di Carlo Pagetti
Cacciatore di androidi – (Do Androids Dream of Electric Sheep? – Gli androidi sognano le pecore elettriche)? rimanda immediatamente, già nel titolo bizzarro e cifrato, alla struttura ludica e allusiva che è comune a molti romanzi di Philip K. Dick, dove il puzzle, l’indovinello, il gioco condotto su scala cosmica, hanno un rilievo fondamentale, in quel conflitto che oppone l’assoluta arbitrarietà degli eventi ai tentativi di manipolazione a cui essi vengono sottoposti da parte di intelligenze lucide e spietate.
Il romanzo di SF, non più trattato divulgativo e didascalico, ma modello simulato fatto di criptici messaggi e di eterogeneo accumulo di materiali tratti dalla tradizione, è, allora, per Dick, lo strumento capace di smascherare e ricostruire una sezione di quell’insidioso labirinto che è la vita moderna, e quella americana in particolare, dominata dai miti, dalle illusioni, dalle immagini della tecnologia e della scienza.
Cacciatore di androidi non ha avuto l’attenzione critica riservata dagli specialisti di SF ad altre opere di Dick, forse perché appartiene a un periodo, quello della seconda metà degli anni ‘60, in cui lo scrittore californiano accentuò gli elementi fantastici e orrifici rispetto a una più ortodossa matrice fantascientifica, peraltro già messa in crisi dai romanzi pubblicati all’inizio di quel decennio, che costituiscono un corpus di tutto rispetto nell’ambito della narrativa americana contemporanea.
Collocandosi nell’anno cruciale 1968 (che è dunque anche – capovolto – il nostro 1986, con i suoi bombardamenti aerei, le operazioni terroristiche, l’inquinamento radioattivo dell’atmosfera), tra il poco noto Counter-Clock-World e lo straordinario Ubik, Cacciatore di androidi trasforma quasi totalmente il dato scientifico, ripreso da una tradizione che risale almeno al Frankenstein di Mary Shelley, in una scrittura aperta alle pulsioni psichiche, alle tensioni esistenziali, alle immagini apocalittiche.
La stessa cornice della città del futuro, la nuova Metropolis, ma anche il concreto e autobiografico agglomerato di San Francisco, si dissolve sotto il peso dell’angoscia e della solitudine che grava sui suoi abitanti, si frammenta in un processo di inarrestabile degradazione urbanistica, viene inquinata dalla pioggia radioattiva, ereditata da una guerra finale le cui cause nessuno ricorda più.
Elaborati aggeggi domestici e macchine volanti divengono residui di un benessere tecnologico ormai fine a se stesso, sovrastato dalla presenza di creature che sono morti-viventi (in Counter-Clock-World e in Ubik i morti potranno addirittura tornare in vita), corpi fatti di carne e di ossa, ma anche di tessuti artificiali, menti malate e incapaci di amare, alla ricerca di una identità perduta per sempre.
L’avanzata di un caos onnivoro e primordiale – il kipple che, come una bestia da preda, si annida nelle case fatiscenti, nei condominii semi-abbandonati, – aggredisce non solo le cellule viventi, ma anche il linguaggio. La lotta dei personaggi, in cui lo scrittore, in qualche modo, si riconosce, è volta anche a recuperare qualche frammento semantico, attraverso cui esprimere i sentimenti e i sogni divorati dal tempo.
Nel grandioso contenitore apocalittico della città del futuro, che non è, semplicisticamente, come in molta cultura del «giorno dopo», un informe ammasso di rovine, ma è, appunto, un organismo vivente proliferante come un tumore maligno, Dick colloca la storia di una giornata straordinaria. Nell’arco di una dozzina di ore, dal risveglio mattutino al momento in cui il protagonista si addormenta, ha luogo un incredibile numero di eventi. Rick Deckard, «bounty killer» del 2000, ha incontrato il terrore e la morte, l’amore e il successo, ma soprattutto si è dovuto misurare con un’ambigua immagine speculare che ha messo in discussione la sua stessa identità. Egli, nello stesso tempo carnefice e vittima, predatore e preda, alla ricerca di una pace spirituale e di una felicità impossibile in mezzo ai simulacri artificiali prodotti dalla televisione o da una mistica scatola magica, ha visto nei terrificanti Nexus-6, gli androidi più ‘umani’ degli esseri umani, il suo destino, riflesso in uno specchio ambiguo, dove verità e finzione non possono essere più separate.
L’impossibilità di distinguere tra uomini ‘veri’ e ‘falsi’, anzi, la superiorità non solo intellettuale e fisica, ma addirittura etico-morale, degli androidi, sono i motivi poi ampiamente sviluppati in Blade Runner, il film di Ridley Scott, che, all’inizio degli anni ‘80, ha dato indiretta fama a Dick, essendo, tra l’altro, ispirato probabilmente anche da altre opere dello scrittore californiano. (Oreste del Buono, ad esempio, ha colto nei frequenti riferimenti al carattere etnico misto e orientaleggiante della San Francisco del film la presenza anche della Storia ‘alternativa’ di The Man in the High Castle, ovvero La svastica sul sole).
Sarebbe assurdo ignorare il film di Scott che, nella sua libertà espressiva, valorizza alcuni aspetti del romanzo dickiano – ma sarebbe anche sbagliato condurre una riflessione critica sulla base esclusiva di un puntiglioso confronto. Romanzo e film sono due creazioni autonome, divise, oltre che dall’uso di codici formali differenti, da una serie di soluzioni ideologiche.
Se nel romanzo d Dick manca la grandiosità degli spazi aperti rivelati da bagliori di luce e di fiamma nel film di Scott, in Dick è assente anche quella dimensione romantica che permette al regista inglese di far fiorire la storia d’amore tra il protagonista e l’androide Rachel Tyrell. Né sarebbe stato possibile, per Dick, la glorificazione del terrificante duello finale che oppone, nel film, Rick Deckard, sotto le sembianze di un melanconico Harrison Ford (a sua volta, nel gioco delle mediazioni culturali, controfigura di Humphrey Bogart e di altri ‘detective’ americani degli anni ’30-‘40), al superman luciferino costruito con efficacia iperrealistica da Rutger Hauer. Crudeli e mediocri sono gli androidi di Dick, non dissimili dai loro avversari ‘umani’, e comunque privi, salvo in qualche guizzo di angoscia, di qualunque proiezione tragica.
Si noti, per inciso, tra le tante trasformazioni che riguardano anche, nel passaggio dal romanzo al film, i nomi dei personaggi, che il Roy Baty di Dick è diventato il Roy Batty di Scott – da re-pipistrello a re-folle, con uno spostamento assai significativo di prospettive simboliche.
Infatti, i replicanti di Ridley Scott sono, sostanzialmente, angeli caduti, creature allucinate degne di pietà e di commiserazione, perché umanamente presi dal desiderio di prolungare il loro periodo di vita, limitato a quattro anni (un motivo, questo, appena accennato nel romanzo di Dick). In Cacciatore di androidi l’angoscia esistenziale di Rick/Dick rinvia più che altro a un suo disperato bisogno di amore, che si proietta spasmodicamente all’esterno e investe anche il mondo artificiale in cui egli è immerso: dagli animali-robot che ‘fingono’, per volontà dei loro padroni, di essere ‘autentici’, costituendo un prezioso status-symbol, agli androidi stessi verso cui il protagonista, dapprima indifferente, dirige emozioni e inquietudini.
Ma non v’è dubbio che gli androidi di Dick siano esseri spietati che hanno penetrato il mondo dell’uomo per sradicarne qualsiasi sentimento e passione, per cancellare quella empathy (partecipazione emotiva alla vita degli altri) che essi non possono provare. La ferocia gratuita degli androidi si esplica proprio nei confronti del mondo animale e non è giustificata neppure in termini di sopravvivenza. Anche la rivelazione che le visioni mistiche di Mercer sono pura finzione, operata dallo showman televisivo Buster Friendly, è fatta per uccidere qualsiasi possibilità di speranza. Del resto, appunto, Buster Friendly ‘smaschera’ Mercer ‘mascherando’ se stesso da essere umano: anch’egli è un androide.
A sua volta, Luba Luft, la cantante lirica androide, imita così bene gli esseri umani da identificarsi pienamente con essi, mentre vede in tutti gli esseri umani ‘veri’ niente altro che androidi. I confini tra organico e inorganico si fanno sempre più sottili e più incerti, e, in qualche caso, come in Blade Runner, la realtà umana appare ancora più degradata e bestiale di quella androide. Si pensi, ad esempio, alla scena comico-grottesca in cui il semideficiente Isidore porta al laboratorio del suo «tetro gotico padrone» Hannibal Sloat la carcassa di un gatto ‘vero’, credendo che sia un robot, suscitandone la collera. Ai due si unisce un altro ‘tecnico’: gli insulti che i tre si scambiano, come i personaggi clowneschi di un’opera di Beckett (e, ovviamente, soprattutto Endgame torna alla mente), mettono in rilievo la decadenza fisica e mentale di ognuno, gli effetti devastanti di una contaminazione radioattiva che è anche degradazione morale.
Il mondo dell’uomo del futuro e della sua massima espressione tecnologica – la città – è stato, dunque, invaso dalla presenza fredda e terribile delle creature artificiali: Palmer Eldtrich o i nazisti de La svastica sul sole sono già arrivati. Non rimane che prenderne atto, accettarne la presenza – come fa Rick Deckard alla fine del romanzo di Dick – con la piena consapevolezza che la trama degli eventi e dei sentimenti sfugge totalmente al controllo della ragione. E, tuttavia, amare è ancora possibile.
Nessun atto di sublime generosità troveremo in Dick, come quello che chiude il lungo duello tra Rick-Harrison Ford e Roy Batty in Blade Runner, e allude a una sorta di eroica redenzione dell’umanità, mentre il paesaggio naturale che sembra concludere il film con la fuga romantica e disperata di Rick e di Rachel non trova riscontro nella regione infernale dell’Oregon, luogo di sofferenza e di una resurrezione nuovamente fittizia (anche il rospo di Mercer è un robot), dove si avventura Rick/Dick prima di tornare a casa.
Nulla di mai degradante vi è nel rapporto sentimentale tra Rick-Harrison Ford e la Rachel di Scott, interpretata dalla dolcissima Sean Young. In Cacciatore di androidi il rapporto tra Rick e Rachel Rosen ha una cruda evidenza fisica, si consuma in una squallida stanza d’albergo e viene vissuto dai due personaggi con un calcolo cinico e come una prova di forza da cui l’androide uscirà vittoriosa. Rick non riuscirà più a ucciderla, mentre Rachel, con uno spirito di pura vendetta che sembra, paradossalmente, essere il suo lato più umano, gli uccide deliberatamente la capra ‘vera’ (animale sacro e indifeso), comprata da Rick con i soldi delle taglie. Solo parzialmente, insomma, si possono applicare al romanzo le parole con cui Dick commentò, poco prima di morire, all’inizio dell’82, «il tema principale» di Blade Runner: «Nel combattere il male, si può diventare malvagi. Deckard deve fare tante cose terribili per cacciare e uccidere i replicanti che egli diviene sempre più disumanizzato mentre i replicanti diventano sempre più umani». È da ricordare, comunque, che in una delle prime stesure della sceneggiatura del film, anche Rick era un replicante. Nella relazione a un Convegno sulla fantascienza del ‘76, intitolata significativamente «Man, Android and Machine», e scritta solo un paio di anni prima della pubblicazione di Do Androids Dream of Electric Sheep?, Dick aveva, invece, parlato degli androidi come di «entità crudeli che sorridono mentre si accingono a stringere la mano, ma la loro stretta è la morsa della morte, e il loro sorriso ha la freddezza della tomba».
Essi sono, dunque, nel romanzo dickiano, i rappresentanti di quel «mondo tombale» (tomb world) da cui il mistico personaggio di Wilbur Mercer cerca di risollevare, ripercorrendo nell’eternità di un nastro registrato il suo calvario, l’umanità derelitta.
Non a caso, accanto agli androidi e agli esseri umani, almeno apparentemente ‘normali’ come Rick Deckard, Dick ha collocato, in una posizione cruciale, il personaggio dell’idiota Isidore, che ospita e giunge perfino ad amare gli androidi. Anche quando essi gli rivelano la loro spietata ferocia, Isidore non diventa come loro, trova rifugio nella mistica sofferenza predicata da Wilbur Mercer, il cui messaggio rimane ‘vero’ anche se il predicatore è un attore hollywoodiano, e ribadisce il positivo valore di un amore che non nasce più da una lucida valutazione della realtà, ma da un istintivo, quasi infantile bisogno di comunicare e di aiutare il prossimo. Il ruolo di Isidore, che in Blade Runner è coperto da Sebastian, un personaggio rovinato nel fisico, non nella mente, sembra, d’altra parte, l’unico che riflette la possibilità di un’esistenza al di fuori dei meccanismi implacabili della finzione. Se lo stesso Rick/Dick diventa, in alcuni momenti, anch’egli un androide e ‘genera’ un alter-ego speculare nel «bounty killer» Phil Resch, che ha tutte le caratteristiche di un androide e, invece, è un essere umano (ma, appunto, come distinguere, ormai, le due condizioni esistenziali?), Isidore è l’unico personaggio a non essere sicuramente un androide, un simulacro, un’entità meccanica. Nella sua degradata e disperata solitudine, nel suo esplicito desiderio di amicizia, si nasconde, paradossalmente, l’ultima difesa dell’uomo. D’altra parte, come raramente è dato di incontrare in alcuni romanzi di Dick, e ancora più raramente nella SF, Do Androids Dream of Electric Sheep? si pone quale angosciosa ma insistente ricerca di amore. Il «quest» di Rick, che si aggira nella città per compiere il suo lavoro di assassino, è il tentativo di trovare segnali di amore in mezzo alle aride rovine del futuro. Se il suo risveglio avviene in una camera da letto quasi estranea, non più luogo che sprigiona calore fisico e spirituale, egli tenterà ancora di avvicinare la moglie (e ne sarà subito respinto), cercherà di procurarsi un animale vivente, sentirà pietà per gli androidi che vogliono ucciderlo, proverà ad amare una di loro, incontrerà nella landa desolata Wilbur Mercer, troverà un rospo vivente. Per scoprire, appunto, una volta tornato a casa, che anche quella creatura è artificiale. Ma la moglie non rifiuterà più la sua carezza. Rick/Dick ha incontrato Rachel Roseti e Phil Resch, ma anche Isidore e Wilbur Mercer. La lunga giornata è finita. La vita continua.
Certo, l’universo della finzione, che è la sostanza stessa dì una narrativa che esplicitamente rivela e denuncia, come più volte ha sottolineato, la propria artificialità di prodotto anch’esso manipolato dalle leggi del consumo e dell’economia di massa, proclama, in tutto il romanzo, la propria invincibile forza. Buster Friendly e Wilbur Mercer, che gli uomini del futuro adorano come entità sovrannaturali, rinviano a una trasmissione televisiva gestita da un androide e a un nastro registrato interpretato da un vecchio attore. Televisione, cinema, teatro appaiono in Cacciatore di androidi come momenti di uno spettacolo in cui la cultura di massa celebra i suoi riti artificiali. Tutto può essere duplicato, da una creatura vivente a una stazione di polizia. Anche i mondi planetari dove l’umanità dovrebbe emigrare per iniziare una nuova vita, sono artificiali. Analizzando la figura del cyborg in un suo brillante saggio dal titolo omonimo, Antonio Caronia ha osservato che esso, lungi dall’essere solo «una mostruosità organica», rappresenta «l’insieme dei processi organici che avvengono al confine (all’«interfaccia») tra l’uomo e la macchina: è già una nostra esperienza quotidiana, qualcosa che ci cambia molecolarmente, giorno per giorno».
L’attenzione ai processi linguistici, che è uno dei dati più interessanti della narrativa di Dick, è elemento fondamentale anche in Cacciatore di androidi. Non a caso il test che dovrebbe distinguere gli androidi dagli uomini ‘veri’ è sì basato sul rilevamento delle emozioni, ma implica anche una manipolazione del linguaggio, un’analisi dei meccanismi verbali e delle relazioni intertestuali. È in questo modo che Luba Luft, che finge di non conoscere bene l’inglese (o forse non lo conosce bene davvero), sfugge alle insidie del test. Il test si risolve, insomma, in un duello verbale altrettanto insidioso dei combattimenti con la pistola-laser, capace di ridefinire la realtà e di misurare lo squallore e la povertà semantica di un mondo dove la natura è stata distrutta.
In questo senso, esemplari sono il quarto e il quinto capitolo di Cacciatore di androidi: il test che Rick applica a Rachel, in presenza del vecchio Eldon Rosen, diviene, secondo quel meccanismo di rovesciamento che è di tutti i romanzi dickiani della fine degli anni ‘60, una complicata prova a cui lo stesso cacciatore viene sottoposto. Se Rachel è prima una ragazza ‘normale’, poi un’androide, poi ancora un essere umano dalla psicologia schizofrenica, infine nuovamente un’androide, Rick è l’investigatore mistificato e manipolato, mentre il vecchio Rosen, che sovrintende al rito, si pone come un’ambigua divinità capace di modificare la realtà a suo piacimento. Questo, di fatto, è stato compiuto con l’introduzione dei Nexus-6. Un’entità nuova e terribile, che riformula lo stesso concetto di umanità, è stata creata. L’incontro con Rachel è per Rick/Dick la scoperta di un novum non più definibile secondo i parametri del linguaggio tradizionale.
Negli stessi termini, a confronto con la narrativa tradizionale – e con la narrativa ‘mainstream’ –, si pone la science-fiction di Dick. Lo sforzo di ristrutturare formule e convenzioni, compiuto da Dick nell’arco degli anni ‘60, non porta questo scrittore a cercare esplicitamente forme di convergenza con linee narrative ‘maggiori’, anch’esse in ebollizione sotto l’impatto di una realtà culturale e storica, che Dick pure conosceva bene, dal punto di vista privilegiato della California di Reagan, degli hippies, delle proteste studentesche contro la guerra del Vietnam.
Mentre Vonnegut contribuiva a dar vita, con estrema abilità e qualche tocco di autobiografismo esibizionistico, al romanzo post-moderno, Dick preferiva scavare all’interno dei meccanismi specialistici della science-fiction, divenuta romanzo che parla di sé, rivisita i propri materiali, li riaggrega non con un’opera di rimozione, ma, appunto, per accumulo, esattamente come avviene nella San Francisco di Dick e di Ridley Scott. Del resto, gli androidi di Dick non leggono, sulle colonie dove erano stati mandati, romanzi di viaggi spaziali? La fantascienza è la letteratura di quei ‘nuovi mutanti’ di cui già parlava Leslie Fiedler negli anni ‘60 .
Si noti come in Do Androids Dream of electric Sheep? Dick attinga alle più svariate convenzioni della letteratura ‘formulaica’, sia essa dell’orrore e del mito faustiano – da Frankenstein in avanti – o «detective», «western» 0 fantascientifica. Ma non si possono non cogliere anche i riferimenti alla cultura ‘alta’ dal Flauto Magico di Mozart alla Waste Land di Eliot, fino a Beckett.
L’emergenza di una nuova forma mutante di cultura – simile, in qualche modo, a quella prodotta tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 dai scientific romances di Wells – è il significativo contributo di Dick al dibattito contemporaneo. L’obiettivo di fondo rimane quello di sondare e rappresentare la percezione della realtà da parte dell’uomo moderno, perduto nel labirinto dei segnali elettronici e dei simulacri tecnologici. Possiamo benissimo rifiutare questo discorso, come possiamo preferire un cielo limpido e pulito a un’atmosfera radioattiva. Possiamo anche vivere di false memorie. Come gli androidi di Dick e di Ridley Scott, appunto.
Androidi, simulacri, piogge radioattive fanno, però, parte della nostra realtà. Il 1968 di Dick è il nostro 1986 è il 1992 di Do Androids Dream of Electric Sheep? è il 2020 di Blade Runner.
Anche noi, volenti o nolenti, siamo abitanti di San Francisco.
Fonte: Philip K. Dick, Cacciatore di androidi, collana Cosmo Oro n° 78, Editrice Nord, giugno 1986, pp. 232