Il mito di Orfeo ed Euridice raccontato da Virgilio nelle Georgiche

IL MITO Il mito di Orfeo ed Euridice è una delle storie più affascinanti e struggenti della mitologia greca, spesso interpretata come una riflessione sull’amore, la perdita e l’impossibilità di sfuggire al destino. Orfeo, figlio della musa Calliope e del re tracio Eagro (secondo altre versioni, del dio Apollo), era un poeta e musicista di straordinario talento. Con la sua lira, donatagli proprio da Apollo, era in grado di incantare animali, piante e persino pietre con la bellezza della sua musica. La sua amata Euridice, una ninfa, morì tragicamente poco dopo il loro matrimonio, morsa da un serpente mentre fuggiva dalle avances di Aristeo. Disperato, Orfeo decise di scendere negli Inferi per riportarla nel mondo dei vivi, compiendo un’impresa che nessun mortale aveva mai osato tentare. Grazie alla sua musica, Orfeo riuscì a commuovere le divinità dell’oltretomba: Ade e Persefone gli concessero il permesso di riportare Euridice sulla Terra, ma a una condizione severa. Durante il cammino di ritorno, Orfeo non doveva voltarsi a guardare Euridice fino a quando non fossero completamente usciti dagli Inferi. Col cuore colmo di speranza, Orfeo iniziò il difficile viaggio, ma, proprio quando stavano per raggiungere la superficie, il dubbio e la paura presero il sopravvento: temendo di essere stato ingannato e che Euridice non lo stesse seguendo, si voltò per guardarla. In quell’istante, la ninfa fu risucchiata indietro nel regno dei morti, questa volta per sempre. Il mito si conclude con un Orfeo inconsolabile, incapace di vivere senza la sua amata. Nelle versioni più antiche della storia, si narra che Orfeo, incapace di amare di nuovo, venne dilaniato dalle Menadi, le seguaci di Dioniso, arrabbiate per il suo rifiuto di onorare il dio e per il suo distacco dal mondo. Il mito di Orfeo ed Euridice è stato interpretato in vari modi nel corso dei secoli. Alcuni lo vedono come una metafora dell’amore impossibile, altri come un commento sulla fragilità dell’essere umano di fronte alla potenza del fato. La musica di Orfeo, che supera i confini della vita e della morte, è stata spesso vista come un simbolo dell’arte stessa, capace di toccare l’animo umano nei suoi aspetti più profondi e misteriosi. * * * IL MITO RACCONTATO DA VIRGILIO Nelle Georgiche, Virgilio racconta il viaggio di Orfeo negli Inferi per recuperare Euridice, che è stata morsa da un serpente e portata nel regno dei morti. Come nel racconto più noto, Orfeo riesce a commuovere Plutone e Proserpina con la sua musica, ottenendo il permesso di riportarla indietro, a patto che non si volti a guardarla finché non saranno usciti dall’Ade. Tuttavia, Orfeo infrange questa condizione e perde Euridice per sempre. * * * Nel brano che segue, siamo di fronte al drammatico epilogo del mito di Orfeo ed Euridice. La storia si concentra sul momento in cui Orfeo, dopo aver ottenuto il permesso di riportare Euridice dal regno dei morti, sta per compiere il suo ritorno verso la luce del mondo dei vivi. Le condizioni poste per riavere Euridice sono semplici: durante tutto il tragitto Orfeo non deve mai voltarsi a guardarla. Mentre sono in cammino, con Euridice che lo segue da vicino, qualcosa lo assale. Orfeo, quasi vinto da un’irresistibile ansia e amore, si volta verso la sua amata proprio quando sono a un passo dalla salvezza. Ecco che si infrange la legge “del duro tiranno” Plutone, signore dell’Ade. Euridice si accorge subito della follia del suo sposo e, con dolcezza, lo rimprovera. Dice che ormai il “fato avverso” la sta richiamando, e che il sonno della morte la trascina di nuovo nelle tenebre. Nel momento in cui tende le mani verso di lui, svanisce come fumo nell’aria, lasciando Orfeo con la disperazione di non poterla più raggiungere. Il traghettatore dell’Ade non gli concede più il passaggio, e lui resta impotente davanti all’acqua dell’Inferno, con la consapevolezza di averla persa per sempre. Orfeo si abbandona a un dolore inconsolabile, simile a quello di un usignolo che piange i suoi piccoli strappati da un crudele aratore. Per mesi, sette lunghi mesi, Orfeo vaga, senza pace, lungo le rive del fiume Strimone, in un paesaggio desolato. Le sue sofferenze arrivano a tal punto che persino le tigri e gli alberi sembrano commuoversi al suono del suo canto. Il dolore di Orfeo, tuttavia, non si placa e lo spinge a vagare per terre sempre più lontane, persino verso i freddi ghiacci boreali. Orfeo continua a lamentarsi, invocando invano Euridice e maledicendo il suo destino. Il mito termina con un ulteriore tragico epilogo: le donne dei Ciconi, risentite dal rifiuto di Orfeo verso l’amore e la vita, lo fanno a pezzi durante i riti di Bacco. Anche la sua testa, staccata dal corpo, continua a chiamare Euridice, persino mentre viene portata via dal fiume Ebro. Persino le rive del fiume ripetono il nome della sfortunata Euridice, risuonando in un’eco perpetua di dolore. * * * E subito dal più profondo Erebo, commosse dal canto, ombre venivano leggere e parvenze di morti: a migliaia, quasi stormi di uccelli che si posano tra le foglie, quando la sera o l’aspra pioggia d’inverno li caccia giù dai monti; donne e uomini, e corpi475 di magnanimi eroi morti, e fanciulli e fanciulle, e giovani arsi sul rogo davanti ai genitori. E ora il fango nero e la squallida canna del Cocito, e la palude lurida con la sua acqua pigra li stringe d’intorno, e lo Stige con nove giri li rinserra.480 Stupirono le case di Lete e i luoghi più remoti del Tartaro, e le Eumenidi dai capelli azzurri di serpi; e Cerbero restò muto con le tre bocche aperte, e la ruota d’Issione si fermò insieme al vento. E già Orfeo tornava, vinto ogni pericolo,485 ed Euridice veniva verso la luce del cielo seguendolo alle spalle (così impose Proserpina), quando una follia improvvisa lo travolse, da perdonare, certo, se i Mani sapessero perdonare. Orfeo già presso la luce, vinto d’amore,490 la sua Euridice si voltò a guardare. Così fu rotta la legge del duro tiranno, e tre volte

IL MITO

Il mito di Orfeo ed Euridice è una delle storie più affascinanti e struggenti della mitologia greca, spesso interpretata come una riflessione sull’amore, la perdita e l’impossibilità di sfuggire al destino. Orfeo, figlio della musa Calliope e del re tracio Eagro (secondo altre versioni, del dio Apollo), era un poeta e musicista di straordinario talento. Con la sua lira, donatagli proprio da Apollo, era in grado di incantare animali, piante e persino pietre con la bellezza della sua musica.

La sua amata Euridice, una ninfa, morì tragicamente poco dopo il loro matrimonio, morsa da un serpente mentre fuggiva dalle avances di Aristeo. Disperato, Orfeo decise di scendere negli Inferi per riportarla nel mondo dei vivi, compiendo un’impresa che nessun mortale aveva mai osato tentare.

Grazie alla sua musica, Orfeo riuscì a commuovere le divinità dell’oltretomba: Ade e Persefone gli concessero il permesso di riportare Euridice sulla Terra, ma a una condizione severa. Durante il cammino di ritorno, Orfeo non doveva voltarsi a guardare Euridice fino a quando non fossero completamente usciti dagli Inferi. Col cuore colmo di speranza, Orfeo iniziò il difficile viaggio, ma, proprio quando stavano per raggiungere la superficie, il dubbio e la paura presero il sopravvento: temendo di essere stato ingannato e che Euridice non lo stesse seguendo, si voltò per guardarla. In quell’istante, la ninfa fu risucchiata indietro nel regno dei morti, questa volta per sempre.

Il mito si conclude con un Orfeo inconsolabile, incapace di vivere senza la sua amata. Nelle versioni più antiche della storia, si narra che Orfeo, incapace di amare di nuovo, venne dilaniato dalle Menadi, le seguaci di Dioniso, arrabbiate per il suo rifiuto di onorare il dio e per il suo distacco dal mondo.

Il mito di Orfeo ed Euridice è stato interpretato in vari modi nel corso dei secoli. Alcuni lo vedono come una metafora dell’amore impossibile, altri come un commento sulla fragilità dell’essere umano di fronte alla potenza del fato. La musica di Orfeo, che supera i confini della vita e della morte, è stata spesso vista come un simbolo dell’arte stessa, capace di toccare l’animo umano nei suoi aspetti più profondi e misteriosi.

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IL MITO RACCONTATO DA VIRGILIO

Nelle Georgiche, Virgilio racconta il viaggio di Orfeo negli Inferi per recuperare Euridice, che è stata morsa da un serpente e portata nel regno dei morti. Come nel racconto più noto, Orfeo riesce a commuovere Plutone e Proserpina con la sua musica, ottenendo il permesso di riportarla indietro, a patto che non si volti a guardarla finché non saranno usciti dall’Ade. Tuttavia, Orfeo infrange questa condizione e perde Euridice per sempre.

* * *

Nel brano che segue, siamo di fronte al drammatico epilogo del mito di Orfeo ed Euridice. La storia si concentra sul momento in cui Orfeo, dopo aver ottenuto il permesso di riportare Euridice dal regno dei morti, sta per compiere il suo ritorno verso la luce del mondo dei vivi. Le condizioni poste per riavere Euridice sono semplici: durante tutto il tragitto Orfeo non deve mai voltarsi a guardarla.

Mentre sono in cammino, con Euridice che lo segue da vicino, qualcosa lo assale. Orfeo, quasi vinto da un’irresistibile ansia e amore, si volta verso la sua amata proprio quando sono a un passo dalla salvezza. Ecco che si infrange la legge “del duro tiranno” Plutone, signore dell’Ade. Euridice si accorge subito della follia del suo sposo e, con dolcezza, lo rimprovera. Dice che ormai il “fato avverso” la sta richiamando, e che il sonno della morte la trascina di nuovo nelle tenebre. Nel momento in cui tende le mani verso di lui, svanisce come fumo nell’aria, lasciando Orfeo con la disperazione di non poterla più raggiungere. Il traghettatore dell’Ade non gli concede più il passaggio, e lui resta impotente davanti all’acqua dell’Inferno, con la consapevolezza di averla persa per sempre.

Orfeo si abbandona a un dolore inconsolabile, simile a quello di un usignolo che piange i suoi piccoli strappati da un crudele aratore. Per mesi, sette lunghi mesi, Orfeo vaga, senza pace, lungo le rive del fiume Strimone, in un paesaggio desolato. Le sue sofferenze arrivano a tal punto che persino le tigri e gli alberi sembrano commuoversi al suono del suo canto.

Il dolore di Orfeo, tuttavia, non si placa e lo spinge a vagare per terre sempre più lontane, persino verso i freddi ghiacci boreali. Orfeo continua a lamentarsi, invocando invano Euridice e maledicendo il suo destino.

Il mito termina con un ulteriore tragico epilogo: le donne dei Ciconi, risentite dal rifiuto di Orfeo verso l’amore e la vita, lo fanno a pezzi durante i riti di Bacco. Anche la sua testa, staccata dal corpo, continua a chiamare Euridice, persino mentre viene portata via dal fiume Ebro. Persino le rive del fiume ripetono il nome della sfortunata Euridice, risuonando in un’eco perpetua di dolore.

* * *

E subito dal più profondo Erebo, commosse dal canto,
ombre venivano leggere e parvenze di morti:
a migliaia, quasi stormi di uccelli che si posano
tra le foglie, quando la sera o l’aspra pioggia d’inverno
li caccia giù dai monti; donne e uomini, e corpi475
di magnanimi eroi morti, e fanciulli e fanciulle,
e giovani arsi sul rogo davanti ai genitori.
E ora il fango nero e la squallida canna del Cocito,
e la palude lurida con la sua acqua pigra
li stringe d’intorno, e lo Stige con nove giri li rinserra.480
Stupirono le case di Lete e i luoghi più remoti
del Tartaro, e le Eumenidi dai capelli azzurri di serpi;
e Cerbero restò muto con le tre bocche aperte,
e la ruota d’Issione si fermò insieme al vento.
E già Orfeo tornava, vinto ogni pericolo,485
ed Euridice veniva verso la luce del cielo
seguendolo alle spalle (così impose Proserpina),
quando una follia improvvisa lo travolse,
da perdonare, certo, se i Mani sapessero perdonare.
Orfeo già presso la luce, vinto d’amore,490
la sua Euridice si voltò a guardare.
Così fu rotta la legge del duro tiranno,
e tre volte un fragore s’udì per le paludi d’Averno.
“Quale follia” ella disse, “rovinò me infelice,
te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,495
e il sonno della morte mi chiude gli occhi confusi.
E ora, addio: sono trascinata dentro profonda notte,
e non più tua, tendo a te le mani inerti.”
Disse; e d’improvviso svanì come fumo nell’aria
leggera, e non vide più lui che molte cose500
voleva dirle e che invano abbracciava le ombre;
ma chi traghetta le acque dell’Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.
Che poteva egli fare? Dove andare ora che la sposa
gli veniva tolta ancora con violenza? Con quale505
pianto impietosire i Mani, con quale canto i numi?
Ormai fredda, navigava nella barca dello Stige.
Dicono che Orfeo pianse, per sette mesi, senza quiete
sotto un’alta rupe in riva al deserto Strimone,
e che narrò le sue pene dentro gelidi antri,510
facendo mansuete le tigri,
e traendosi dietro le querce col canto.
Così dolente usignolo tra le foglie di un pioppo
lamenta i figli perduti, che crudele aratore
tolse dal nido, ancora senza piume; e piange515
più la notte, e ripete da un ramo il canto desolato,
e le valli riempie di melanconici richiami.
Nessun amore, nessuna lusinga di nozze,
persuase l’animo d’Orfeo. E andò per i ghiacci boreali.
Per il Tànai nevoso e le terre dei Rifèi520
sempre coperte di gelo, lamentando Euridice
e l’inutile dono di Dite. E le donne dei Ciconi,
sdegnate per l’amore respinto,
nelle orge notturne, durante i riti di Bacco,
dispersero per i campi le sue membra dilaniate.525
Anche quando il capo, staccato dal candido collo,
l’Ebro Eagrio portava travolgendolo nei gorghi,
la voce, e la lingua ormai gelida: “Euridice”,
chiamava mentre l’anima fuggiva: “O misera Euridice”.
“Euridice”, ripetevano le rive lungo il fiume.530

Virgilio, Georgiche, Libro IV, vv. 471-530

Traduzione di Salvatore Quasimodo, in Poesie. Discorsi sulla Poesia, Mondadori, 1989

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NOTE

471. Erebo: Nella mitologia greca, Erebo è una delle divinità primordiali e rappresenta l’oscurità. Qui indica la profondità dell’oltretomba, da cui emergono le anime dei defunti.

472. Ombre: Le anime dei morti, che qui appaiono quasi come stormi di uccelli, evocano una visione spettrale e malinconica.

478. Squallida canna: Virgilio usa immagini forti di desolazione e decadenza, descrivendo il paesaggio infernale in modo spoglio e tetro.

Cocito: Un fiume dell’Ade, uno dei fiumi infernali, spesso descritto come un corso d’acqua triste e melmoso. Il suo nome deriva dal greco “kòkitos,” che significa “lamento”.

480. Stige: Nella mitologia greca e romana, lo Stige è uno dei cinque fiumi che circondano l’Ade, il regno dei morti. È spesso descritto come un fiume oscuro e maledetto, che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Il fiume è associato a giuramenti inviolabili, poiché gli dèi stessi dovevano giurare sullo Stige, pena terribili conseguenze. Qui, Virgilio lo descrive con i “nove giri”, cioè i suoi meandri tortuosi che avvolgono e imprigionano le anime nell’oltretomba, esprimendo la condizione di non ritorno per i defunti, sottolineando la prigionia di Euridice e delle altre anime.

481. Lete: Il fiume dell’oblio nell’Ade. Le anime dei morti che lo attraversano dimenticano la loro vita passata. Qui, “le case di Lete” rappresentano l’idea di dimenticanza eterna.

482. Tartaro: La parte più profonda e oscura degli Inferi, destinata ai grandi peccatori. Virgilio lo descrive come un luogo remoto e lontano dal resto del regno dei morti.

Le Eumenidi, conosciute anche come Erinni nella mitologia greca, erano le dee della vendetta. Queste figure mitologiche erano incaricate di punire i colpevoli di gravi crimini, in particolare l’omicidio dei parenti. Il nome Eumenidi (“le benevole”) è un eufemismo usato per placare la loro ira e non attirarne l’attenzione. In questo verso, Virgilio le descrive con i capelli intrecciati di serpi, una rappresentazione spaventosa e inquietante che sottolinea il loro potere e la loro natura vendicativa. Qui sono presenti nell’Ade, come guardiane o personificazioni della punizione e della sofferenza nel regno dei morti.

486. Luce del cielo: Simbolo del ritorno alla vita. Il percorso di Euridice verso la “luce” rappresenta la sua potenziale resurrezione dal regno dei morti.

487. Proserpina: Nella mitologia romana, Proserpina (l’equivalente di Persefone nella mitologia greca) è la regina degli Inferi e sposa di Plutone (Ade). Nel mito di Orfeo ed Euridice, Proserpina svolge un ruolo importante poiché, commossa dal canto di Orfeo, convince il marito Plutone a permettere a Euridice di tornare nel mondo dei vivi. Tuttavia, è lei a stabilire la condizione che Orfeo non debba mai voltarsi a guardare Euridice durante il loro ritorno. In questo racconto di Virgilio, la sua imposizione diventa la chiave dell’intero dramma: l’amore e l’impazienza di Orfeo lo spingono a infrangere la regola, condannando Euridice a rimanere per sempre nell’Ade. Proserpina, quindi, pur concedendo a Orfeo una possibilità, diventa anche la figura che limita la sua speranza, sottolineando la fragilità del patto tra i vivi e i morti.

492. Duro tiranno: Si riferisce a Plutone (Ade), il dio degli Inferi, che ha imposto la regola severa a Orfeo di non voltarsi verso Euridice. Il suo epiteto qui esprime il carattere spietato della legge che governa l’Ade.

494. Quale follia: Euridice rimprovera Orfeo per la sua impulsività. La “follia” è il momento di debolezza che ha portato Orfeo a voltarsi, causando la perdita definitiva della sua amata.

Rovinò me infelice: Euridice riconosce che il gesto di Orfeo non ha solo condannato lui, ma anche lei, che avrebbe potuto tornare alla vita.

497. Profonda notte: Metafora del ritorno alla morte e alle tenebre eterne dell’Ade.

498. Mani inerti: L’immagine delle mani tese, ma senza forza, simboleggia la totale impotenza di Euridice di fronte al suo destino, impossibilitata a tornare in vita.

502. Chi traghetta… Orco: Questo si riferisce a Caronte, il traghettatore degli Inferi, che trasporta le anime dei morti attraverso il fiume Acheronte (o lo Stige, a seconda delle versioni) per raggiungere il regno dei morti. Caronte, seguendo le leggi dell’Ade, non concede ad Orfeo un secondo passaggio dopo il fallimento della sua missione. Questo verso sottolinea l’inevitabilità della perdita: una volta infranta la condizione di non voltarsi, Orfeo non può più accedere all’oltretomba per riavere Euridice.

506. Nella mitologia romana, i Mani erano gli spiriti dei defunti, venerati come divinità ancestrali. Erano considerati benigni o protettori, ma qui rappresentano le forze oscure del mondo dei morti. Orfeo si chiede con quale canto o preghiera potrebbe mai commuovere questi spiriti per recuperare Euridice, esprimendo la disperazione di fronte alla loro implacabilità. L’invocazione dei Mani è un tentativo ultimo, e vano, di trovare una via per riportare Euridice nel mondo dei vivi.

508. Sette mesi: Il numero sette è spesso simbolico nella mitologia e nella letteratura. Qui indica un periodo prolungato e doloroso di lutto e sofferenza.

509. Strimone: Un fiume della Macedonia (nell’attuale Bulgaria e Grecia), che Virgilio associa al dolore e all’isolamento di Orfeo. Il paesaggio desolato rafforza l’idea del lutto interminabile dell’eroe.

513. Dolente usignolo: L’usignolo è una figura spesso associata al lamento nella poesia classica. Virgilio paragona Orfeo a un usignolo che ha perso i suoi piccoli, evidenziando la disperazione e il dolore insopportabile di un lutto irrecuperabile.

514. Crudele aratore: Qui è il contadino che, senza pietà, strappa i piccoli dal nido, un’immagine che simboleggia la brutalità del destino che ha separato Euridice da Orfeo.

519. Ghiacci boreali: Questa espressione si riferisce alle regioni estremamente settentrionali, spesso immaginate dagli antichi come luoghi inospitali e gelidi, situati ai confini del mondo conosciuto. Virgilio usa questa immagine per descrivere la disperata e solitaria vaganza di Orfeo verso terre lontane, simbolo del suo esilio interiore e del suo allontanamento dal mondo umano dopo la perdita di Euridice. I ghiacci boreali evocano un paesaggio desolato, associato all’idea di isolamento e fredda sofferenza.

520. Il Tánai è l’antico nome del fiume Don, uno dei maggiori fiumi della Russia meridionale. Virgilio lo descrive come un fiume coperto di neve, poiché scorre attraverso regioni settentrionali e fredde. La menzione del Tánai e dei Rifèi (le mitiche montagne sempre coperte di gelo) sottolinea la vastità delle terre in cui Orfeo vaga nella sua disperazione, spingendosi fino agli estremi confini del mondo conosciuto, simbolo della sua inarrestabile e dolorosa ricerca di pace.

522. I Ciconi sono un popolo tracio della mitologia greca, che abitava nella regione vicino al fiume Strimone (oggi nella Grecia settentrionale). Virgilio menziona le donne dei Ciconi come le baccanti che, offese dal rifiuto di Orfeo di continuare a vivere e amare dopo la perdita di Euridice, lo assalgono durante i riti in onore di Bacco (Dioniso). Infuriate per la sua indifferenza all’amore terreno e alla vita, lo fanno a pezzi in un atto di vendetta e furia dionisiaca.

527. Ebro Eagrio: Un fiume della Tracia, presso il quale Orfeo viene fatto a pezzi dalle Baccanti. Anche se Orfeo è morto, il fiume porta via il suo corpo, e la sua testa continua a chiamare Euridice. È un’immagine simbolica dell’ossessione amorosa di Orfeo che persiste oltre la morte.

530. Rive lungo il fiume: Le rive che “ripetono” il nome di Euridice simboleggiano l’eco perpetua del dolore di Orfeo, che sembra risuonare nell’universo, anche dopo la sua morte.

* * *

TEMI PRINCIPALI

1. Amore assoluto

  • Il mito di Orfeo ed Euridice rappresenta un amore così profondo che spinge Orfeo a sfidare la morte stessa per riportare la sua amata Euridice tra i vivi. È il motore dell’intera vicenda e simboleggia il desiderio umano di sconfiggere la perdita e il lutto.

2. Morte improvvisa

  • Euridice muore in modo tragico e improvviso, morsa da un serpente mentre fugge da Aristeo. Questo evento innesca l’intero viaggio di Orfeo e rappresenta l’imprevedibilità della vita e la fragilità dell’esistenza umana.

3. Discesa agli Inferi (Catabasi)

  • Orfeo scende nell’Ade, il regno dei morti, con la speranza di riportare Euridice in vita. Questa discesa simboleggia il tentativo umano di sfidare l’inevitabilità della morte e penetrare nei misteri dell’aldilà. È una delle rappresentazioni più classiche della catabasi, un viaggio eroico nell’oltretomba.

4. Potere della musica

  • Orfeo è un musicista divino, capace di incantare non solo gli esseri umani, ma anche gli dei, gli animali e persino gli elementi della natura. Con il suo canto e la sua lira, riesce a commuovere le divinità dell’Ade (Plutone e Proserpina), ottenendo la possibilità di riportare Euridice tra i vivi. La musica diventa qui simbolo dell’arte che trascende il mondo materiale e ha il potere di influenzare persino le forze cosmiche.

5. Condizione divina (il divieto di voltarsi)

  • Gli dei degli Inferi concedono a Orfeo di riportare Euridice nel mondo dei vivi, ma a una condizione: non deve voltarsi a guardarla finché non saranno completamente fuori dall’Ade. Questo divieto rappresenta il limite umano di fronte alle leggi divine e al destino. Orfeo infrange questa condizione, incapace di trattenere il suo amore e la sua ansia, perdendo così Euridice per sempre.

6. Fallimento e perdita definitiva

  • Il momento cruciale del mito avviene quando Orfeo, ormai quasi fuori dall’Ade, cede alla tentazione di guardare Euridice, infrangendo la promessa e condannandola a rimanere per sempre nel regno dei morti. Questo passaggio simboleggia la fragilità dell’essere umano di fronte al destino e la sua incapacità di controllare completamente le proprie emozioni.

7. Dolore e lutto eterno

  • Dopo aver perso Euridice per la seconda volta, Orfeo cade in un profondo dolore. Si ritira dal mondo, vagando per terre desolate, incapace di accettare la sua perdita. Questo rappresenta il lutto eterno, l’incapacità di lasciar andare l’amato, un tema ricorrente nella letteratura e nel pensiero filosofico.

8. Morte di Orfeo

  • Nella fase finale del mito, Orfeo viene ucciso dalle Baccanti, furiose perché lui rifiuta l’amore e la vita terrena dopo la perdita di Euridice. Questo rappresenta l’opposizione tra la vita e la morte: Orfeo, ormai chiuso nel suo dolore e lontano dall’amore carnale, diventa quasi un fantasma, fino a essere distrutto dalle forze vitali incarnate dalle Baccanti.

9. L’immortalità della memoria (il potere dell’arte)

  • Anche dopo la morte, la voce di Orfeo continua a cantare il nome di Euridice, e la sua lira suona ancora. Questo suggella il concetto che, sebbene la morte sia inevitabile, l’arte, la musica e la memoria di ciò che è amato possono trascendere la morte stessa. L’immortalità, in questo senso, non è fisica, ma spirituale e artistica.

10. L’inevitabilità della morte

  • Il mito sottolinea l’ineluttabilità della morte e la distanza incolmabile tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Anche l’amore più puro e la musica più sublime non possono sovvertire completamente le leggi del destino e della natura.
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