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Le bugie al potere

La Presidente del Consiglio continua a mentire a ripetizione, spudoratamente, manipolando la realtà e lavorando per nascondere i fatti su cui i cittadini poi possono farsi un’idea.

Sarrasine | di Honoré de Balzac

“Sarrasine” di Balzac racconta di un giovane scultore che si innamora di una cantante d’opera, Zambinella, ignaro che sia un castrato, in un dramma d’amore e inganno.

Complicità sul campo: l’Italia si piega a Israele anche durante la farsa della partita

Il vero scandalo non è stato il fischio d’inizio della partita Italia-Israele, ma il vergognoso teatrino messo in scena dall’Italia, che si è rivelata disposta a chiudere entrambi gli occhi pur di non perdere una comoda posizione di servilismo. Mentre in Medio Oriente si consuma uno dei capitoli più sanguinosi della storia recente, con migliaia di civili uccisi, molti dei quali bambini, il governo italiano sceglie di stringere mani insanguinate e fare affari con chi quelle morti le ha provocate. Non ci sono giustificazioni, solo ipocrisia travestita da pragmatismo politico. Alberto Rimedio, al microfono della RAI, ha pensato bene di “non stigmatizzare”. Un gesto di codardia travestito da imparzialità, un tentativo maldestro di evitare una presa di posizione chiara mentre la realtà imponeva tutt’altro. Ma cosa c’è da non stigmatizzare in un Paese che ha portato avanti una campagna di sterminio sistematico, che in un solo anno ha causato la morte di oltre 43.000 persone, di cui un terzo bambini? Forse si pensa che, commentando una partita di calcio, si possa ignorare la guerra, ma ignorarla non significa farla sparire. Il sangue resta lì, visibile anche fuori dallo stadio. Israele non è un Paese come gli altri, non si può ignorare la sua condotta. Eppure, mentre altrove si chiederebbe giustizia, l’Italia si dimostra pronta a far finta di niente, a voltare la testa dall’altra parte in nome di interessi economici e di alleanze geopolitiche. Fischi? Non sono abbastanza. Israele non merita di essere fischiato, ma condannato e isolato. È impensabile che un Paese responsabile di tali crimini possa continuare a partecipare a competizioni internazionali, sportive o di altro genere. Ma il mondo, e in particolar modo l’Italia, sembra più che disposto a chiudere gli occhi, a sacrificare la morale sull’altare del potere. Il problema non è solo sportivo, ovviamente. È molto più ampio e riguarda la scelta deliberata di un governo di schierarsi dalla parte sbagliata della storia. Giorgia Meloni, che ama esibirsi come “madre cristiana”, sembra più preoccupata di mantenere il suo ruolo sulla scena internazionale che di difendere i valori che tanto sbandiera. Il suo sorriso mentre stringe la mano di Netanyahu, come se nulla fosse, è un’offesa non solo per chi crede nella giustizia, ma anche per quei bambini che hanno perso la vita sotto le bombe israeliane. Nessuna croce al collo potrà mai redimere quella complicità. La questione, tuttavia, non riguarda solo la politica, ma anche l’informazione. La RAI, con la sua decisione di trasmettere la partita e il modo in cui è stata commentata, ha dimostrato una volta di più quanto profondamente sia compromessa la sua imparzialità. Rimedio non è stato un telecronista neutrale, è stato un complice del silenzio. Un silenzio che fa rumore, che grida l’assenza di coraggio, la mancanza di etica, l’ipocrisia di un’informazione che si è ridotta a megafono di interessi superiori. Non si può commentare una partita tra Italia e Israele come se fosse un evento sportivo qualsiasi, non quando le strade di Gaza sono macchiate dal sangue dei suoi abitanti. La vergogna non è limitata al governo o alla stampa, ma investe anche una parte degli italiani che preferisce restare in silenzio, complice di un sistema che premia chi uccide e punisce chi resiste. Non ci sono scuse per chi, in nome di un finto pragmatismo, sceglie di non prendere posizione. L’indifferenza è una forma di colpevolezza. Eppure, molti sembrano più preoccupati di non disturbare gli equilibri del potere che di difendere i valori di umanità e giustizia. Israele continua a massacrare, e l’Italia continua a far finta di niente. L’impunità di cui gode Israele a livello internazionale è uno schiaffo in faccia a chiunque creda nella giustizia. La Russia è stata esclusa da ogni competizione sportiva per l’invasione dell’Ucraina, ma Israele partecipa tranquillamente a eventi internazionali senza subire alcuna conseguenza per le sue azioni. Qual è la differenza? Perché due pesi e due misure? La risposta è semplice: Israele è protetta da alleati potenti, come gli Stati Uniti, e da un’Europa debole, che non osa opporsi. L’Italia, ovviamente, non fa eccezione e si allinea docilmente a questa linea di condotta vergognosa. Mentre Gaza continua a essere bombardata, mentre le case vengono rase al suolo e le famiglie cancellate, l’Italia si preoccupa di apparire “responsabile” agli occhi dei potenti. Il governo Meloni non solo non condanna Israele, ma lo supporta indirettamente, stringendo accordi commerciali e militari che fanno solo da carburante a una macchina di morte. Questo governo, che tanto si vanta di difendere i “valori cristiani”, ha perso ogni credibilità. È difficile immaginare come Meloni possa guardare negli occhi sua figlia, sapendo che ha stretto la mano di un uomo responsabile di uccisioni di massa. Il problema, però, non è solo di chi governa. È di tutti noi. Gli italiani, un tempo pronti a scendere in piazza per difendere i diritti e la libertà, sembrano oggi indifferenti a ciò che accade nel mondo. Dove sono finite le proteste? Dove è finita quella coscienza collettiva che rifiutava l’ingiustizia? Siamo diventati un popolo anestetizzato, che si accontenta di seguire le partite in TV, mentre altrove si consumano massacri in nome della “sicurezza” e della “legittima difesa”. Ma questa difesa è legittima solo per chi ha il potere di dettare le regole. Non è troppo tardi per invertire la rotta. Il silenzio, però, non è più un’opzione. Ogni giorno che passa senza una presa di posizione è un giorno in cui ci rendiamo complici di ciò che accade. Israele deve essere condannato per i suoi crimini, e l’Italia deve smettere di prostrarsi davanti a interessi che vanno contro ogni principio di umanità. Se vogliamo ancora definirci una nazione civile, è ora di alzare la voce, di reagire, di chiedere giustizia per chi non ha voce. Oggi è il momento di decidere da che parte stare. Non possiamo più fingere di non vedere. Ogni stretta di mano, ogni sorriso diplomatico, ogni parola non detta è una scelta di campo. E l’Italia, con il suo silenzio, ha già scelto.

Il mito di Orfeo ed Euridice raccontato da Virgilio nelle Georgiche

IL MITO Il mito di Orfeo ed Euridice è una delle storie più affascinanti e struggenti della mitologia greca, spesso interpretata come una riflessione sull’amore, la perdita e l’impossibilità di sfuggire al destino. Orfeo, figlio della musa Calliope e del re tracio Eagro (secondo altre versioni, del dio Apollo), era un poeta e musicista di straordinario talento. Con la sua lira, donatagli proprio da Apollo, era in grado di incantare animali, piante e persino pietre con la bellezza della sua musica. La sua amata Euridice, una ninfa, morì tragicamente poco dopo il loro matrimonio, morsa da un serpente mentre fuggiva dalle avances di Aristeo. Disperato, Orfeo decise di scendere negli Inferi per riportarla nel mondo dei vivi, compiendo un’impresa che nessun mortale aveva mai osato tentare. Grazie alla sua musica, Orfeo riuscì a commuovere le divinità dell’oltretomba: Ade e Persefone gli concessero il permesso di riportare Euridice sulla Terra, ma a una condizione severa. Durante il cammino di ritorno, Orfeo non doveva voltarsi a guardare Euridice fino a quando non fossero completamente usciti dagli Inferi. Col cuore colmo di speranza, Orfeo iniziò il difficile viaggio, ma, proprio quando stavano per raggiungere la superficie, il dubbio e la paura presero il sopravvento: temendo di essere stato ingannato e che Euridice non lo stesse seguendo, si voltò per guardarla. In quell’istante, la ninfa fu risucchiata indietro nel regno dei morti, questa volta per sempre. Il mito si conclude con un Orfeo inconsolabile, incapace di vivere senza la sua amata. Nelle versioni più antiche della storia, si narra che Orfeo, incapace di amare di nuovo, venne dilaniato dalle Menadi, le seguaci di Dioniso, arrabbiate per il suo rifiuto di onorare il dio e per il suo distacco dal mondo. Il mito di Orfeo ed Euridice è stato interpretato in vari modi nel corso dei secoli. Alcuni lo vedono come una metafora dell’amore impossibile, altri come un commento sulla fragilità dell’essere umano di fronte alla potenza del fato. La musica di Orfeo, che supera i confini della vita e della morte, è stata spesso vista come un simbolo dell’arte stessa, capace di toccare l’animo umano nei suoi aspetti più profondi e misteriosi. * * * IL MITO RACCONTATO DA VIRGILIO Nelle Georgiche, Virgilio racconta il viaggio di Orfeo negli Inferi per recuperare Euridice, che è stata morsa da un serpente e portata nel regno dei morti. Come nel racconto più noto, Orfeo riesce a commuovere Plutone e Proserpina con la sua musica, ottenendo il permesso di riportarla indietro, a patto che non si volti a guardarla finché non saranno usciti dall’Ade. Tuttavia, Orfeo infrange questa condizione e perde Euridice per sempre. * * * Nel brano che segue, siamo di fronte al drammatico epilogo del mito di Orfeo ed Euridice. La storia si concentra sul momento in cui Orfeo, dopo aver ottenuto il permesso di riportare Euridice dal regno dei morti, sta per compiere il suo ritorno verso la luce del mondo dei vivi. Le condizioni poste per riavere Euridice sono semplici: durante tutto il tragitto Orfeo non deve mai voltarsi a guardarla. Mentre sono in cammino, con Euridice che lo segue da vicino, qualcosa lo assale. Orfeo, quasi vinto da un’irresistibile ansia e amore, si volta verso la sua amata proprio quando sono a un passo dalla salvezza. Ecco che si infrange la legge “del duro tiranno” Plutone, signore dell’Ade. Euridice si accorge subito della follia del suo sposo e, con dolcezza, lo rimprovera. Dice che ormai il “fato avverso” la sta richiamando, e che il sonno della morte la trascina di nuovo nelle tenebre. Nel momento in cui tende le mani verso di lui, svanisce come fumo nell’aria, lasciando Orfeo con la disperazione di non poterla più raggiungere. Il traghettatore dell’Ade non gli concede più il passaggio, e lui resta impotente davanti all’acqua dell’Inferno, con la consapevolezza di averla persa per sempre. Orfeo si abbandona a un dolore inconsolabile, simile a quello di un usignolo che piange i suoi piccoli strappati da un crudele aratore. Per mesi, sette lunghi mesi, Orfeo vaga, senza pace, lungo le rive del fiume Strimone, in un paesaggio desolato. Le sue sofferenze arrivano a tal punto che persino le tigri e gli alberi sembrano commuoversi al suono del suo canto. Il dolore di Orfeo, tuttavia, non si placa e lo spinge a vagare per terre sempre più lontane, persino verso i freddi ghiacci boreali. Orfeo continua a lamentarsi, invocando invano Euridice e maledicendo il suo destino. Il mito termina con un ulteriore tragico epilogo: le donne dei Ciconi, risentite dal rifiuto di Orfeo verso l’amore e la vita, lo fanno a pezzi durante i riti di Bacco. Anche la sua testa, staccata dal corpo, continua a chiamare Euridice, persino mentre viene portata via dal fiume Ebro. Persino le rive del fiume ripetono il nome della sfortunata Euridice, risuonando in un’eco perpetua di dolore. * * * E subito dal più profondo Erebo, commosse dal canto, ombre venivano leggere e parvenze di morti: a migliaia, quasi stormi di uccelli che si posano tra le foglie, quando la sera o l’aspra pioggia d’inverno li caccia giù dai monti; donne e uomini, e corpi475 di magnanimi eroi morti, e fanciulli e fanciulle, e giovani arsi sul rogo davanti ai genitori. E ora il fango nero e la squallida canna del Cocito, e la palude lurida con la sua acqua pigra li stringe d’intorno, e lo Stige con nove giri li rinserra.480 Stupirono le case di Lete e i luoghi più remoti del Tartaro, e le Eumenidi dai capelli azzurri di serpi; e Cerbero restò muto con le tre bocche aperte, e la ruota d’Issione si fermò insieme al vento. E già Orfeo tornava, vinto ogni pericolo,485 ed Euridice veniva verso la luce del cielo seguendolo alle spalle (così impose Proserpina), quando una follia improvvisa lo travolse, da perdonare, certo, se i Mani sapessero perdonare. Orfeo già presso la luce, vinto d’amore,490 la sua Euridice si voltò a guardare. Così fu rotta la legge del duro tiranno, e tre volte

Mitologia e mito

La mitologia ha per oggetto lo studio dei miti creati dalle varie civiltà e dai diversi popoli. Che cosa è il mito? Questa parola è greca (mythos) e significa racconto. È necessario però aggiungere che il mito è un racconto favoloso, che si è formato in età antichissime presso le primitive comunità umane. Racconto favoloso, abbiamo detto, ma ben distinto dalla favola e dalla fiaba. Esso infatti ha le sue radici nella realtà, mentre nella fiaba e nella favola ha parte essenziale tutto ciò che nasce esclusivamente dall’immaginazione. Cerchiamo di immaginare la vita degli uomini primitivi, che, usciti dalle tenebrose e fredde caverne, a poco a poco si riuniscono in gruppi e formano tribù e villaggi, imparano a servirsi del fuoco e dei metalli e si suddividono varie attività, cercando di aiutarsi fra loro per affrontare le molteplici difficoltà della sopravvivenza. Le loro energie sono completamente impegnate nella ricerca del cibo e nella difesa di se stessi e della prole. Senza dubbio il mondo appare a questi nostri lontanissimi antenati sede di fenomeni per loro misteriosi e inspiegabili: il sole si stacca dal cielo, torna al giorno e alla notte; la luna compare presso l’orizzonte, diventa un grande globo luminoso e poi di nuovo gradatamente si assottiglia; uragani e tempeste scoppiano all’improvviso; terremoti, inondazioni, eruzioni di vulcani provocano devastazioni; la vegetazione e i frutti della terra a epoche fisse muoiono e rinascono; la natura appare ora come una madre benigna, ora come una temenda castigatrice. Chi dirige tutte queste vicende? Chi ha creato il cielo e i suoi astri, la terra, il mare? Perché gli esseri viventi nascono e muoiono? E che cosa è la morte? A tali domande l’uomo non trova risposta per mezzo della ragione, che gli fornisce solo poche e primitive conoscenze e perciò egli ne cerca la spiegazione con la fantasia. Alla fantasia pare che la natura sia tutta quanta animata e che ne abbiano il dominio esseri superiori all’uomo: essi sono stati creatori dell’universo; governano il destino degli uomini e li aiutano e li proteggono, se lo meritano, e li puniscono, se sono colpevoli; essi non sono soggetti alla sconfitta, alla malattia, alla vecchiaia e alla morte; essi sono divinità. In tal modo la realtà, fantasticamente rielaborata, risulta ingrandita e abbellita; in conseguenza si forma, nelle diverse regioni di ogni continente, in Europa come in Asia, in Africa come in America, un insieme di credenze, che, gelosamente custodite e tramandate oralmente di generazione in generazione, formano un patrimonio comune di leggende, costituiscono cioè i miti di ogni popolo. Questi miti, che intendono dare una spiegazione dei fenomeni naturali, sono detti miti naturalistici. * * * L’EPICA ANTICA A questi grandi antichissimi temi, con il succedersi degli avvenimenti, altri se ne accostano, perché ogni popolazione vuole mantenere vivo il ricordo di grandi imprese guerresche compiute dai propri antenati. Tali spedizioni militari, causate da desiderio di conquista o da rivalità commerciali o ancora da rappresaglie e vendette, risalgono bensì a una realtà storica, ma la fantasia, trascurando i motivi politici ed economici che sono stati la causa reale dell’impresa stessa, vi sostituisce elementi fantastici, storie di passioni travolgenti (amore, odio, gelosia, desiderio di avventura, di gloria, di potere…), che sollecitano l’immaginazione. A capo di tali imprese vi è spesso un eroe della stirpe, al quale il racconto fantasticato attribuisce virtù – e talvolta origini – divine. Eroe è parola greca, che significando appunto protettore, viene ad indicare un forte e valoroso combattente, un benefattore del popolo intero, di cui diventa il capo: per i suoi meriti viene divinizzato, cioè onorato come un dio e tale venerato. Si formano in tal modo i cosiddetti miti storici: alla loro base vi è un fatto storicamente avvenuto; i personaggi coinvolti sono esistiti realmente e vi presero parte; ma il fatto, accaduto da tempo, non è ricordato con esattezza e perciò la fantasia vi aggiunge particolari straordinari, facendo sì che l’immaginazione popolare, a lungo andare, renda eroico ciò che eroico non è stato. In tal modo i miti, quelli naturalistici, quelli degli eroi storici, sono tramandati di generazione in generazione, assumono cioè un vero e proprio valore religioso. Nei tempi più remoti essi hanno la forma di canti corali anonimi: la comunità intera si riunisce per cantarli quando parte per importanti spedizioni di guerra e di caccia, o si prepara per emigrare in altre terre, o per compiere importanti operazioni agricole e pastorali. I canti spesso sono accompagnati non solo dalla musica, ma anche da danze mimiche ( = movimenti e gesti) che raffigurano le azioni, e la loro esecuzione è di composimenti in versi. Il succedersi dei versi infatti costituisce per di sé stesso un discorso ritmato, con cadenze e pause fisse, che spontaneamente si accompagnano al canto e alla musica. Procedendo poi i tempi e formandosi società strutturate diversamente, gli antichissimi canti cominciano ad essere eseguiti da singoli cantori, detti nel mondo greco aedi (e altrove bardi, giullari…), che, vagando di città in città, dall’una all’altra reggia, li cantano accompagnandosi con il suono della cetra: naturalmente vi aggiungono episodi di invenzione personali, li rielaborano e li modificano. Altri cantori poi, detti, sempre con parola greca, rapsodi (termine che significa cucitori di canti), li aggregano attorno a un episodio fondamentale, dando loro spesso forma più stabile per mezzo della scrittura, li uniscono fra loro, in modo che si indichino raggruppamenti organici e ne formano un poema sostanzialmente unitario. Tale rievocazione dei miti forma, presso le varie comunità umane, l’oggetto della poesia detta epica. Epopea, epico sono parole che derivano anch’esse, come mito, da una parola greca (epos), che significa «narrazione», «racconto»; ogni popolo attinge dai propri miti il suo patrimonio epico. Caratteristica fondamentale del poema epico è quella di essere una narrazione, per lo più ampia e in versi, che espone in tono solenne antichi miti e avvenimenti memorabili e grandiosi, in cui hanno parte gli dèi e gli eroi. Naturalmente non nel corso degli stessi secoli né con la stessa uniformità nascono presso i singoli popoli le varie

Introduzione alla storia greca

Buongiorno e benvenuti alla prima lezione del primo volume di questo corso di storia, che sarà dedicata alla storia greca e sarà strutturato con una serie di lezioni introduttive dedicate alle civiltà arcaiche, e quindi alla civiltà minoica e alla civiltà micenea, per poi invece scendere nel dettaglio dal fiorire delle polis e del movimento coloniale, fino al periodo successivo alla morte di Alessandro Magno. Sarà un corso che coprirà diversi secoli di storia, diciamo dettagliatamente dall’VIII secolo al II secolo avanti Cristo, ed è pensato per la preparazione e l’approfondimento di interrogazioni e compiti in classe delle scuole secondarie, ma anche per un ripasso o per la preparazione di esami universitari. Il volume di riferimento che abbiamo utilizzato è quello del manuale di Storia Greca della professoressa Cinzia Bearzot, che è una delle massime greciste italiane. Verranno poi di volta in volta aggiunti altri contenuti presi da altre fonti, con particolare attenzione anche all’aspetto topografico, quindi numerose cartine che aiutano allo studio e all’approfondimento della storia. Prima di cominciare, però, ho pensato di fare una piccola introduzione riferita al concetto stesso di storia, ed è un aspetto che si concilia particolarmente con la storia greca. La storia, come molte altre cose che vedremo successivamente, è stata inventata in Grecia, precisamente nel V secolo, e la paternità del termine stesso storia si deve al titolo dell’opera di Erodoto, Le Storie (Ἱστορίαι), che vuol dire “le storie”, e che era il racconto e l’esposizione dei nove libri delle guerre persiane, che erano avvenute all’inizio del V secolo. Vedete gli estremi di nascita e di morte di Erodoto, quindi un paio di generazioni precedenti alla vita del primo storico. La cosa però interessante è approfondire e soffermarsi un secondo sull’etimologia della parola storia, che vuole letteralmente dire “esposizione della ricerca”. Al suo interno contiene, nonostante i numerosi cambiamenti morfologici che chi ha studiato greco ben conosce, la radice del verbo indoeuropeo “vedere”. Di conseguenza, possiamo dire che la storia, in origine (e vedremo poi come si modifica la disciplina), è in origine l’esposizione del racconto fatto dallo storico su un argomento da lui ritenuto meritevole di essere tramandato. Ora, questa invenzione del V secolo è un’invenzione di metodo e di concezione, perché non era certo la prima volta in cui l’uomo rifletteva sul proprio passato. Se ci pensiamo, le stesse tracce rupestri lasciate dall’uomo primitivo non erano altro che l’espressione della volontà di trasmettere ai posteri la traccia del proprio passaggio nel mondo, e quindi il segno di una riflessione sulla propria esistenza che è di fatto sempre passata, perché si riferisce a fatti della propria esistenza che sono già avvenuti. Quindi una prima riflessione sulla esperienza nel mondo. Nel mondo greco, però, prima del V secolo, la narrazione del passato dell’essere umano assumeva le forme orali del mito prima e dell’epica omerica successivamente. Il mito, in particolare, è stato definito da molti studiosi come un racconto polisemico, cioè un racconto che era in grado di veicolare per l’uomo dell’antica Grecia una serie diversa di significati. Senza scendere nel dettaglio, se noi proviamo a riportare alla mente alcuni miti di cui siamo a conoscenza, ci rendiamo conto di come i soggetti narrati fossero i più disparati, dalle origini del cosmo (miti cosmogonici) ai miti che potevano spiegare i fenomeni atmosferici e lo scandire delle stagioni e del tempo, così come la fondazione delle città, che fondeva un avvenimento realmente accaduto con una dimensione mitologica, quindi con la presenza del divino nella storia umana, fino ad arrivare a racconti che esprimevano i precetti di condotta morale, quindi racconti di contenuto etico che erano ritenuti universalmente validi per l’uomo greco delle epoche arcaiche. Il corpus poetico che, nel corso dell’VIII secolo, confluisce in quella che noi conosciamo come epica omerica, narrava come eventi storicamente avvenuti, come la guerra di Troia. La guerra di Troia è storicamente avvenuta, lo vedremo anche successivamente: le tracce archeologiche della città di Troia sono state scoperte da Heinrich Schliemann, un archeologo dilettante nel XIX secolo, studiando le descrizioni della città che trovava nei testi omerici, riuscì a individuare il sito dell’antica città di Troia. Alessandro Magno, anche questo lo vedremo, quando sbarca in Asia all’inizio della sua avventura di conquista dell’Impero Persiano, si reca alla tomba di Achille, che era appunto a Troia. Cos’era questo evento realmente accaduto? Era un racconto in cui si fondevano la dimensione della storia, come noi la conosciamo (quindi gli eventi realmente accaduti), con la dimensione mitologica, dove gli dèi e gli eroi si muovevano sullo stesso piano dell’uomo. Il grande cambiamento introdotto da Erodoto nel V secolo, che per la prima volta presentò i fatti e l’interpretazione di questi, è che, come dice la parola stessa, la storia è l’esposizione della ricerca fatta dallo storico, che interpreta i fatti su cui ha compiuto la sua ricerca. Per la prima volta, questa interpretazione non veniva fatta ricorrendo a spiegazioni soprannaturali o con il coinvolgimento della divinità, ma attraverso una spiegazione che possiamo definire immanente, cioè sul mero piano degli esseri umani. E questa è quella che noi possiamo considerare come la svolta epocale introdotta da Erodoto. Non bisogna però pensare che Erodoto applicasse in ogni passaggio della sua imponente opera in nove libri un moderno metodo storiografico, perché dobbiamo considerare la realtà in cui viveva. Abbiamo detto che si trovava due generazioni successive agli eventi narrati, e quindi la sua possibilità di consultare fonti era limitata, soprattutto perché si trattava di scrivere un’opera che era ricca di divagazioni etnografiche. Sappiamo che Erodoto viaggiò molto, quindi fece una ricerca autoptica (vista con i propri occhi), epigrafica e scultorea. Pensiamo alla colonna persiana che ancora oggi possiamo vedere al santuario di Delfi. Quindi aveva a disposizione delle fonti materiali per la ricostruzione dell’evento delle guerre persiane. Tuttavia, come lui stesso confessa, molte delle informazioni che ha utilizzato le ha acquisite per sentito dire. Quindi, non seguì quello che noi potremmo definire un metodo storiografico rigoroso. D’altro canto, probabilmente, anche questa era una necessità per uno

La Supergiùliola | di Marco Travaglio

di Marco Travaglio Tutti sanno con quale trasporto seguiamo Alessandro Giuli nella sua resistibile ascesa politica (dal Foglio al museo Maxxi al ministero della Cultura), accademica (l’esame di Teoria delle dottrine teologiche, 30 sine laude) e pure tricologica (i favoriti alla Asimov). Ma ci era sfuggita la sua audizione alla Camera, dove ha illustrato da par suo le linee guida della Cultura nell’Era Post-Sangiuliana: un prezioso scampolo di prosa recitata che dobbiamo al collega collezionista Felice Florio di Open ed è già reperto d’epoca. Acchittato con tanto di panciotto, il Giuli avverte gli astanti che sarà “un po’ teoretico”. In senso anafestico, direbbe il conte Lello Mascetti, suo spirito-guida. Infatti parte il tarapia tapioco con scappellamento a destra: “La conoscenza è il proprio tempo appreso con il pensiero. Chi si appresta a immaginare un orientamento per l’azione culturale e nazionale non può che muovere dal prendere le misure di un mondo entrato nella dimensione compiuta della tecnica e delle sue accelerazioni”. Come fosse Antani, appunto. “Di fronte a questo cambiamento di paradigma – la quarta rivoluzione epocale della storia delineante un’ontologia intonata alla rivoluzione permanente dell’infosfera globale – il rischio che si corre è duplice e speculare”. E cum fuochi fatui, peraltro: “L’entusiasmo passivo, che rimuove i pericoli della ipertecnologizzazione, e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese (sic, ndr) come minaccia”. Non sia mai. Qui il Giuli si fa una domanda: “Siamo dunque precipitati nell’epoca delle passioni tristi?”. E, mentre i deputati superstiti trattengono il fiato, si dà subito una risposta: “No”. Ah, meno male, sennò erano cazzi. “Fare cultura è pensare sempre da capo e riaffermare continuamente la dignità, la centralità dell’uomo… non l’algoritmo… In questa prospettiva è un’illusione ottica pensare a una distinzione di categoria o, peggio, a una contrapposizione tra culture scientifiche e umanistiche. Come in una disputa tra un fronte culturale progressista e uno conservatore. Dialettica errata”. E qual è quella giusta? “Si tratta di pensare Pitagora, Dante, Petrarca, Botticelli, Verdi, insieme con Leonardo da Vinci e Galilei, Torricelli, Volta, Fermi, Meucci e Marconi”: un bel frullato per “rifarsi a questa concezione circolare”. Alla parola “circolare”, torna in mente il vigile urbano di Amici miei, che tentava di multarli e gli altri per abuso di clacson, finché il Mascetti lo neutralizzò con la supercazzola brematurata. Ignaro del fatto che, un giorno, sarebbe diventato ministro. E avrebbe fatto rimpiangere Sangiuliano. Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2024

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