Il ritorno dell’inflazione
BENI ALIMENTARI, ENERGIA, MATERIE PRIME. LA CORSA PAZZA DI PREZZI NON SI FERMA PER EFFETTO DEI GIOCHI DELLA FINANZA. MA ANCHE DEI FURBETTI. E IL GOVERNO NON SA COSA FARE
CAROVITA. CHI CI GUADAGNA
di VITTORIO MALAGUTTI di CARLO TECCE
Eccolo qui il conto di trent’anni di strategie energetiche sbagliate, di mercati senza regole, di sotterfugi geopolitici pericolosi, di governi incapaci di interpretare il futuro. Eccolo qui il conto che somma la pandemia mondiale, i disequilibri economici, il collasso climatico, la guerra in Ucraina. Grano, latte, soia, riso e poi metano, carburanti, petrolio: i prezzi corrono più veloci di qualsiasi intervento di Stato. E mentre la politica italiana brancola nel buio al grido di «speculatori, speculatori» per acquietare la popolazione, come dimostra quest’inchiesta dell’Espresso, nessuno sa come e cosa fare per evitare che domani il conto sia ancora peggiore.
Il più lesto a togliersi dagli impicci con una dichiarazione alle Camere e una deposizione in Procura, lo scorso marzo, fu lo scienziato Roberto Cingolani ministro per la Transizione Ecologica: «L’aumento del costo del gas dipende da un’intera filiera e ciò si traduce nel risultato di una grande speculazione da parte di certi snodi che non producono, ma fanno solo transazioni. In Europa c’è il Title transfer facility (Ttf) e il punto di scambio virtuale (Psv) ad esso agganciato. Io li ho fatti i nomi, si chiama mercato, poi discutiamone». Peccato che la scelta di utilizzare il Ttf come indice di riferimento per le quotazioni del gas fu suggerita dall’Unione europea e accolta dal governo italiano sette anni fa. Cingolani non c’era e non c’entra, però a volte gli speculatori sono meno ignoti di quanto sembri. Al ministro sono seguite le denunce mediatiche dei colleghi Stefano Patuanelli (Agricoltura), Enrico Giovannini (Trasporti), Luigi Di Maio (Esteri). Tutti battaglieri e inflessibili pur non avendo competenze specifiche.
LE QUOTAZIONI DI GRANO RISO E SOIA VANNO IN BORSA SULL’OTTOVOLANTE SENZA CHE LE MERCI SI MUOVANO DAI SILOS. MA C’È ANCHE CHI FA SCORTE PER VENDERE DOMANI AL RIALZO
A distanza di 27 anni dalla sua fondazione, soltanto in primavera, l’Autorità di regolazione per l’energia e l’ambiente (Arera) ha ricevuto i poteri per esaminare i contratti del settore. Nel governo c’era parecchia apprensione. Alla fine, la segnalazione di Arera che non ha saputo (potuto) scovare le aziende da esporre al pubblico ludibrio ha un po’ deluso le attese. Perché la faccenda è complessa, sostiene l’Autorità, e i meandri di un contratto sono così fitti da permettere che la speculazione non lasci traccia. Lo racconta il presidente Stefano Besseghini: «Anche a fronte di un prezzo iniziale di stipula, i contratti sono accompagnati da formule che aggiornano automaticamente il prezzo sulla base degli indici. A questo si aggiungono strumenti finanziari che gli operatori adottano per la copertura del rischio. La complessa analisi condotta dall’Autorità ha dimostrato come l’indicazione di eventuali extraprofitti vada affrontata considerando anche tutti i costi e i margini che si generano lungo la filiera». Vuol dire che, secondo l’Arera, per stanare gli speculatori non è sufficiente tassare i profitti di Eni, Enel e altre aziende simili, ma bisogna agire prima nei percorsi contrattuali con maggiori controlli. Quello che spaventa l’Arera è la stratificazione di errori e omissioni che ha reso la situazione ingestibile e dunque imprevedibile: «Dobbiamo sgombrare il campo dall’idea che sia il conflitto russo-ucraino – afferma Besseghini – ad aver ingenerato tensioni sui prezzi. I fondamentali dell’energia hanno iniziato a cambiare a metà dello scorso anno con la ripresa economica dopo la pandemia. Ormai, però, in questa fase di estremo nervosismo, gli effetti sui prezzi si producono anche con le sole parole». Però le sanzioni europee contro la Russia, il principale fornitore energetico del continente, hanno trasformato in drammatica una situazione critica. Questo è innegabile. E lo segnala il ministero per lo Sviluppo economico con le analisi del Garante per la sorveglia dei prezzi: «Le sanzioni sul greggio russo hanno mostrato i primi effetti – è scritto nei documenti del 14 giugno – a partire da aprile 2022. Le ridotte capacità di raffinazione hanno intaccato le scorte, portandole ai minimi (quelle del gasolio) dal 2008. Un aumento delle importazioni da Medio Oriente e Asia è anche all’origine dei maggiori costi dei prodotti petroliferi in Europa (maggiore incidenza dei noli marittimi). A causa delle ridotte capacità di raffinazione e di un calo delle quotazioni delle materie prime, i margini sono aumentati. Anche operazioni speculativo-finanziarie hanno contributo ad aumentare i margini, con acquisti “a lungo” oltre il 15 maggio». Cos’è successo: il petrolio russo non arriva direttamente in Europa, ma fa giri più larghi e quindi più onerosi. L’Europa si è imposta il divieto di comprare direttamente il petrolio di Mosca (non il metano), ma lo prende da altri che lo prendono dai russi. Per esempio dall’India. Più ampia è la «filiera» e più è diffusa la speculazione tra stoccaggi, assicurazioni, raffinazioni. E proprio contro la speculazione, il primo atto di governo, con un certo ritardo, è la formazione di una struttura di missione al ministero per lo Sviluppo Economico di Giancarlo Giorgetti con una nuova collaborazione con la Guardia di finanzia per fermare la speculazione fin dove si può. Non certo in India. L’anomalia del mercato è chiaramente visibile dal grafico pubblicato in queste pagine che segnala l’aumento del margine lordo, somma del margine di raffinazione e di quello di distribuzione. Questo indicatore praticamente raddoppia dopo l’invasione russa in Ucraina. Significa che i grandi raffinatori, per esempio, restando in Italia, l’Eni e la Saras dei Moratti, vedono aumentare di molto i loro profitti. E intanto la benzina è stabilmente sopra i due euro a litro nonostante la riduzione delle accise.
Il governo, comunque, continua a rincorrere il carro impazzito degli aumenti dell’energia. Nei giorni scorsi è stato firmato un nuovo decreto per dare un taglio alle bollette dell’elettricità, azzerando gli oneri di sistema, e a quelle del gas, grazie a una serie di sgravi fiscali. Il provvedimento, il quinto consecutivo dal luglio dell’anno scorso, tampona i rincari per le famiglie meno abbienti e le piccole imprese e costa caro alle casse dello Stato. «Non credo che potremo tirare fuori soldi cash ogni trimestre per le bollette, come abbiamo fatto finora», diceva in senato il ministro Cingolani lo scorso 18 gennaio. Sono passati sei mesi e l’esborso per il Tesoro è più che raddoppiato, da 5 ad almeno 11 miliardi solo per finanziare gli interventi a favore dei redditi più bassi. Nel frattempo, anche per effetto della guerra in Ucraina, i costi dell’energia non hanno mai smesso di aumentare e soprattutto non si vede all’orizzonte nessuna riforma organica che intervenga sui meccanismi di funzionamento del mercato elettrico, che di fatto resta agganciato a quello internazionale del gas, l’olandese Ttf. E qui le regole del gioco sono quelle della Borsa. Le quotazioni si muovono anche per effetto delle voci e delle previsioni, più o meno realistiche, sull’andamento delle forniture. Il tutto amplificato dai movimenti speculativi a base di contratti derivati. «È molto difficile stabilire in che misura il movimento dei prezzi è dovuto alla finanza e quanto al gioco della domanda e dell’offerta», osserva Alessandro Marangoni, esperto di strategia e finanza nei settori energetici, presidente della società di consulenza Althesys.
Lo stesso copione va in scena anche nelle Borse agricole internazionali, un altro mercato che ha riflessi immediati nella vita di tutti i giorni. Il grano viaggia al rialzo del 30 per cento rispetto all’inizio dell’anno. E lo stesso vale per la soia. Per il riso siamo al 20 per cento circa, mentre il prezzo del granturco da gennaio ha messo a segno un incremento del 50 per cento. È un boom senza precedenti. Gli analisti spiegano che a spingere le quotazioni, pur tra qualche recente correzione al ribasso, è l’intreccio di una serie di fattori che raramente in passato si sono presentati tutti insieme. L’ultima fiammata, in ordine di tempo, è stata innescata dalla guerra in Ucraina, ma già a partire dalla seconda metà dell’anno scorso, il raccolto inferiore alle attese negli Stati Uniti e in Canada aveva provocato un primo consistente aumento dei prezzi sui mercati internazionali. Al conflitto scatenato dalla Russia si è poi sommato, in questi mesi, il caldo record in India, lo stop alle esportazioni deciso da almeno una ventina di Paesi e, infine, la siccità che da settimane ha colpito l’Europa occidentale, dalla Francia fino alla Sicilia. L’International grain council, l’organizzazione intergovernativa che promuove la cooperazione sul mercato dei cereali, segnala però che nel complesso la produzione di grano per quest’anno e per il prossimo non dovrebbe calare di molto, al massimo un paio di punti percentuali, secondo l’aggiornamento più recente, quello di metà maggio.
Come si spiega, allora, l’impennata dei prezzi, un boom che dai cereali si è esteso a un gran numero di prodotti agricoli, dai latticini fino all’ortfofrutta? La risposta va cercata nella gran giostra delle Borse merci mondiali, da quella di Chicago, la più importante del mondo, fino all’Euronext di Parigi. Gli operatori finanziari si scambiano contratti derivati per scommettere sull’andamento delle quotazioni dei cereali e delle altre materie prime agricole. Grano, riso, soia e molti altri prodotti vanno sull’ottovolante dei prezzi senza mai muoversi dai silos in cui sono conservati. I futures e le opzioni, nati per proteggersi dal rischio di aumenti o di cali dei prezzi, finiscono così per amplificare le oscillazioni del mercato al rialzo o al ribasso. Centinaia di hedge fund (fondi speculativi) e tutte le grandi banche d’affari tirano le fila di operazioni miliardarie, spesso governate da sofisticati algoritmi che di volta in volta regolano tempi e modi del trading. Secondo uno studio della Banca dei regolamenti interazionali di Basilea (Birs) il valore di mercato dei derivati sulle commodity, oro escluso, a fine 2021 è arrivato a 390 miliardi di dollari, il 30 per cento in più rispetto all’inizio del 2020.
UN REPORT DEL MISE MOSTRA QUANTO L’AUMENTO DEL PETROLIO SIA DOVUTO ALLE SANZIONI. E I GRANDI RAFFINATORI COME ENI E SARAS MOLTIPLICANO I LORO PROFITTI
La speculazione però non viaggia solo nell’alto dei cieli della finanza. Una recente analisi pubblicata da Coldiretti osserva che l’andamento delle quotazioni in questi ultimi mesi ha mostrato in più occasioni che «chi ha stoccato le merci è indotto a trattenerle nei magazzini, magari facendo passare l’idea che non c’è disponibilità di prodotto, per poi rivenderle a quotazioni maggiori». In altre parole, tra un passaggio all’altro dal produttore fino ai trasformatori, c’è chi approfitta delle tensioni sui mercati per aumentare i propri margini di guadagno. Alla Borsa merci di Foggia, principale snodo del trading nazionale di cereali, il prezzo del grano duro è aumentato di quasi il 90 per cento: l’estate scorsa viaggiava intorno ai 300 euro la tonnellata, ora siamo a 567 euro. Un rialzo che pare difficile da giustificare con il semplice gioco della domanda e dell’offerta, anche se, in base alle previsioni più aggiornate in Italia la produzione di grano duro non arriverà ai 4 milioni di tonnellate con un calo del 15 per cento rispetto al 2021. Intanto, però, i pastifici sono costretti ad acquistare farine con una spesa che rispetto a un anno fa è aumentata di oltre il 60 per cento.
L’incremento dei costi di produzione si è comunque fin qui scaricato solo parzialmente sui prezzi finali al consumatore. Le grandi catene di supermercati, facendo leva sulla propria forza contrattuale, hanno infatti concesso il minimo indispensabile alle richieste di adeguamento dei listini avanzate dall’industria e dai produttori, che sono in grave difficoltà anche per l’impennata dei prezzi dell’imballaggio (carta e vetro), del trasporto (benzina e gasolio) e dell’elettricità. «Le aziende agricole devono affrontare l’ostruzionismo dell’industria e della grande distribuzione, che fanno resistenza di fronte alle richieste di aumenti nel timore di perdere clienti», spiega Cristiano Fini, presidente di Cia, la Confederazione italiana agricoltori.
Lo scenario però sta velocemente cambiando e a farne le spese saranno sempre di più i consumatori. «Nei primi cinque mesi dell’anno siamo riusciti a contenere gli aumenti dei nostri prodotti a una media del quattro per cento», spiega Marco Pedroni, presidente di Coop Italia. Da qui alla fine dell’anno, però, «anche noi, come il resto della grande distribuzione non potremo fare a meno di ritoccare ancora i listini», ammette Pedroni. Che per prudenza preferisce non azzardare previsioni sull’entità di questi aumenti. Gli scenari di settore disegnati dagli analisti vedono però un’inflazione che nel carrello della spesa potrebbe tradursi entro dicembre in rincari in media del 10 per cento rispetto a dodici mesi prima. È una tassa in più che grava sugli italiani. Una tassa quanto mai iniqua perché colpisce soprattutto i cittadini a basso reddito, costretti a sacrificare una quota rilevante dei loro introiti per l’acquisto di beni di prima necessità.
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IN CODA AL SUPERMERCATO: “MA NON FATE PIÙ LE OFFERTE?”
di Gigi Riva
Avranno sicuramente ragione Tito Boeri e Roberto Perotti quando sostengono (su la Repubblica) che i cittadini tendono a percepire un’inflazione più alta di quella effettiva. Ma vallo a spiegare agli italiani. Sembra un po’ la stessa storia dell’emergenza criminalità con i dati del Viminale che danno i reati in netto calo ma la gente che si sente sempre più insicura e invoca lo sceriffo in città.
Cronaca di un giorno qualunque di inizio estate in un supermercato italiano quando le fonti ufficiali concordano su aumenti dei prezzi che non raggiungono le due cifre. Coda alle casse con in cima un signore arruffato e bizzarramente vestito, pareo trasparente su costume da mare giubbino nero con le maniche tagliate, che mette i prodotti acquistati sul nastro trasportatore e già mette le mani avanti. Dice alla cassiera: «Prendo sempre le stesse cose e vedrà che alla fine il conto è il doppio del solito. È cresciuto tutto del cento per cento». La cassiera fa una leggera smorfia ma in ossequio al principio per cui non bisogna contraddire il cliente ribatte conciliante: «Mi sa che ha ragione». Lo scontrino sputato dalla macchina è una sentenza: «175 euro». «Ecco, di solito pagavo tra i 90 e i 95, più o meno ci siamo». Raccatta la merce, la posa nei sacchetti e saluta quasi beffardo: «Per fortuna me lo posso permettere».
Il breve dialogo è il detonatore di un dibattito. «Secondo me», calcola la signora con il bimbo il braccio, «non è il cento per cento ma il cinquanta sì. L’altro giorno a metà pomeriggio mi era venuta fame e sono entrata in un forno, ho ordinato un pezzo di focaccia e una bottiglietta d’acqua e mi hanno chiesto 9,5 euro. In un forno! Non da Carlo Cracco». Intervengono quattro ragazzi nerboruti e variamente tatuati, dall’accento uno è italiano e tre stranieri (rumeni?), gli abiti macchiati da cantiere denunciano il loro mestiere, muratori. «Alla pausa pranzo di solito andavamo in una di quelle trattorie alla buona. Non possiamo più permettercelo, ormai ti chiedono anche 12 euro per un primo. E allora ci riforniamo qui, panini e affettati. Ma nell’ultimo mese, booom, hanno tolto anche il prosciutto crudo in offerta che era la nostra salvezza». Dal fondo si sente un “poveretti” che provoca la reazione indispettita di una giovane bionda che si autocertifica già madre di tre figli: «Poveretti? Poveretta io, che devo rinunciare ai biologici che costano di più altrimenti non arrivo alla fine del mese e volevo tirar su i miei ragazzi con prodotti sani». «Se ne farà una ragione, signorina, siamo pur cresciuti lo stesso anche quando non c’erano i biologici», la riprende un uomo in braghe corte e canottiera, che sta allineando sul nastro, attento a non farle rotolare e cadere, sei bottiglie di birra e tre di vino: «Bevo per dimenticare», fa l’ironico, «fra poco tra covid, guerra, siccità e i mascalzoni che speculano dovremo accendere un mutuo per venire a fare la spesa».
Se ne è stata sinora silente un’anziana che, a differenza degli altri pare però più ferrata nel calcolo verosimile dei rincari. La magra pensione non le consente valutazioni un tanto al chilo. O ha buona memoria o conserva gli scontrini per una comparazione. «Il burro, 250 grammi, costa 2,80, era sotto i due euro solo due mesi fa, un chilo di pasta è attorno ai 2,5 euro ed era pure sotto i due anche sotto 1,5. Per la passata di pomodori c’era una promozione per fortuna e ho speso 0,75 per un barattolo piccolo. Più 8 euro per l’olio e pensare che era in offerta col 44 per cento di sconto, dicono. Offerta…». Poi alza le spalle e sottovoce, perché per pudore non vuole partecipare al dibattito, aggiunge: «Secondo me gli aumenti sono in generale attorno al 20 per cento. Consiglierei a tutti di avere pazienza tra gli scaffali perché cerca e ricerca si trovano anche degli sconti. Lo so, io non ho niente da fare e mi posso permettere il tempo. Ma è l’unica salvezza. Che mondo lasciamo ai giovani».
Avanti un altro, invita la cassiera. È un turista milanese che ha fatto scorta per la vacanza e ha il carrello pieno. Sarà perché sono finalmente cominciate le sue ferie, ha voglia di chiacchierare e cerca di spargere ottimismo. «Ho fatto tre ore di coda in autostrada e non c’erano incidenti. Traffico del fine settimana. E pensare che la benzina è sopra i due euro al litro. Ma dov’è questa crisi?». La prendono come una provocazione. «Ma dici davvero? Tornatene a Milano».
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Il commento
Risposte sbagliate all’inflazione provocheranno la recessione
di Fabio Sdogati*
L’origine delle difficoltà diffuse dell’economia mondiale in questa fase risale allo shock sanitario da Sars-Covid-19 che ha colpito in rapida successione molte economie a partire dall’inizio del 2020. Quello shock creò ad un tempo difficoltà dal lato dell’offerta e difficoltà dal lato della domanda. Dal lato dell’offerta, le politiche di contenimento, insieme agli isolamenti volontari, non distrussero capacità produttiva in senso proprio come invece è ad esempio tipico delle guerre, ma produssero tagli importanti alle attività produttive in moltissimi paesi e alla circolazione nazionale e internazionale delle merci. Dal lato della domanda, lo shock assunse la forma di riduzione di spese per consumi e aumento della quota di reddito destinata al risparmio. Dunque, meno offerta e meno domanda.
La distinzione da libro di testo tra “inflazione da offerta” e “’inflazione da domanda” è quindi utilissima per determinare da dove siano venute le spinte inflazionistiche prevalenti nella prima fase della crisi: l’inflazione era originata dalle difficoltà incontrate dalle imprese, cioè dai costi crescenti che dovevano sostenere a causa della ridotta disponibilità di materie prime, di semilavorati e prodotti intermedi, dell’uso ridotto di mezzi di trasporto causato dalla riduzione della forza lavoro utilizzabile. In particolare, fu il prezzo delle materie prime ad avviare il processo inflazionistico: come abbiamo visto in passato, il fatto che i prezzi delle materie prime vengano determinati su mercati finanziari ne ha “agevolato” l’esplosione e la diffusione a sezioni crescenti dell’economia reale produttiva in tempi rapidissimi.
Certo, nel tempo anche la domanda avrebbe dato il suo contributo alla crescita dei prezzi delle merci e dei servizi, poiché mano a mano che l’attività produttiva tornava a crescere e l’occupazione a riprendersi, i redditi delle famiglie tornarono a crescere e, con essi, la spesa per consumi. Fortunatamente, questo processo venne sostenuto da gran parte dei governi al mondo mediante politiche di sostegno alle famiglie accompagnate da politiche di garanzie pubbliche ai debiti delle imprese.
Questa “doppia natura’’ dell’inflazione attuale va sottolineata perché oggi ci troviamo di fronte a due combinazioni diverse delle cause dell’inflazione, da domanda o da offerta: vi è ampio accordo tra economisti e responsabili delle politiche economiche che l’inflazione europea è caratterizzabile come prevalentemente da offerta, mentre quella statunitense è prevalentemente da domanda. La distinzione è importante perché è su di essa che si basa il giudizio sulla adeguatezza o meno delle politiche antinflazionistiche di cui si discute, in particolare della opportunità o meno di una politica monetaria più o meno aggressivamente restrittiva da attuare mediante la fine del noto Quantitative Easing e, ancor più, mediante l’aumento dei tassi di sconto da parte delle banche centrali. La strategia di aumento dei tassi di sconto ha ovviamente l’obiettivo di rendere il credito più costoso e, quindi, di colpire la domanda di beni di consumo e di investimento: si tratta, comunque la si voglia imbellettare, di una politica che mira alla riduzione della domanda da parte di famiglie e imprese, con effetti potenzialmente recessivi.
Ora, se questa strategia può essere giustificata da chi la propone perché ritenuta la sola efficace per abbattere la domanda, non si vede in che modo essa possa esserlo quando la causa dell’inflazione è essenzialmente dal lato dell’offerta, come è in Europa, dove pandemia prima e guerra poi hanno avuto, stanno avendo e avranno effetti molto pesanti sui prezzi alla produzione, in particolare per i forti aumenti dei prezzi dell’energia. Tant’è: in Area Euro dobbiamo prepararci ad aumenti dei tassi che verranno adottati in tutta probabilità il 21 luglio e poi di nuovo, e probabilmente con mano più pesante, il 7-8 settembre. La posizione critica di chi scrive è facilmente giustificabile: l’inflazione da offerta si combatte adottando strumenti per l’aumento dell’offerta, per l’aumento della produttività, per riportare merci e servizi sul mercato, per ristabilire in tempi brevi il funzionamento delle catene globali di produzione: verrebbe da dire, in aperta polemica con i protezionisti esteri e nostrani, per ridare fiato a quella globalizzazione che ha consentito decenni di prezzi stabili e scambi abbondanti.
* Professore di Economia Internazionale presso GSM Politecnico di Milano
L’Espresso, 3 luglio 2022