La speranza e l’assurdo nell’opera di Franz Kafka

Il saggio di Camus su Kafka esplora l'assurdo nella sua opera, evidenziando il conflitto tra logica e speranza, e l'eterna ricerca di grazia in un mondo alienante.

Nel saggio di Camus su Kafka, l’autore esplora il concetto dell’assurdo nell’opera dello scrittore ceco, evidenziando come i suoi personaggi vivano in un mondo privo di senso, intrappolati in situazioni incomprensibili e senza risoluzione. Kafka rappresenta l’assurdità dell’esistenza attraverso il contrasto tra il desiderio umano di significato e la fredda indifferenza dell’universo. Camus sottolinea come Kafka esprima l’assurdo attraverso la logica e il quotidiano, trasformando gesti e situazioni normali in paradossi. Sebbene i personaggi kafkiani siano condannati a vivere in un mondo alienante, essi mantengono una forma di speranza, seppur vaga, rappresentando una ribellione silenziosa contro l’assurdità della vita.

* * *

Lo studio su Franz Kafka è stato sostituito nella prima edizione de Il mito di Sisifo dal capitolo su Dostoevskij e il suicidio. Tuttavia, esso è stato pubblicato dalla rivista L’Arbalète nel 1943.

In questo studio si ritroverà, da una prospettiva diversa, la critica della creazione assurda che le pagine su Dostoevskij avevano già avviato. (Nota dell’editore.)

* * *

di Albert Camus

Tutta l’arte di Kafka obbliga il lettore a rileggere. I suoi finali, o le sue assenze di finali, suggeriscono spiegazioni che però non sono rivelate esplicitamente e richiedono, per risultare fondate, che la storia venga riletta sotto una nuova angolazione. Talvolta è possibile una doppia interpretazione, il che rende necessarie due letture. Questo era esattamente ciò che l’autore cercava. Ma sarebbe un errore voler interpretare ogni dettaglio nell’opera di Kafka. Un simbolo si trova sempre nell’universale e, per quanto precisa possa essere la sua traduzione, un artista può restituirne solo il movimento: non esiste una corrispondenza parola per parola. Inoltre, nulla è più difficile da comprendere di un’opera simbolica. Un simbolo supera sempre colui che lo utilizza e lo fa esprimere più di quanto egli sia consapevole di dire. In questo senso, il modo più sicuro per coglierlo è non provocarlo, approcciare l’opera con uno spirito aperto e non cercare i suoi flussi segreti. Per Kafka, in particolare, è corretto accettare il suo gioco, affrontare il dramma attraverso l’apparenza e il romanzo attraverso la forma.

A prima vista, e per un lettore distaccato, si tratta di avventure inquietanti, che travolgono personaggi tremanti e ostinati nella loro ricerca di problemi che non formulano mai. Ne Il processo, Joseph K… è accusato. Ma non sa di cosa. Sicuramente vuole difendersi, ma ignora il perché. Gli avvocati trovano la sua causa difficile. Nel frattempo, non trascura di amare, di nutrirsi o di leggere il suo giornale. Poi viene giudicato. Ma la sala del tribunale è molto buia. Capisce ben poco. Suppone soltanto di essere stato condannato, ma a cosa, si chiede appena. A volte ne dubita anche e continua a vivere. Molto tempo dopo, due signori ben vestiti e cortesi vengono a trovarlo e lo invitano a seguirli. Con la massima cortesia, lo conducono in una periferia desolata, gli appoggiano la testa su una pietra e lo sgozzano. Prima di morire, il condannato dice solo: “come un cane”.

Si vede che è difficile parlare di simbolo in un racconto in cui la qualità più evidente è proprio la naturalezza. Ma la naturalezza è una categoria difficile da comprendere. Ci sono opere in cui l’evento sembra naturale al lettore. Ma ne esistono altre (più rare, in verità) in cui è il personaggio a trovare naturale ciò che gli accade. Per un paradosso singolare ma evidente, più le avventure del personaggio sono straordinarie, più la naturalezza del racconto diventa percepibile: essa è proporzionale alla distanza che si avverte tra l’estraneità di una vita umana e la semplicità con cui quell’uomo la accetta. Sembra che questa naturalezza sia quella di Kafka. E proprio qui si coglie ciò che Il processo vuole dire. Si è parlato di un’immagine della condizione umana. Senza dubbio. Ma è al contempo più semplice e più complicato. Intendo dire che il senso del romanzo è più particolare e più personale a Kafka. In una certa misura, è lui che parla, sebbene ci stia confessando. Vive ed è condannato. Lo apprende dalle prime pagine del romanzo che prosegue in questo mondo e, se cerca di rimediare, lo fa comunque senza sorpresa. Non si stupirà mai abbastanza di questa mancanza di stupore. È in queste contraddizioni che si riconoscono i primi segni dell’opera assurda. Lo spirito proietta nel concreto la sua tragedia spirituale. E può farlo solo attraverso un paradosso perpetuo che conferisce ai colori il potere di esprimere il vuoto e ai gesti quotidiani la forza di tradurre ambizioni eterne.

Allo stesso modo, Il castello è forse una teologia in atto, ma è prima di tutto l’avventura individuale di un’anima in cerca della sua grazia, di un uomo che chiede agli oggetti di questo mondo il loro segreto regale e alle donne i segni del dio che dorme in esse. La metamorfosi, a sua volta, rappresenta certamente l’orribile immaginario di un’etica della lucidità. Ma è anche il prodotto di quello stupore incalcolabile che prova l’uomo nel sentire la bestia che diventa senza sforzo. È in questa ambiguità fondamentale che risiede il segreto di Kafka. Questi continui oscillamenti tra il naturale e lo straordinario, l’individuo e l’universale, il tragico e il quotidiano, l’assurdo e il logico, attraversano tutta la sua opera e le conferiscono allo stesso tempo la sua risonanza e il suo significato. Sono questi paradossi che bisogna elencare, queste contraddizioni che bisogna accentuare, per comprendere l’opera assurda.

Un simbolo, infatti, presuppone due piani, due mondi di idee e sensazioni, e un dizionario di corrispondenze tra l’uno e l’altro. È questo lessico che è più difficile da stabilire. Ma prendere coscienza dei due mondi messi a confronto significa porsi sulla strada delle loro relazioni segrete. In Kafka, questi due mondi sono quello della vita quotidiana, da una parte, e quello dell’inquietudine soprannaturale, dall’altra [1]. Sembra che qui si assista a un’incessante esplorazione dell’aforisma di Nietzsche: “I grandi problemi sono nelle strade”.

Nella condizione umana, come luogo comune di tutte le letterature, c’è una fondamentale assurdità insieme a una implacabile grandezza. Le due coincidono, com’è naturale. Entrambe si manifestano, lo ripetiamo, nella ridicola separazione tra le nostre intemperanze dell’anima e le gioie periture del corpo. L’assurdo è che sia l’anima di questo corpo a trascenderlo così smisuratamente. Per chi voglia rappresentare quest’assurdità, è necessario darle vita in un gioco di contrasti paralleli. Così Kafka esprime la tragedia attraverso il quotidiano e l’assurdo attraverso il logico.

Un attore presta tanto più vigore a un personaggio tragico quanto più evita di esagerarlo. Se è misurato, l’orrore che suscita sarà smisurato. La tragedia greca, da questo punto di vista, è ricca di insegnamenti. In un’opera tragica, il destino si percepisce meglio attraverso i volti della logica e della naturalezza. Il destino di Edipo è annunciato in anticipo. È deciso in modo soprannaturale che commetterà omicidio e incesto. L’intero sforzo del dramma è dimostrare il sistema logico che, di deduzione in deduzione, consuma la sventura dell’eroe. Annunciarci solo questo destino inusitato non è molto terribile, perché è inverosimile. Ma se la necessità ci viene dimostrata nel contesto della vita quotidiana, della società, dello stato, delle emozioni familiari, allora l’orrore si consacra. In questa ribellione che scuote l’uomo e lo fa esclamare: “Non è possibile”, c’è già la certezza disperata che “questo” è possibile.

Questo è tutto il segreto della tragedia greca o almeno di uno dei suoi aspetti. Perché ce n’è un altro che, con un metodo inverso, ci permetterebbe di comprendere meglio Kafka. Il cuore umano ha la tendenza sfortunata a chiamare destino solo ciò che lo schiaccia. Ma anche la felicità, a modo suo, è senza ragione, poiché è inevitabile. L’uomo moderno, tuttavia, se ne attribuisce il merito, quando non lo ignora del tutto. Ci sarebbe molto da dire, al contrario, sui destini privilegiati della tragedia greca e sui favoriti della leggenda che, come Ulisse, in mezzo alle peggiori avventure, si salvano da se stessi.

Ciò che bisogna ricordare, in ogni caso, è questa segreta complicità che, nel tragico, unisce la logica e il quotidiano. Ecco perché Samsa, il protagonista de La metamorfosi, è un commesso viaggiatore. Ecco perché l’unica cosa che lo preoccupa nella singolare avventura che lo trasforma in una sorta di insetto è che il suo datore di lavoro si arrabbierà per la sua assenza. Gli crescono zampe e antenne, la sua schiena si inarca, macchie bianche costellano il suo ventre e – non dirò che questo non lo sorprende, l’effetto sarebbe annullato – ma gli provoca un “leggero fastidio”. Tutta l’arte di Kafka è in questa sfumatura. Nel suo romanzo centrale, Il castello, sono i dettagli della vita quotidiana a prendere il sopravvento, eppure in questo strano romanzo, dove nulla giunge a una conclusione e tutto si ripete, è rappresentata l’avventura essenziale di un’anima in cerca di grazia. Questa traduzione del problema nell’azione, questa coincidenza tra l’universale e il particolare, si riconosce anche nei piccoli artifici propri di ogni grande creatore. Ne Il processo, il protagonista avrebbe potuto chiamarsi Schmidt o Franz Kafka. Ma si chiama Joseph K… Non è Kafka eppure lo è. È un comune europeo. È come tutti gli altri. Ma è anche l’entità K., che pone l’incognita in questa equazione di carne.

Allo stesso modo, se Kafka vuole esprimere l’assurdo, si servirà della coerenza. Si conosce la storia del folle che pescava in una vasca da bagno; un medico, che aveva le sue teorie sui trattamenti psichiatrici, gli chiese: “Abboccano?” E il folle rispose con logica rigorosa: “Ma no, imbecille, è una vasca da bagno”. Questa storia è del tipo barocco. Ma cogliamo chiaramente come l’effetto assurdo sia legato a un eccesso di logica. Il mondo di Kafka è, in verità, un universo indicibile in cui l’uomo si concede il lusso torturante di pescare in una vasca, sapendo che non ne uscirà nulla.

Riconosco quindi qui un’opera assurda nei suoi principi. Per Il processo, per esempio, posso dire che il successo è totale. La carne trionfa. Non manca nulla, né la rivolta inespressa (ma è proprio questa che scrive), né la disperazione lucida e muta (ma è proprio questa che crea), né quella straordinaria libertà di movimento che i personaggi del romanzo respirano fino alla morte finale.

* * *

Tuttavia, questo mondo non è così chiuso come sembra. In questo universo senza progresso, Kafka introduce la speranza in una forma singolare. A questo proposito, Il processo e Il castello non seguono la stessa direzione. Si completano a vicenda. La progressione impercettibile che si può rilevare dall’uno all’altro rappresenta una conquista smisurata nell’ordine della fuga. Il processo pone un problema che Il castello, in una certa misura, risolve. Il primo descrive, secondo un metodo quasi scientifico, senza concludere. Il secondo, in una certa misura, spiega. Il processo diagnostica e Il castello immagina un trattamento. Ma il rimedio proposto qui non guarisce. Si limita a reintegrare la malattia nella vita normale. Aiuta ad accettarla. In un certo senso (pensiamo a Kierkegaard), ci fa amare la malattia. L’agrimensore K… non può immaginare altra preoccupazione che quella che lo tormenta. Persino coloro che lo circondano si appassionano a questo vuoto e a questo dolore senza nome, come se la sofferenza qui avesse assunto un volto privilegiato. “Ho bisogno di te,” dice Frieda a K… “Come mi sento abbandonata, da quando ti conosco, quando non sei vicino a me.” Questo sottile rimedio, che ci fa amare ciò che ci schiaccia e che fa nascere la speranza in un mondo senza via d’uscita, questo “salto” improvviso per cui tutto cambia, è il segreto della rivoluzione esistenziale e de Il castello stesso.

Poche opere sono più rigorose nel loro sviluppo di Il castello. K… viene nominato agrimensore del castello e arriva nel villaggio. Ma è impossibile comunicare dal villaggio al castello. Per centinaia di pagine, K… insisterà nel cercare il suo cammino, farà tutti i tentativi, ingannerà, prenderà scorciatoie, non si arrabbierà mai e, con una fede disarmante, cercherà di entrare nella funzione che gli è stata assegnata. Ogni capitolo è un fallimento. E anche un nuovo inizio. Non è logica, ma coerenza. L’ampiezza di questa ostinazione conferisce al romanzo il suo tragico. Quando K… telefona al castello, percepisce solo voci confuse e miste, risate vaghe, richiami lontani. Questo è sufficiente per alimentare la sua speranza, come quei segni che appaiono nei cieli estivi, o quelle promesse della sera che danno un senso alla nostra esistenza. Qui si trova il segreto della malinconia tipica di Kafka. La stessa che si respira nell’opera di Proust o nel paesaggio plotiniano: la nostalgia dei paradisi perduti. “Divento tutta malinconica,” dice Olga, “quando Barnabé mi dice al mattino che va al Castello: questo viaggio probabilmente inutile, questa giornata probabilmente persa, questa speranza probabilmente vana.” “Probabilmente”: è su questa sfumatura che Kafka gioca tutta la sua opera. Ma niente cambia, la ricerca dell’eterno è meticolosa. E questi automi ispirati che sono i personaggi di Kafka ci offrono l’immagine stessa di ciò che saremmo, privati dei nostri divertimenti [2] e interamente esposti alle umiliazioni del divino.

Ne Il castello, questa sottomissione al quotidiano diventa un’etica. La grande speranza di K… è di essere accettato dal Castello. Non potendoci arrivare da solo, tutto il suo sforzo è meritare questa grazia diventando un abitante del villaggio, perdendo la qualità di straniero che tutti gli fanno sentire. Ciò che desidera è un mestiere, una casa, una vita normale e sana. Non sopporta più la sua follia. Vuole essere ragionevole. La maledizione particolare che lo rende straniero al villaggio vuole scrollarsela di dosso. L’episodio di Frieda è significativo a questo riguardo. Questa donna, che ha conosciuto uno dei funzionari del Castello, diventa sua amante per via del suo passato. In lei trova qualcosa che lo supera, e al tempo stesso è consapevole di ciò che la rende per sempre indegna del Castello. Qui si pensa all’amore singolare di Kierkegaard per Régine Olsen. In alcuni uomini, il fuoco dell’eternità che li consuma è così grande che brucia anche il cuore di chi li circonda. L’errore fatale di dare a Dio ciò che non appartiene a Dio è anche il tema di questo episodio del Castello. Ma per Kafka, non sembra essere un errore. È una dottrina e un “salto”. Nulla non appartiene a Dio.

Ancora più significativo è il fatto che l’agrimensore si allontani da Frieda per avvicinarsi alle sorelle Barnabé. Perché la famiglia Barnabé è l’unica nel villaggio ad essere completamente abbandonata dal Castello e dal villaggio stesso. Amalia, la sorella maggiore, ha rifiutato le proposte indecenti di uno dei funzionari del Castello. La maledizione immorale che ne è seguita l’ha per sempre esclusa dall’amore di Dio. Essere incapaci di perdere il proprio onore per Dio significa diventare indegni della sua grazia. Qui riconosciamo un tema familiare della filosofia esistenziale: la verità contraria alla morale. Le cose vanno lontano. Perché il cammino che compie il protagonista di Kafka, da Frieda alle sorelle Barnabé, è lo stesso che va dall’amore fiducioso alla divinizzazione dell’assurdo. Anche qui il pensiero di Kafka si avvicina a quello di Kierkegaard. Non è sorprendente che il “racconto Barnabé” si collochi verso la fine del libro. L’ultimo tentativo dell’agrimensore è trovare Dio attraverso ciò che lo nega, riconoscerlo non secondo le nostre categorie di bontà e bellezza, ma dietro i volti vuoti e orribili della sua indifferenza, della sua ingiustizia e del suo odio. Questo straniero che chiede di essere adottato dal Castello, alla fine del suo viaggio è un po’ più esiliato, poiché questa volta è infedele a se stesso, abbandona morale, logica e verità dello spirito per cercare di entrare, ricco solo della sua folle speranza, nel deserto della grazia divina [3].

* * *

La parola “speranza” qui non è ridicola. Più tragica appare la condizione descritta da Kafka, più rigido e provocatorio diventa questo tipo di speranza. Quanto più Il processo è realmente assurdo, tanto più il “salto” esaltato de Il castello appare commovente e illegittimo. Ma qui ritroviamo, allo stato puro, il paradosso del pensiero esistenziale, come lo esprime Kierkegaard, ad esempio: «Bisogna colpire a morte la speranza terrena, solo allora si è salvati dalla vera speranza» [4]. E lo possiamo tradurre così: «Bisogna aver scritto Il processo per intraprendere Il castello».

La maggior parte di coloro che hanno parlato di Kafka ha definito la sua opera come un grido disperato, in cui non rimane alcuna possibilità di salvezza per l’uomo. Ma questo giudizio va rivisto. C’è speranza e speranza. L’opera ottimista di M. Henry Bordeaux mi pare singolarmente scoraggiante. Nulla, infatti, è concesso ai cuori più esigenti. Il pensiero di Malraux, al contrario, è sempre stimolante. Tuttavia, in entrambi i casi non si tratta della stessa speranza né dello stesso disperato. Vedo solo che l’opera assurda stessa può condurre all’infedeltà che voglio evitare. Un’opera che era solo una ripetizione inutile di una condizione sterile, un’esaltazione lucida dell’effimero, qui diventa una culla di illusioni. Spiega, dà una forma alla speranza. Il creatore non può più separarsene. Non è più il gioco tragico che avrebbe dovuto essere. Essa dà un senso alla vita dell’autore.

È singolare, in ogni caso, che opere di ispirazione affine, come quelle di Kafka, Kierkegaard o Chestov, cioè, per dirla semplicemente, quelle dei romanzieri e dei filosofi esistenzialisti, interamente rivolte verso l’assurdo e le sue conseguenze, giungano infine a questo enorme grido di speranza. Abbracciano il Dio che li divora. È attraverso l’umiltà che la speranza si introduce. Perché l’assurdità di questa esistenza li assicura un po’ di più della realtà soprannaturale. Se il percorso di questa vita conduce a Dio, allora c’è una via d’uscita. E la perseveranza, l’ostinazione con cui Kierkegaard, Chestov e gli eroi di Kafka ripetono i loro percorsi sono una singolare garanzia del potere esaltante di questa certezza [5].

Kafka rifiuta al suo Dio la grandezza morale, l’evidenza, la bontà, la coerenza, ma lo fa per gettarsi meglio tra le sue braccia. L’assurdo è riconosciuto, accettato, l’uomo vi si rassegna e da quel momento sappiamo che non è più l’assurdo. Nei limiti della condizione umana, quale speranza più grande di quella che permette di sfuggire a questa condizione? Lo vedo di nuovo: il pensiero esistenziale, contro l’opinione comune, è intriso di una speranza smisurata, la stessa che, con il cristianesimo primitivo e l’annuncio della buona novella, scosse il mondo antico. Ma in questo salto, che caratterizza tutto il pensiero esistenziale, in questa ostinazione, in questo vagare attorno a una divinità inafferrabile, come non vedere il segno di una lucidità che si rinnega? Si potrebbe desiderare che fosse solo l’orgoglio a cedere per salvarsi. Questa rinuncia sarebbe feconda. Ma ciò non cambia la sostanza delle cose. Non diminuisce, ai miei occhi, il valore morale della lucidità il dire che essa è sterile come tutto l’orgoglio. Anche una verità è sterile per sua stessa definizione. Tutte le evidenze lo sono. In un mondo in cui tutto è dato e nulla è spiegato, la fecondità di un valore o di una metafisica è una nozione priva di senso.

È chiaro, in ogni caso, a quale tradizione di pensiero appartiene l’opera di Kafka. Sarebbe sciocco considerare rigoroso il percorso che porta da Il processo a Il castello. Joseph K… e l’agrimensore K… sono solo i due poli che attirano Kafka [6]. Parlerò come lui e dirò che la sua opera non è probabilmente assurda. Ma ciò non ci impedisce di vedere la sua grandezza e la sua universalità. Queste derivano dal fatto che ha saputo rappresentare con tanta ampiezza questo passaggio quotidiano dalla speranza alla disperazione e dalla saggezza disperata all’ostinata cecità della volontà di credere. La sua opera è universale (un’opera veramente assurda non è universale), nella misura in cui rappresenta il volto commovente dell’uomo che fugge dall’umanità, che attinge dalle sue contraddizioni ragioni per credere, ragioni per sperare nei suoi disperati fecondi, e che chiama vita il suo terrificante apprendistato della morte. È universale perché di ispirazione religiosa. Come in tutte le religioni, l’uomo è liberato dal peso della propria vita. Ma se so questo, se posso anche ammirarlo, so anche che non cerco ciò che è universale, ma ciò che è vero. I due possono non coincidere.

Si comprenderà meglio questo punto di vista se dico che il pensiero veramente disperante si definisce proprio secondo criteri opposti, e che l’opera tragica potrebbe essere quella che, esiliando ogni speranza futura, descrive la vita di un uomo felice. Più la vita è esaltante, più assurda è l’idea di perderla. Forse questo è il segreto di quella superba aridità che si respira nell’opera di Nietzsche. In questo senso, Nietzsche sembra essere l’unico artista che abbia tratto le estreme conseguenze di un’estetica dell’assurdo, poiché il suo messaggio finale risiede in una lucidità sterile e conquistatrice e in una negazione ostinata di ogni consolazione soprannaturale.

Quanto detto sarà sufficiente a far emergere l’importanza capitale dell’opera di Kafka nel contesto di questo saggio. Qui siamo trasportati ai confini del pensiero umano. Dando alla parola il suo pieno significato, si può dire che tutto in quest’opera è essenziale. Essa pone in ogni caso interamente il problema dell’assurdo. Se allora vogliamo collegare queste conclusioni alle nostre osservazioni iniziali, la sostanza della forma, il senso segreto de Il castello, l’arte naturale con cui si svolge, la ricerca appassionata e orgogliosa di K… nel contesto quotidiano in cui si sviluppa, comprenderemo la sua grandezza. Perché se la nostalgia è la marca dell’umano, nessuno, forse, ha dato tanta carne e rilievo a questi fantasmi del rimpianto. Ma comprenderemo anche quale sia la singolare grandezza richiesta dall’opera assurda, che forse qui manca. Se la caratteristica dell’arte è quella di collegare il generale al particolare, l’eternità peritura di una goccia d’acqua ai giochi di luce, è ancora più vero che la grandezza dello scrittore assurdo si misura dallo spazio che riesce a creare tra questi due mondi. Il suo segreto è trovare il punto esatto in cui si incontrano, nella loro massima sproporzione.

E, a dire il vero, questo luogo geometrico tra l’umano e il disumano, i cuori puri lo sanno vedere ovunque. Se Faust e Don Chisciotte sono creazioni eminenti dell’arte, è perché ci mostrano grandezze senza misura con le loro mani terrene. Ma arriva sempre un momento in cui lo spirito nega le verità che queste mani possono toccare. Arriva un momento in cui la creazione non viene più presa sul serio come tragedia, ma semplicemente sul serio. Allora l’uomo si occupa della speranza. Ma non è affar suo. Il suo compito è quello di distogliersi da questo inganno. Eppure, è proprio lui che ritrovo alla fine del violento processo che Kafka intende intentare contro l’universo intero. Il suo incredibile verdetto, alla fine, assolve questo mondo brutto e sconvolgente, dove persino le talpe si permettono di sperare [7].

* * *

Note:

[1] Da notare che si può legittimamente interpretare le opere di Kafka anche come una critica sociale (ad esempio ne Il processo). È probabile, inoltre, che non ci sia bisogno di scegliere tra le due interpretazioni. Entrambe sono valide. Nei termini dell’assurdo, come abbiamo visto, la rivolta contro gli uomini si rivolge anche a Dio: le grandi rivoluzioni sono sempre metafisiche.

[2] In Il castello, sembra che i “divertimenti”, nel senso pascaliano, siano rappresentati dagli Aiutanti, che “distolgono” K. dalla sua preoccupazione. Se Frieda finisce per diventare l’amante di uno degli aiutanti, è perché preferisce il contesto quotidiano alla verità, la vita di tutti i giorni all’angoscia condivisa.

[3] Questo vale ovviamente solo per la versione incompleta de Il castello che Kafka ci ha lasciato. Tuttavia, è improbabile che lo scrittore avrebbe rotto, nei capitoli finali, l’unità di tono del romanzo.

[4] La Pureté du cœur.

[5] L’unico personaggio senza speranza ne Il castello è Amalia. È a lei che l’agrimensore si oppone con più forza.

[6] Per i due aspetti del pensiero di Kafka, confrontare Colonia penale: «La colpa (intendiamo dell’uomo) non è mai dubbia» e un frammento de Il castello (rapporto di Momus): «La colpa dell’agrimensore K. è difficile da stabilire.»

[7] Quanto proposto sopra è ovviamente un’interpretazione dell’opera di Kafka. Ma è giusto aggiungere che nulla impedisce di considerarla, al di là di ogni interpretazione, da un punto di vista puramente estetico. Ad esempio, B. Groethuysen, nella sua notevole prefazione a Il processo, si limita, con più saggezza di noi, a seguire semplicemente le dolorose immaginazioni di quello che definisce, in modo suggestivo, un dormiente sveglio. È il destino, e forse la grandezza, di quest’opera offrire tutto e non confermare nulla.

Torna in alto