Sergio Atzeni reinventa la storia e l’identità della Sardegna superando le semplificazioni della narrativa nazionale ufficiale, utilizzando miti, oralità e tecniche letterarie proprie del realismo magico. Nelle sue opere, come Passavamo sulla terra leggeri, la nazione non viene proposta attraverso la ricerca nostalgica di eroi positivi o radici immutabili, preferendo invece rappresentarla come patrimonio vivente e molteplice, capace di accogliere contraddizioni e diversità culturali. La sua scrittura si pone come strumento di ribellione creativa contro una realtà storica imposta dall’alto, una narrazione che restituisce profondità all’identità collettiva, combattendo così il rischio di appiattimento culturale e riaffermando l’importanza della memoria, del mito e della complessità antropologica.
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Per riscrivere una genealogia
Le nazioni sono miti. Come leggende, le origini delle nazioni si perdono nella notte dei tempi, e rivivono attraverso le celebrazioni o nel racconto. Una tale idea della nazione potrebbe sembrare romantica o metaforica, eppure se si va a studiare quel ricco patrimonio che fonda il pensiero politico occidentale, se si scava nel passato delle istituzioni, superando l’abitudine e la familiarità che ce le fanno apparire naturali, ci si imbatte invariabilmente nella dimensione mitica. Qui si parla di nazioni, si badi bene, come “insieme delle persone che hanno origine, lingua, sentimento e tradizioni comuni, e che hanno consapevolezza di questi vincoli”. Lo Stato, spesso frettolosamente qualificato “nazionale”, è qualcosa di molto più tardo e, come oggi risulta evidente, un’entità assai artificiosa e dunque precaria. Sergio Atzeni non era un apologo della nazione, ne era piuttosto un bardo, simile a quei cantori nomadi dell’Africa occidentale, i griots, che, quando muoiono, portano nella tomba un patrimonio inestimabile di storie, ovvero una porzione considerevole della ricchezza nazionale. “Perché non c’è più nulla da fare: la cosa più fragile non è più quel fragile fiore che per svilupparsi a fatica, occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche, indubbiamente minacciose per il loro rigoglio, ma che permettevano anche di variare e di rinvigorire le sementi. L’umanità si cristallizza nella monocultura, si prepara a produrre la civiltà di massa, come la barbabietola. La sua mensa non offrirà ormai più che questa vivanda”. Levi-Strauss parlava in questi termini del mondo negli anni Trenta, già popolato, a suo dire, da uomini a una dimensione, assisi a una tavola dove il convento passava solo barbabietola.
Lo spirito del narratore in Passavamo sulla terra leggeri, nell’incontro con Antonio Setzu, suo mentore e “custode del tempo”, è invece quello del buongustaio: ansioso di provare sapori nuovi e inattesi, agli antipodi cioè dell’atteggiamento del nazionalista, che del convivio non sa apprezzare la varietà e coglie solo il gusto che politicamente più gli aggrada. Ci si lascia stupire, come avviene dinanzi ai miti, “le cui figure vivono molte vite e molte morti, a differenza dei personaggi del romanzo, vincolati ogni volta a un solo gesto”. La scelta stilistica di Sergio Atzeni è dirompente per la forma del romanzo. Che romanzo è mai questo dove Mariano, padre della patria sarda, è tramutato in una capra zoppa danzante, e la lingua degli antichi viene reinventata di sana pianta alla faccia di tante pedanti vestali della sacra storia isolana?
Leggiamo in apertura:
“Distoglievamo il popolo dalle false certezze. Il numero spiegava e aggiunge mistero, come la memoria”, che significa?
In una tavola rotonda su Certi romanzi… sardi Atzeni lamentava che alcune opere contemporanee di autori isolani gli sembravano legate ad un’impostazione del tipo “realismo socialista”: prima la tesi, poi la costruzione del romanzo. E – osservava – in questa impostazione c’era anche una nota stonata nel fatto che i sardi devono essere presentati, in ogni caso, come eroi, personaggi positivi. Per cui “Questa rivisitazione della storia e delle radici è, in un certo senso, all’insegna del “siamo bravi belli e sfortunati” e se non fossimo stati sfortunati, saremmo probabilmente, “grandi e gloriosi”.
Ed è paradossale invece che il miglior romanzo sardo degli ultimi anni, Il giorno del giudizio, sia invece avulso completamente da questa ricerca dell’eroe, del personaggio sardo positivo. La condizione umana – riferita a Nuoro, cioè alle radici dello scrittore, non è propriamente un affare edificante. Segue un manifesto in due punti: “Nuovo mattino cercasi per isola che ha bisogno di cambiare. Massima penalità per chi si prende troppo sul serio”.
Il risultato è, per l’appunto, una ricostruzione mitica della storia sarda, un’esplosione della forma del romanzo tradizionale ormai inadatto a una narrazione attuale.
La letteratura non può più essere ancella della Storia con la esse maiuscola, appendice fantasiosa di fatti storici chiari e incontrovertibili. Lo status, anche scientifico, della storiografia oggi è rimesso in discussione e ci si rivolge al lettore attraverso il canale privilegiato della metafora e del mito, parlando, tra le righe, un linguaggio che non si qualifica monoliticamente come la verità ma che, della verità, contiene spesso molti più elementi di tanta storiografia scientifica e ufficiale.
Atzeni scopre questa nuova miscela di storia e narrazione nei sudamericani: nel recensire il peruviano Vargas Llosa scrive: “vede il mondo e lo narra: e nelle sue parole manca qualsiasi ombra di giudizio morale o moralistico. Egli si limita a descrivere, e non dal suo osservatorio di letterato, ma dal punto di vista di chi parla, ovvero degli stessi protagonisti dei fatti, che esprimono nient’altro se non se stessi, la propria ideologia, la morale comune dei gruppi sociali (…). E, una volta chiuso il libro, per un attimo si riesce ad avere la sensazione di aver vissuto non nel chiuso di uno studio, ma nel centro di un dramma quotidiano di cui si è stati protagonisti. Ed è allora che la scrittura diventa veramente rivolta contro la realtà. Contro una realtà da cambiare, nella quale anche un libro può divenire un’arma”.
Narrare la realtà nella sua interezza, lasciare che i rivoli della memoria riversino nella scrittura anche le apparenti incongruenze di quella tradizione orale così ricca in Sardegna. L’oralità e il canto, altri ingredienti che Atzeni, da buongustaio insaziabile, non tralascia. Il tutto senza prendersi troppo sul serio. L’essere sardo, cioè marginale e periferico, e, soprattutto, la consapevolezza di esserlo, comporta in lui, come nota Ernesto Ferrero, una dialettica continua tra “le proprie origini radici, di timbro arcaico, e un incontenibile desiderio di modernità”. È un duro apprendistato che apre gli occhi su una nuova dimensione magica del quotidiano, inteso come materiale immediatamente disponibile per la scrittura.
I modelli provengono dal cosiddetto “realismo magico”, quel variegato rinnovamento formale della prosa che, partito dalle periferie, ha conquistato il vecchio Occidente. Rushdie e Marquez, Chamoiseau e Kureshi, il nuovo mattino per l’isola sorge lontano dall’Europa, e gioca sull’esotico, sul “meticciato” linguistico, sul carattere di sciamano del narratore.
Ma attenzione: Passavamo sulla terra leggeri, come tutte le affini visioni del mondo – egocentriche e intriganti – nell’ambito del realismo magico, non ha niente di nostalgico né vuole indicare la scorciatoia per l’Arcadia perduta. La distanza tra Atzeni e, poniamo, Dessì, sul tema Sardegna, è evidente.
L’opzione mitico-epica qui in atto rappresenta un’alternativa radicale: mentre una certa storiografia e letteratura sedicenti regionali scimmiottano la versione propagata dal Palazzo restando ben attente al decoro agiografico, griots come Atzeni rimettono in discussione l’epistemologia della storia e della letteratura. La scrittura diviene così passaggio obbligato per definire la propria posizione nel mondo. Atzeni-Itzoccor indica la riscoperta della nazione guidando, dalle periferie, la riscossa di Arbarè contro la corrotta Karale: qui emerge anche una chiara prospettiva utopica, così la scrittura si fa “rivolta contro la realtà” e l’artigiano Atzeni si assume il fardello del custode della memoria.
Qui scatta anche, oltre la riappropriazione simbolica del territorio, quella, reale, della lingua in tutte le sue varianti gergali. L’utopia: ciò che Atzeni chiamava il sogno dello sciamano, ovvero una “vita per procura” proiettata su realtà lontane, ma da una prospettiva locale molto radicata, senza facili esotismi o folklore a buon mercato.
Si rifiuta dunque una storia scritta da altri, poi confluita in convenzione, vincolo, e si enuncia una ricerca introversa: si ricerca la nazione? come “stirpe che conosceva e se stessa origine comune e alla quale gli altri riconoscevano comunanza di sangue e tradizioni”.
Ecco l’etnia, concetto antropologico e non burocratico, riscoperta nelle sue radici mitiche. Qui si manifesta la lezione di Levi-Strauss, attraverso cui si riesce a rendere “l’appartenenza nazionale doppia, tripla o quadrupla”, la cui espressione è “oggetto e scopo dichiarato” del mestiere di scrittore.
Nella stratificazione che la genealogia implica, si compendiano le connotazioni multiple di “sardo, italiano ed europeo”: poiché solo se la diversità (propria) e degli altri appare dato abituale si possono “rinvigorire le sementi” ed evitare la nausea da barbabietola, cioè l’appiattimento della monocultura.
Mauro Pala