Nel cuore dell’Odissea, tra le sue peregrinazioni, i suoi inganni, le sue identità fluide e i suoi ritorni sempre incompleti, vi è un problema apparentemente secondario ma che, se analizzato con la dovuta attenzione, si rivela sintomatico di un più ampio mutamento culturale, sociale e narrativo: perché Telemaco, figlio di Ulisse e Penelope, non regna su Itaca in assenza del padre? Non sarebbe naturale che, in un contesto monarchico, l’erede al trono subentrasse in caso di vacanza del sovrano? E se la madre è la regina, perché la sua autorità non si traduce automaticamente in un passaggio di potere filiale?
Queste domande non possono essere liquidate con una semplice risposta normativa: l’epos omerico non è un codice giuridico, né si preoccupa di giustificare coerentemente le sue strutture politiche. Eppure, l’anomalia è evidente e non può essere ignorata, poiché essa tradisce la stratificazione di tradizioni che l’Odissea eredita da epoche diverse e che il poeta, nel suo tentativo di dare coerenza narrativa a un racconto sedimentato nel corso di secoli, non riesce a risolvere del tutto.
Se vogliamo comprendere questa dissonanza, dobbiamo allontanarci dalle logiche contemporanee del potere ereditario e immergerci in un mondo mitico, dove la regalità non è solo una questione di sangue, ma anche di legittimità rituale, di consenso aristocratico, di trasmissione di un ordine cosmico che precede e supera il singolo individuo.
L’Odissea è un’opera di confine: nasce in un periodo in cui la Grecia è già ampiamente patriarcale, ma conserva echi di un passato più antico, in cui la trasmissione del potere avveniva secondo logiche matrilineari, e il re non era un monarca assoluto, bensì il consorte della sovrana ereditaria. Questa tensione tra modelli diversi di successione è il vero nodo irrisolto della storia di Telemaco.
La sua incapacità di prendere il trono non dipende solo dalla sua giovane età (all’inizio del poema, è poco più che un adolescente) né dalla presenza ingombrante dei Proci, ma dal fatto che il suo diritto a regnare è incerto. In un sistema patriarcale pienamente consolidato, egli sarebbe stato il successore naturale di Ulisse. In un sistema matrilineare, sarebbe stato irrilevante ai fini della trasmissione del potere, poiché non erede diretto della madre. L’epos omerico si muove in questo spazio intermedio, dove la struttura sociale è cambiata ma i miti che la raccontano sono ancora legati a un passato che non si riesce a rimuovere del tutto.
Penelope è la chiave di questa contraddizione. A differenza delle regine delle epoche successive, che nel mondo greco-classico sono semplicemente le mogli del re e non detentrici autonome di alcun potere, ella appare come una figura dotata di una propria autorità, al punto che i Proci non cercano solo il matrimonio con lei, ma la sua mano come condizione necessaria per acquisire il trono. Se la regalità fosse interamente patrimoniale, la morte di Ulisse avrebbe portato automaticamente Telemaco sul trono, e il matrimonio di Penelope non avrebbe avuto alcuna incidenza sulla questione. Ma questo non è ciò che accade, perché il diritto al potere sembra passare attraverso di lei, come se la sovranità fosse ancora, almeno in parte, legata alla sua figura.
Questo fenomeno non è isolato nella mitologia greca. Vi è un caso esemplare che conferma l’ipotesi matrilineare: Elena di Sparta. Figlia di Tindareo e Leda, Elena è la regina legittima di Sparta non perché il trono passi ai suoi fratelli Castore e Polluce, ma perché ella stessa è la detentrice del diritto regale. È lei a scegliere il suo sposo tra una schiera di pretendenti, ed è il suo matrimonio con Menelao a legittimare quest’ultimo come re. Anche Clitemnestra, sua sorella, mantiene una posizione di potere indipendente dal marito Agamennone, tanto che, alla sua morte, non è Oreste a prendere subito il trono, ma l’amante Egisto, che diventa re attraverso l’unione con lei.
Se Itaca fosse retta secondo questo principio, la situazione narrata nell’Odissea avrebbe più senso. Ulisse sarebbe stato re non per eredità paterna, ma in quanto sposo di Penelope. La sua assenza creerebbe un vuoto di potere, e il futuro della monarchia dipenderebbe dal destino della regina. In questa prospettiva, il comportamento dei Proci è perfettamente logico: non sono solo un’accolita di nobili dissoluti che sperano di arricchirsi alle spalle della regina, ma rappresentano un’aristocrazia che tenta di ristabilire l’ordine scegliendo un nuovo re attraverso il matrimonio con l’erede legittima.
Ma il poeta dell’Odissea scrive in un’epoca in cui la regalità matrilineare è già in fase di estinzione. Per il pubblico dell’VIII secolo a.C., l’idea che un re debba il suo potere alla moglie è difficilmente comprensibile. Ecco allora che Omero cerca di riorganizzare il racconto in termini patriarcali, ma non riesce a eliminare del tutto le tracce del modello precedente. Ne risulta un sistema ibrido, in cui Penelope è al centro del conflitto politico, ma Telemaco non può reclamare il trono fino al ritorno del padre.
La figura di Laerte, il vecchio padre di Ulisse, è un altro elemento problematico. Perché Ulisse è re se suo padre è ancora vivo? Se la regalità fosse interamente patrimoniale, Laerte avrebbe dovuto regnare fino alla morte, per poi lasciare il trono al figlio. Il fatto che sia invece Ulisse a esercitare la sovranità suggerisce che il potere non gli sia stato trasmesso per via ereditaria, ma per un’altra via, forse proprio il matrimonio con Penelope. Laerte, una volta anziano, si è ritirato dalla vita politica non perché fosse morto o incapace, ma perché il suo ruolo non era quello di un monarca dinastico, bensì di un capo aristocratico in un sistema in cui il re era scelto sulla base di altri criteri.
L’assenza di Ulisse, dunque, non lascia un’eredità chiara. Telemaco non è ancora abbastanza forte da imporsi come nuovo sovrano e deve affrontare un’aristocrazia che non lo riconosce automaticamente. Penelope, dal canto suo, è il centro di un intrigo politico che il racconto tenta di ricondurre alla sfera privata e sentimentale, ma che è chiaramente una questione di potere. I Proci non sono solo dei corteggiatori insistenti, ma dei nobili che cercano di ristabilire un governo legittimo scegliendo un nuovo re attraverso l’unione con la regina.
Il ritorno di Ulisse, allora, non è solo il ritorno di un marito e di un padre, ma la restaurazione di un ordine sospeso. Il poema non può permettersi di risolvere il problema della successione con la semplice ascesa di Telemaco, perché la sua struttura politica non lo consente. Ulisse deve tornare, riaffermare il suo diritto, eliminare i pretendenti e ripristinare il governo. Ma questo governo non sarà eterno: il mondo di Itaca è destinato a cambiare, e forse il giovane Telemaco, una volta appresa l’arte della navigazione e della diplomazia, sarà il sovrano di una nuova epoca, in cui il potere non dipenderà più da un’antica eredità matrilineare, ma dalla forza dell’individuo e dalla sua capacità di imporsi.
L’Odissea, con le sue ambiguità, è la testimonianza di un mondo in transizione, un mondo che ha già abbandonato il passato ma che ancora non sa come raccontare pienamente il proprio presente. E così, nel cuore del poema, Telemaco resta in attesa, sospeso tra due epoche, incapace di regnare perché il racconto stesso non sa ancora a chi appartenga davvero il trono di Itaca.