rappresenta un indirizzo preciso che la forma statale capitalistica è destinata ad assumere: un rafforzamento dell’esecutivo contro gli interessi contrapposti, divisi e distinti.

Altrimenti, lasciata a sé stessa, la società capitalistica esploderebbe nello scontro tra questi interessi corporativi contrastanti.

È destino di questa società produrre dal suo stesso interno, bada bene, contro Napoleone III, una figura forte dell’esecutivo, che può entrare in ogni momento in contraddizione, anche violenta, con la società borghese stessa.

2 gennaio 2021

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