Sartre: La Nausea | Massimo Recalcati

La nausea di Sartre rivela l'esistenza come immanenza priva di senso. L'arte è l'unica via di fuga, trasformando l'orrore dell'esistenza in significato.

Massimo Recalcati riflette sull’importanza del libro La nausea di Sartre, che ha segnato profondamente la sua formazione filosofica. Attraverso una lettura psicoanalitica e filosofica, evidenzia come Sartre, a differenza di una visione umanistica centrata sulla libertà, descriva l’esistenza come un’immanenza assoluta e priva di senso, rivelata in modo traumatico attraverso l’esperienza della nausea. La soluzione a questa condizione risiede nella dimensione estetica, dove l’arte offre una via di fuga dall’orrore dell’esistenza, trasformando il “pieno” dell’esistenza in un’esperienza significativa.

Ancona, 19 ottobre 2019

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di Massimo Recalcati

Buon pomeriggio. Faccio tre brevi premesse prima di entrare nel merito del tema che ci convoca qui oggi: La nausea di Sartre.

La prima premessa è che dieci anni fa è morto il mio maestro in filosofia, Franco Fergnani, che ha insegnato per trent’anni all’Università Statale di Milano. Ho fatto di tutto, fatto l’impossibile, perché la collana che dirigo, Eredi, pubblicasse un brano, un frammento del suo ampio insegnamento sulla filosofia di Sartre, che voi troverete in libreria. E questo brano che ho scelto è forse il più rappresentativo della lezione di Fergnani e riguarda appunto La nausea di Sartre. È il mio modo per omaggiare, diciamo, il suo pensiero, quello di Franco Fergnani.

La seconda premessa è che esistono, per tutti noi nella nostra formazione, dei libri che si rivelano nel tempo, o forse anche da subito, diversi da tutti gli altri. Ci sono dei libri che ci appaiono nel corso della nostra formazione come dei veri e propri incontri, cioè segnano dei punti di cominciamento, dei punti di inizio, dei punti di svolta. Libri che trasformano il nostro rapporto col mondo. La nausea è stato per me uno di questi libri. Non racconto nel dettaglio a libro aperto, senza però entrare troppo nel merito dei contenuti, come cercherò di fare oggi, ma per me è stato, diciamo, un libro trauma, un libro che ha assunto le caratteristiche per me di un vero proprio evento. E quando i libri diventano questo, cioè si fanno trauma, si fanno evento, quando noi facciamo l’esperienza spiazzante che non siamo noi lettori del libro, ma che il libro ci legge. E dire che il libro ci legge, in questo caso, per me è stato fare esperienza del libro che rispondeva a una domanda che non avevo ancora pienamente articolato. Il libro era una risposta a una domanda che a me stesso non era affatto chiara. È tutto per me comincia da questo libro, che viene prima di Lacan, che viene prima della psicoanalisi, e che viene, diciamo, a vent’anni, quando io sono immerso, diciamo, negli studi filosofici.

La terza premessa, un po’ più ampia, è una parola sul mio metodo di lettura. Perché la pratica della psicanalisi – lo faccio, lo psicanalista, ormai mi rendo conto di questo dato inaggirabile da 30 anni – fare lo psicoanalista abitua nell’ascolto dei soggetti che parlano a mettere in valore l’esperienza della divisione. Potremmo tradurla nel modo più semplice possibile come l’esperienza della contraddizione, della non coincidenza, della divaricazione. Questo riguarda le vite individuali di cui lo psicanalista si prende cura, ma riguarda anche i testi, riguarda anche i grandi pensatori.

La cosa che mi orienta nella lettura dei testi, nello studio di grandi pensatori come per esempio Sartre, è proprio quella di mettere in valore i punti di non coincidenza, di contraddizione, di divisione che appaiono nella sua opera. Accade con Freud, per esempio. Basti pensare a solo due esempi a me molto cari: Freud e Lacan. Accade in Freud. Noi sappiamo che c’è un Freud teorico dell’interpretazione, teorico del sogno, teorico della psicoanalisi come ermeneutica, che esporta la psicoanalisi verso una specie di filosofia dell’interpretazione per certi versi. Ed è un Freud che ha uno spessore in Freud che esiste, che non si può cancellare. E a fianco a questo Freud, abbiamo invece il Freud che pensa la pulsione, che pensa la pulsione di morte, che pensa la sessualità infantile, che pensa la fissazione pregenitale della pulsione, che formula una teoria economica, non ermeneutica, della libido.

Cosa interessante per me, lettore, non è, come dire, assumere una opzione per un Freud contro l’altro, ma lavorare in questa zona di tensione tra un Freud e l’altro. Lo stesso si può dire di Lacan. C’è il Lacan teorico del linguaggio, teorico della legge, teorico del desiderio, teorico del grande Altro, teorico del significante. E poi c’è un Lacan teorico del godimento, dell’uno, della pulsione acefala, eccetera. Lo sforzo che io faccio anche leggendo Lacan è, come dire, mettere in valore i punti, il punto che stabilisce la tensione tra queste due declinazioni del pensiero di Lacan. E lo stesso si può dire di Sartre.

E lo stesso si può dire di Sartre nel senso che noi abbiamo un’immagine abbastanza acquisita di Sartre, anche, diciamo, nella cultura non specialistica. Se dovessimo dare una definizione così sommaria della filosofia di Sartre, diremmo che la filosofia di Sartre è la filosofia della libertà. Che il tema della libertà è il tema, potremmo dire, che riassume il ritratto umanistico della filosofia di Sartre. Quando diciamo filosofia della libertà, diciamo fondamentalmente che il valore – questo è uno degli annunciati fondamentali dell’esistenzialismo di Sartre – il valore di una vita, il valore della vita, dipende, diciamo così, si incarna nella vita stessa. Che il valore dell’esistenza coincide con l’esistenza di quella vita. Che non c’è un valore che precede la vita. Che la vita istituisce da sé il suo valore. Che l’essenza non precede l’esistenza, ma è l’esistenza che dà senso a se stessa nella sua vita singolare.

Questa sintesi molto rapida del pensiero di Sartre ci porta anche a dire che, allora, pensata così, la vita umana, la libertà della vita umana coincide fondamentalmente col suo essere, uso una parola molto cara a Sartre, nel suo essere una trascendenza. L’esistenza è una trascendenza. Quando diciamo questo, dobbiamo fare molta attenzione a distinguere questa versione della trascendenza, che è una versione esistenziale della trascendenza, da una versione teologica della trascendenza. La trascendenza, come pensata da Sartre, erede qui della lettura di Essere e tempo di Heidegger, non è una trascendenza verticale, teologica, religiosa. Non è un mondo che abita dietro al mondo. Non è un mondo al di fuori di questo mondo. Non è un altro mondo rispetto a questo mondo, questa trascendenza, ma definirebbe il modo d’essere della realtà umana.

E che cosa vuol dire che la trascendenza sarebbe il modo d’essere della realtà umana? Che la realtà umana non coincide mai con se stessa, ma è sempre impegnata nei suoi progetti, è sempre divaricata da se stessa. È, come diceva Franco Fergnani, in modo martellante, diciamo una lezione sì, una lezione no, un essere delle lontananze, che è un’espressione di Heidegger che Sartre ha acquisito. Essere delle lontananze vuol dire che noi non siamo una semplice presenza come un bicchiere, ma noi siamo sempre impegnati nei nostri possibili, in quello che saremo, in quello che diventeremo, in quello che ancora non siamo.

Questo mi pare il primo punto. Filosofia della libertà significa filosofia della trascendenza, ma la trascendenza non è al di là del mondo, è un modo d’essere dell’esistenza umana, della realtà umana. Ancora in questo ritratto canonico, diciamo umanistico, della filosofia di Sartre, potremmo dire che, nella misura in cui l’esistenza è questo, cioè è trascendenza, è esistenza, è apertura, è esposizione, è essere, come direbbe Heidegger, fuori, essere costantemente fuori da se stessa, impegnata nei suoi progetti, nel suo poter essere, se l’esistenza è questo, allora, altro grande tema di Sartre, più conosciuto, allora, l’esistenza porta con sé fatalmente, inevitabilmente, la dimensione dell’angoscia.

L’angoscia di fronte ai propri possibili, cioè di fronte l’esperienza irrevocabile, inaggirabile della scelta e dunque della responsabilità della scelta. Allora, capita una definizione tra le più celebri, diciamo, che Sartre dà dell’angoscia nell’Essere e il nulla: l’angoscia è l’autopercezione riflessiva della mia libertà. Mi angoscia di fronte alla libertà, cioè di fronte alla possibilità della scelta. È la radice kierkegaardiana della filosofia della libertà di Sartre. Quindi, un filosofo della trascendenza, come poter essere, come oltrepassamento della semplice presenza, filosofo della scelta, filosofo della responsabilità della scelta, filosofo dell’angoscia.

Tutto questo si può riassumere in una formula a me molto cara, insomma, che ho incontrato sia nell’Essere e il nulla, che è la summa filosofica di questo Sartre, sia in un testo più divulgativo, L’esistenzialismo è un umanismo, che riassume un po’ questo primo ritratto di Sartre. “Noi siamo soli e senza scuse.” Noi siamo soli e senza scuse. Ci siamo confrontati con, diciamo così, la necessità di essere il fondamento di noi stessi, nella misura in cui l’esistenza non ha fondamento, la necessità di essere il fondamento di noi stessi, di dare senso alla nostra esistenza laddove la nostra esistenza non porta con sé un senso già acquisito, cioè è priva di fondamento.

È il ritratto che questo libro, La nausea, in realtà smonta, problematizza, revoca per certi aspetti. Siamo di fronte a un Sartre che non è un filosofo della libertà, quindi non un filosofo della trascendenza, non un filosofo umanistico, ma quello che Fergnani diceva un filosofo “disumanistico” (uso la sua espressione, molto frequente anche questa). “Disumanistico” non so se appropriato o meno, ma dà il senso, il timbro di uno spostamento di registri.

Potremmo chiederci: il protagonista di questo romanzo filosofico che Sartre scrive e pubblica nel 1938, appunto titolato La nausea, ha al centro l’esperienza vertiginosa, angosciante della libertà, della scelta, della responsabilità, che diventeranno poi i temi più canonici della filosofia di Sartre? Ebbene no, non abbiamo al centro di questo romanzo la definizione della vita umana come trascendenza. La vita umana non sarebbe una trascendenza e non sarebbe nemmeno, ecco il tratto “disumanistico”, non sarebbe l’esistenza umana differente dall’esistenza di una cosa o dall’esistenza di un qualunque oggetto, di un albero, del mare, o di qualunque altro ente del mondo.

Questa è la prospettiva non solo non antropocentrica – perché tutto l’umanesimo di Sartre è assolutamente non antropocentrico – ma qui non c’è solo il superamento dell’antropocentrismo; in questo romanzo c’è un orizzonte che si descrive come non umanistico. Quindi, non antropocentrico ma anche non umanistico. Mentre tutto il Sartre successivo tenterà di ribadire il non antropocentrismo, ma in una prospettiva che vuole essere umanistica, vuole, come dire, distinguere rigorosamente la realtà umana dalla realtà delle cose.

E allora, se non abbiamo la libertà al centro di questo romanzo, che cosa abbiamo? Lo vedremo poi nel dettaglio con una delle scene più note per chi conosce questo romanzo, e per me indelebili dalla prima volta che la lessi. Quindi entreremo anche nel dettaglio del testo. Però direi che il protagonista di questo romanzo è un’esperienza di rivelazione. Potremmo subito dire che La nausea, per come Sartre la concepisce, è effettivamente esperienza di una rivelazione.

E che cosa si rivela nella Nausea? Qual è l’oggetto, tra virgolette, di questa rivelazione? L’angoscia, abbiamo detto, rivela alla realtà umana il suo essere condannata (questo sarebbe un punto su cui riflettere a lungo) alla libertà. Perché noi diciamo che non siamo liberi di non essere liberi, un grande problema del Sartre più maturo. Diciamo che l’esistenza è condannata alla libertà, mentre nel romanzo filosofico che stiamo cominciando a commentare l’esistenza non è condannata alla libertà, l’esistenza è condannata, potremmo dire, l’esistenza è imprigionata nell’esistenza. L’esistenza è, come dire, condannata ad esistere. Non c’è possibilità per sempre sembra una tautologia, ma non lo è. Vorrei insistere su questo: l’esistenza è nell’impossibilità di uscire fuori dall’esistenza, è presa nell’esistenza. L’esistenza non può che esistere nella forma dell’esistenza, non può che esistere nella forma di esistenza, come dire, esiste solo l’esistenza.

Quindi l’esistenza si profila come un assoluto, il reale come un assoluto che non ha relazioni perché l’esistenza è dappertutto, non ha argini, non ha limiti, non ha differenziazioni, è un Uno in questo senso. È l’esperienza di un Uno, è l’esperienza, come direbbe il mio amico Rocco Ronchi, di una assoluta immanenza, questa forma dell’esistenza.

Ma allora perché si pone il problema della rivelazione? Se l’esistenza è dappertutto, se questo bicchiere esiste, io esisto, l’albero esiste, se siamo circondati dall’esistenza, se noi stessi siamo esistenza, perché ci sarebbe, si porrebbe il problema, Sartre pone il problema della sua rivelazione? Perché l’esistente è oggetto, permettetemi di usare questa parola che non è una parola di Sartre, ma che appartiene al vocabolario della psicoanalisi, è oggetto di una rimozione. E questa rimozione, per come viene raccontata ne La nausea, ha due lati: una rimozione individuale e una rimozione collettiva, sociale.

Potremmo dire così: individuale perché il protagonista della Nausea è uno storico, si chiama Antoine Roquentin, uno storico che vive in una cittadina dove sta compiendo le sue ricerche su una figura minore del Seicento francese, un marchese di Rollebon, e dunque si dedica in una biblioteca grigia agli studi di questo signore. Beh, la rimozione di Antoine Roquentin è che, occupandosi del marchese di Rollebon, dedicando la sua vita alla ricerca storica, a una ricerca anche arida, filologica, polverosa per certi versi, mentre cioè dedica la sua vita a un morto (non che tutti gli storici facciano questo, visto il grigiore della figura di Rollebon, questa è molto evidenziata nel romanzo), sta dedicando la sua vita a un morto. Mentre dedica la sua vita a un morto, cancella l’esistenza della sua vita. Il marchese di Rollebon è, diciamo, l’alibi che Roquentin usa per non incontrare la sua esistenza attraverso appunto la consacrazione della sua vita a quella di un morto. È un procedimento che dal punto di vista psicanalitico definiremmo ossessivo, dedicarsi alla morte quindi a una ricerca filologica mortificante per non incontrare, come vedremo fra poco, l’eccesso spaventoso, l’eccesso disumano dell’esistenza.

Quindi questa è la prima rimozione. Ma c’è anche una rimozione, dicevo, collettiva, più interessante anche, su cui Sartre indugia in diverse parti del romanzo, dove – vediamo se trovo qua – dove tutta la cittadina di cui si racconta, cioè la cittadina di Bouville, è rimozione dell’esistenza. Anzi, si potrebbe dire che la vita comune, la vita insieme, la vita della nostra comunità, la vita della polis, la vita della città, la nostra stessa vita, diciamo, si sostiene su una procedura di rimozione dell’esistenza. Cioè l’esistenza è dappertutto, ma non si incontra mai.

Che cosa si incontra al posto dell’esistenza? Che cosa si incontra al posto dell’esistenza? Al posto dell’esistenza si incontra – cito qui sempre Fergnani – anche questa è una formula che ricorreva molto spesso, come tutti i grandi professori Fergnani tendeva a una ripetizione spiraliforme del suo pensiero, le sue aggettivazioni – diceva le cosiddette, citando Camus, “impressioni canoniche”. Le impressioni canoniche sono, certo, un modo stabilizzante, rassicurante, di entrare in rapporto alla vita, di neutralizzare la dimensione ingovernabile della vita.

E allora la cittadina di Bouville vive, come tutte le altre città, dentro il quadro delle impressioni canoniche, quello che con Lacan potremmo dire il quadro della realtà. Il quadro delle impressioni canoniche è il quadro della realtà. Quali sono gli attributi fondamentali del quadro della realtà per Lacan stesso? La regolarità, la continuità, la costanza. Siamo tutti in questa sala, adesso, non voglio provocare nessuno a crisi di panico perché ci affidiamo al quadro sufficientemente stabile, costante, abitudinario della realtà. Sartre lo dice con questo modo qui, così potete anche sentire la verve di scrittore straordinaria di Sartre. Parla dei cittadini di Bouville, cioè di tutti noi. Bouville, la cifra, diciamo, della rimozione umana dell’esistenza.

Tutti loro hanno la prova cento volte al giorno che tutto accade meccanicamente, il mondo obbedisce a leggi fisse e immutabili: i corpi abbandonati nel vuoto cadono tutti con la stessa velocità, il giardino pubblico viene chiuso tutti i giorni alle 16 d’inverno e alle 18 d’estate, il piombo fonde a 335 gradi, l’ultimo tram parte dal municipio alle 23 e cinque. Sono pacifici, un po’ melanconici, pensano sempre al domani, cioè semplicemente a un altro oggi. Le città non dispongono che di una sola giornata, che ritorna sempre uguale ogni mattina. La si impenna, chiaro, un po’ solo la domenica.

È lo spirito antiborghese, no? Che attraversa non solo quest’opera, ma tutta l’opera di Sartre. Ma qui dobbiamo prendere anche una cifra più alta della semplice, diciamo, critica allo spirito della borghesia, no? Qui siamo noi, cittadini di Bouville. Antoine Roquentin lui stesso, in fondo, anche se osserva dall’esterno, fa parte di Bouville. Sarà la rivelazione della nausea a squarciare il velo, diciamo così, e a mostrare l’esistenza come qualcosa che irrompe e squarcia il velo delle impressioni canoniche.

Altra citazione nella stessa direzione, questa è una citazione molto nietzschiana, per chi conosce Nietzsche, diciamo, La nausea è piena di riferimenti a Céline, Kafka, Nietzsche, Heidegger, e quindi è una miniera, in realtà è un colloquio continuo con la filosofia. Qui si percepisce anche un passaggio importante di Così parlò Zarathustra. Dice, sta camminando a Bouville, una cittadina sul mare, come Ancona (senza nessun riferimento ovviamente, esclusi i presenti, come si dice in questi casi), allora cammina costeggiando il mare e poi dice: “Sulla balaustra si sofferma. È il vero mare: è freddo e nero, pieno di bestie, striscia sotto questa sottile pellicola verde fatta apposta per ingannare la gente. I sordidi ci sono cascati, non vedono altro che la sottile pellicola, perché essa è la prova dell’esistenza di Dio, ma io vedo bene tutto quello che c’è sotto.”

Allora Dio rientrerebbe, sarebbe un’altra ipotesi, un’ipotesi metafisica, teologica, che rientrerebbe nell’ordine costituito della città, come dire, è la superficie che occulta la dimensione mostruosa, disumanistica, dell’esistenza, e che consente, come dire, la circolazione ordinata della vita, la governabilità della vita.

C’è infine un terzo modo fondamentale in cui si produce la rimozione dell’esistenza. È una pagina cui mi sono soffermato già in altri libri, ma voglio riprenderla perché è veramente molto particolare ed è soprattutto un certo uso che gli umani fanno del sapere. Il sapere può essere usato come un cemento che copre, diciamo così, il reale, il brutto dell’esistenza. Anche il sapere è un modo di rimuovere l’impatto traumatico con l’esistenza.

In questo romanzo c’è una figura molto intensa e anche farsesca e drammatica insieme, che è la figura dell’autodidatta. È un umanista, come un piano marxista, socialista, che crede nell’uomo con la U maiuscola e parla dunque delle magnifiche sorti e progressive che caratterizzano la vita umana, e parla sempre dell’uomo con la U maiuscola. Questo è un punto di cambio su cui Sartre non ha mai smesso di pensare, no? L’umanesimo di Sartre implica la cancellazione dell’uomo con la U maiuscola, mentre la retorica umanistica – l’uomo che va sulla luna, l’uomo che costruisce i ponti, le città, l’uomo che fa avanzare il progresso – ecco, tutto questo è nella testa dell’autodidatta. E per celebrare il suo amore infinito nei confronti dell’uomo, ogni pomeriggio l’autodidatta si reca nella stessa biblioteca di Bouville, dove Roquentin sta compiendo i suoi studi sul marchese di Rollebon, e legge. Dunque dobbiamo immaginarci questa piccola sala dove Roquentin guarda che cosa legge l’autodidatta.

Roquentin rimane spiazzato. Roquentin legge solo su marchese di Rollebon, tutto quello che riguarda il marchese, mentre il nostro autodidatta legge testi di fitoterapia, di letteratura, di archeologia, di astrologia. Roquentin rimane spiazzato e la domanda è: ma che ricerca sta facendo? Qual è il criterio, diciamo così, che unifica l’incoerenza apparente delle letture dell’autodidatta?

E a un certo punto c’è la rivelazione, cioè Roquentin scopre il criterio della lettura: “D’un tratto mi tornano in mente i nomi degli autori delle ultime opere che egli ha consultato: Lambert, La Grua, Largetti, Laste. È un lampo. Ho compreso il metodo dell’autodidatta: si istruisce per ordine alfabetico!” [Risate] Oggi è alla L, dopo ci sarà la K. Ha passato brutalmente dallo studio dei coleotteri a quello della teoria dei quanti, da un’opera sui crociati a un libello cattolico contro il darwinismo, senza mai un momento di dubbio. Ha letto tutto, ha immagazzinato nella sua testa la metà di quanto si conosce sulla partenogenesi, la metà degli argomenti contro e pro la vivisezione. Dietro di lui e davanti a lui c’è un intero universo e si avvicina il giorno in cui egli, chiudendo l’ultimo volume dell’ultimo scaffale d’estrema sinistra, dirà a se stesso: “E adesso?”

Come dire che intanto, per usare il titolo di un bel romanzo di Andrea Bajani, La vita non è in ordine alfabetico. Il sapere può essere catalogato in ordine alfabetico, ma la vita, esattamente in quanto esistenza, è ciò che scardina quest’ordine, che lo rende impossibile, semplicemente che lo rende semplicemente impossibile. Come dire, questo sapere che l’autodidatta usa in modo superficialmente enciclopedico è un sapere che ha la caratteristica della difesa. È un sapere che difende la vita dall’esistenza, che difende la vita dalla rivelazione dell’esistenza.

E poi c’è un ultimo punto di questa rimozione, ed è il punto più importante, più significativo, che ritroviamo anche nella clinica della psicanalisi e a cui Lacan ha dedicato delle parti molto importanti. È una di quelle categorie sartiane che Lacan, diciamo così, preleva senza molta generosità, devo dire, nei confronti di Sartre. Ebbene, l’altro punto, l’ultimo di questa rimozione collettiva dell’esistenza, è quello che è la malafede fondamentale dell’umano, che per Sartre consiste nel pensare che noi avremmo, in quanto cittadini di Bouville, il diritto di esistere.

E quella che Sartre chiama la passione per la giustificazione dell’esistenza, questa è la categoria che Lacan recupera e definisce per Lacan la nevrosi. Chi è il nevrotico? È colui che insegue, diciamo, la giustificazione del proprio essere, della propria esistenza. In questo senso, per Lacan, nel seminario VI, la nevrosi è una forma, forse la forma più estrema, di religiosità. La nevrosi è una religione perché crede nell’esistenza dell’Altro e crede nel fatto che l’esistenza dell’Altro possa giustificare la nostra esistenza.

Come dire, noi viviamo assonnati, viviamo assonnati senza contatto con l’esistenza perché siamo in un rapporto ipnotico con l’esistenza dell’Altro, a cui, come dire, sacrifichiamo la nostra stessa vita. E l’idea lacaniana della nevrosi come sacrificio della vita nel nome dell’Altro – fare tutto per l’Altro, dice Lacan. Se volete una definizione lacaniana molto semplice di nevrosi, è questa: fare tutto per l’Altro. Un’altra definizione sempre molto precisa di Lacan è “l’altruismo permanente del nevrotico”. L’altruismo permanente, quindi sacrificale, dell’altruismo permanente e, aggiungerei, sacrificale del nevrotico.

Ma perché il nevrotico si sacrifica permanentemente? Per ottenere dall’esistenza dell’Altro la cancellazione della sua esistenza, dell’orrore di fronte alla propria esistenza. Se l’Altro esiste, non esiste l’esistenza. L’esistenza dell’Altro rende impossibile la mia esistenza perché l’esistenza dell’Altro dà un mandato alla mia esistenza che emancipa la mia esistenza dall’esistenza stessa. È quello che Lacan chiama nell’Idiota della famiglia la metafisica del mandato. Ricevere un mandato dall’Altro, si potrebbe dire, no? Espressione di un mandato. Oppure “sposati, fai figli, trova un lavoro.” Metafisica di Bouville, del mandato. Ma allora, nella misura in cui il soggetto risponde religiosamente al mandato, attribuisce alla sua esistenza un diritto, il diritto di esistere, attribuisce alla sua esistenza un senso.

Ecco, di fronte a questo schermo della realtà – abbiamo chiamato rimozione questo schermo e abbiamo descritto i modi collettivi e individuali della rimozione – beh, l’esperienza della nausea è l’esperienza vertiginosa di una rivelazione: l’esistenza si rivela sprovvista di senso. Per sottolineare questo fatto, che l’esistenza in sé, in quanto tale, è sprovvista di senso, che l’esistenza non ha un senso, Sartre usa un termine che Lacan recupererà, dando a questo termine una grande enfasi. Sartre usa il termine “cosa.” “Cosa” per indicare l’esistenza. È la cosa.

Per chi conosce Lacan, diciamo, la valorizzazione enorme che Lacan dà nel seminario VII di questa espressione è significativa. Ma l’idea che l’esistenza sia una “cosa” è una che Sartre sviluppa ne La nausea. Che cosa vuol dire che l’esistenza è una cosa? Al momento abbiamo detto che l’esistenza è una cosa nella misura in cui è il luogo di una immanenza assoluta che non suppone il senso, anzi che diverge dal senso. Un’immanenza assoluta priva di senso.

Voglio con voi proprio seguire i passaggi attraverso i quali Roquentin fa questa esperienza della rivelazione dell’esistenza come cosa, quindi come appunto una esistenza che non implica nessuna forma di significato. L’esistenza è scissa dal significato, è disgiunta dal significato.

Queste sono delle pagine che, quando le lessi a vent’anni, mi si sono scolpite nella testa, per dirvi della forza, dell’impatto, appunto, del sentirsi letto dal libro.

Allora vi leggo queste due pagine, non tutte, faccio una piccola antologia di queste due pagine descrivendovi il contesto. Roquentin ha già incontrato la nausea, quindi ha già fatto esperienza dell’inganno, dell’impostura di Bouville, ha già fatto esperienza di quello che c’è sotto la superficie verde, la pellicola verde del mare, ha già fatto esperienza del turbamento profondo del quadro della realtà. Lacan chiama il turbamento del quadro della realtà “reale.” Quando il quadro della realtà è turbato e perturbato, noi facciamo esperienza del reale.

Fino a qui siamo a quasi metà, oltre la metà del romanzo. Roquentin ha già fatto questa esperienza, ma ce n’è una in particolare dove l’esistenza si rivela appunto come veramente un assoluto sconcertante.

Dobbiamo immaginare Roquentin alle sei di sera, il romanzo filosofico è costruito come un diario fenomenologico, si potrebbe dire citando l’opera di un importante fenomenologo italiano come Enzo Paci. È un diario, siamo alle sei di sera. Roquentin racconta questa esperienza. Entra in un giardino pubblico, si siede su una panchina e questo è quello che racconta. Dice: “Tornato a casa,” scrive, “non scrive lì al momento, sta raccontando quello che gli è appena accaduto. Dunque, poco fa ero al giardino pubblico, la radice del castagno affondava nella terra proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un pochino a testa bassa, solo di fronte a questa massa nera, nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura. E poi, e poi ho avuto questo lampo di illuminazione: l’esistenza si nasconde, è lì attorno a noi, e noi non si può dire due parole senza parlare di essa, e infine però non si tocca. Ma adesso, d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno. L’esistenza si era improvvisamente svelata, aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta ed era divenuta la materia stessa delle cose. Invano cercavo di contare i castagni, di situarla in rapporto alla bellezza, di confrontare la loro altezza con quella dei platani. Ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, si isolava, traboccava di tutte queste relazioni che io mi ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, del mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni. Sentivo l’arbitrarietà. Tutto mi appariva di troppo.”

Ultima pagina: “E allora davanti a me non c’era più una radice, ma una grossa zampa rugosa, e il mondo delle spiegazioni, delle ragioni, non è quello dell’esistenza. Un cerchio non è assurdo, si spiega benissimo con la rotazione di un segmento attorno a una delle estremità, ma il cerchio non esiste. Quella radice, al contrario, esisteva, e in modo che io non potevo spiegarla: nodosa, inerte, senza nome, mi affascinava, mi turbava, mi riempiva gli occhi, mi riportava continuamente alla sua propria esistenza. Avevo un bel ripetermi tra me e me: ‘È una radice.’ Non attaccava più. Capivo bene che non si poteva passare dalla sua funzione di radice, di pompa aspirante, a questo: a questa pelle dura, compatta di foca, a quell’aspetto oleoso, calloso, caparbio, nero. La funzione non spiegava più niente. Questa radice qui, con il suo colore, la sua forma, il suo movimento congelato, era pura esistenza, al di là, al di sotto di qualsiasi spiegazione.”

[Applauso]

Qui possiamo già stabilire, diciamo, almeno tre momenti di questo racconto. Tutto quello che Sartre descrive è l’esperienza della nausea. L’esperienza della nausea, abbiamo detto, rivela l’esistenza come dato assoluto. Cosa comporta questa rivelazione?

Primo elemento: noi abbiamo sentito che i nomi non si attaccano più alle cose. Quindi il primo elemento che dobbiamo mettere in evidenza è la revoca del linguaggio, la revoca del rapporto tra il nome e la cosa. Il nome non si attacca più alla cosa. Teniamo presente che Sartre ha dato un valore straordinario all’esperienza della dominazione e della parola in generale. Se uno legge Che cos’è la letteratura?, Sartre descrive le parole come delle azioni, sono dei modi pratici di trasformare le cose. Quando io nomino una cosa, quella cosa non è più la stessa, evidentemente. Lo abbiamo sentito nella straordinaria lezione di Ivano Dionigi attraverso Lucrezio. Lucrezio addirittura pensa che l’ordine delle parole costituisca una grammatica ontologica dell’ordine del mondo. Quindi la nominazione, la parola, trasforma la cosa. Per Sartre la nominazione porta con sé un potere, è espressione della prassi umana. Qui la prassi umana è scacco. L’esperienza della nausea è l’esperienza dello scioglimento del rapporto tra il nome e la cosa. La cosa si stacca dal nome, il nome non aderisce più, dice Sartre. Abbiamo sentito: non aderisce più, non fa più presa sulla cosa. La cosa è senza nome, il reale, direbbe Lacan, è senza nome. Il reale non è compatibile con l’ordine del linguaggio. E dunque abbiamo l’esperienza di una divaricazione tra il piano del concetto, più filosoficamente, e il piano del reale. Il concetto non è più in grado di far presa sul reale. Lo diceva anche Kant a suo modo: un’esistenza non è un predicato. Ma non solo Kant. Ci sono tutta una serie di filosofi, da Kant a Hume a Schopenhauer, che mostrano come, diciamo così, anche tra il piano del concetto e il piano del reale esiste appunto una eterogeneità che non si può ridurre, non si può colmare.

Quindi, il primo punto è questo: il cedimento del linguaggio. C’è un cedimento dell’esperienza del linguaggio. L’apparizione dell’esistenza comporta un cedimento dell’esperienza del linguaggio. Nelle crisi di panico, per esempio, i pazienti, per ritrovare un rapporto canonico col mondo, che la crisi di panico scuote profondamente, nominano le cose. Uno dei miei pazienti ha questo rituale, tra virgolette, ossessivo che lo protegge dal panico: quando è preso dal panico e rischia di collassare, di perdere coscienza, inizia a nominare le cose attorno a sé: “cinque bicchieri, tazze, tavolo”, e così via. Ridà nome alle cose per introdurre la funzione stabilizzatrice del linguaggio. La nominazione diventa un modo per rassicurarsi di fronte all’ingovernabilità della vita, dell’esistenza.

L’esperienza della nausea, invece, implica la revoca del potere della nominazione. Primo punto molto importante: la cosa è senza nome. L’esistenza come cosa che si rivela è priva di nome.

Questo da un punto di vista filosofico, ma qui non voglio entrare troppo nel merito, visto anche la presenza di illustri amici che hanno scandagliato questo passaggio con grande cura. Però direi che in questo movimento noi troviamo anche una disgiunzione tra il quod sit e il quid sit, tra il fatto che c’è e il che cos’è. La semplice presenza, l’essere là, è una descrizione che si ritrova anche nella tradizione fenomenologica. Fergnani la ricordava spesso, soprattutto nella sua matrice schellinghiana. Questa distinzione tra il “che cos’è” e il “fatto che c’è” è essenziale.

L’esperienza della nausea fa crollare completamente il piano del “che cos’è”, della descrizione essenziale, e mostra in primo piano il fatto che c’è, ma il fatto che la cosa c’è schianta, destruttura completamente il piano della definizione essenziale della cosa stessa. Come dire, c’è un eccesso che surclassa ogni tentativo di ridurre questo eccesso, dice Sartre, ad una spiegazione, ad una spia, ad una definizione. Questo eccesso si rivolta di fronte a qualunque tipo di definizione.

Terzo elemento: prendiamo la radice, perché la radice è veramente molto interessante. L’esperienza che ci ha descritto Sartre è che questa radice non è un ostacolo per Roquentin, non è qualcosa che lo ostacola, non è vissuta come un ostacolo, come qualcosa che, come dire, impedisce una progettualità, come sarà poi sviluppato nel pensiero sartreano in L’essere e il nulla. Non è un ostacolo, non è una funzione biologica, una pompa aspirante. La radice non è un ostacolo, non è una parte della pianta, definita botanicamente. Non è un oggetto scientifico. La radice non appare né come oggetto scientifico né come ostacolo, né più semplicemente come un oggetto in rapporto alla mia coscienza.

Questa radice appare piuttosto come un pieno assoluto, un pieno senza mancanza, un pieno assoluto, una pura contingenza, dirà Sartre. È quello che sta sotto, o come in un altro passaggio, una “necessità stupida”. Una “necessità stupida” è un termine che passa da Nietzsche nei frammenti postumi e che ritroviamo ne La nausea e in Lacan. Lacan utilizza la stessa espressione per definire il reale: la necessità stupida. Ma perché la contingenza sarebbe una necessità? Filosoficamente, si potrebbe porre la contingenza in alternativa alla necessità. Fergnani, quando si poneva questo problema, diceva: “Sì, si tratta di una necessità non necessitata.” E quindi, in questo senso, una necessità puramente contingente. Cioè c’è, ma questo c’è si rivolta contro qualunque spiegazione essenziale. Quindi, è una pura contingenza, ma è anche una necessità stupida. Una necessità stupida che prende le forme della pura contingenza.

E qui possiamo misurare tutta la differenza tra l’angoscia e la nausea, perché l’angoscia è in rapporto alla libertà; la nausea è in rapporto a un pieno da cui, diciamo così, con un altro filosofo come Lévinas, noi non possiamo evadere. Da un pieno che ci imprigiona. Quindi, la nausea è un’estasi dell’eccesso, mentre l’angoscia è l’esperienza del nulla, in fondo, che rivela la nostra libertà. Qui abbiamo un’esperienza dell’eccesso, non dell’assenza, del nulla.

Perché è importante per uno psicanalista riflettere su questo? Perché qui troviamo veramente due nuclei fondamentali. L’angoscia come esperienza della libertà, cioè del nulla, del mio essere senza fondamento, e dunque dipendere dalle mie scelte. Il mio valore dipende dalle mie scelte, dalle mie azioni, dalla mia prassi. E poi c’è un altro nucleo, l’esperienza di essere sommerso da un reale da cui non posso fuggire, che mi imprigiona. Quindi abbiamo l’esperienza di un “meno”, l’angoscia nei confronti della libertà, e l’esperienza di un “più”, la nausea nei confronti dell’eccesso.

Questi sono i due poli fondamentali su cui Freud e Lacan costruiscono l’esperienza dell’angoscia. Per Freud, l’angoscia è sempre sul lato del “meno”, della separazione. Ma Lacan riprende un altro Freud, e dice che l’angoscia non sorge dall’esperienza della perdita, sorge dall’impossibilità della perdita, dalla mancanza della mancanza. L’angoscia non sorge dalla mancanza, ma dal fatto che manca la mancanza. Il soggetto si sente intrappolato nell’impossibilità di evadere. Questo lo dice anche Freud rispetto alla pulsione: noi non possiamo fuggire dalla pulsione, non è un nemico esterno da cui possiamo fuggire a gambe levate. La pulsione è una presenza da cui non possiamo distanziarci, non possiamo sfuggire. C’è una coalescenza tra la pulsione e il mio stesso corpo, che rende impossibile separarsi dalla pulsione.

Ecco, quello che vi sto mostrando è il passaggio dall’angoscia alla nausea, ed è molto simile al passaggio dall’angoscia freudiana all’angoscia lacaniana. Vi do un’altra definizione di angoscia di Lacan, che è molto sartriana: “L’angoscia è la sensazione della vita.” Cosa vuol dire? Vuol dire la sensazione della presenza in eccesso della vita, della presenza ingovernabile della vita. Quindi non è l’angoscia della perdita dell’oggetto, ma l’angoscia della presenza in eccesso dell’esistenza.

Vedete come questo lavoro che si fa ha degli echi veramente importanti. E l’ultimo punto, non trascurabile, è che Sartre voleva intitolare questo romanzo Melancholia. Fondamentalmente voleva evocare l’esperienza della melanconia, di cui parleremo nel dettaglio domani. Ma come possiamo definire l’esperienza melanconica, riportata alla sua radice? Il melanconico fa esperienza dell’esistenza come priva di senso. Non c’è alcun senso nell’esistenza.

Questo senso io dico che il melanconico rovescia la prospettiva paranoica. Il paranoico vede il senso dappertutto; una certa filosofia è paranoica in quanto diventa macchina di interpretazione: senso dappertutto, cioè abolisce il non senso. Viceversa, nel melanconico, l’esperienza drammatica è quella di non trovare nessuna forma di senso. E allora fa esperienza dell’esistenza come puro “Uno”, staccato dall’altro, staccato dal senso. Ed è un’esperienza di sprofondamento, di turbamento. Certo, la rivelazione per la filosofia è, con la parola platonica che conosciamo, la meraviglia nei confronti della manifestazione del mondo e della vita. Ma giustamente Severino propone sempre di tradurre questo thauma non tanto come meraviglia e stupore nei confronti dell’apparizione del mondo, ma con il termine trauma. C’è un trauma.

Lacan parla della rivelazione, Lacan scusate, Sartre parla della rivelazione come di un trauma. La nausea è un’esperienza di perturbamento, non è un’esperienza di stupore meravigliato, ma di sovversione del soggetto, e quindi di turbamento radicale.

Concludo – sono andato molto, molto in là – giusto per arrivare a un punto che è la pars construens, che è molto più ristretta della pars destruens. Diciamo che questo romanzo è sulla pars destruens, ma c’è anche una pars construens che potrà deludere molti.

La domanda potremmo porcela così: come se ne esce? Se non si può uscire dall’esistenza, se è impossibile evadere dall’esistenza, come si può rendere la nausea esperienza di un risveglio dal tormentamento di Bouville, collettivo e individuale, e dunque esperienza, diciamo così, di un rinnovamento dell’esistenza stessa? Se l’esistenza è questa prigione e noi non possiamo evadere da questa prigione, come possiamo ritrovare una possibilità, se l’esistenza è questo luogo dell’impossibile?

Beh, qui la prospettiva che il giovane Sartre tratteggia è una prospettiva estetica. Si può rispondere all’eccesso dell’esistenza, si può sopportare questo eccesso, usando un termine che Nietzsche dà un’importanza enorme ne La nascita della tragedia, ma soprattutto nel tentativo di autocritica, che è la prefazione a La nascita della tragedia. Come possiamo sopportare tutta questa esistenza?

Fergnani citava ripetutamente, nei momenti in cui il pathos didattico lo afferrava, la famosa frase nietzschiana: “L’esistenza può essere giustificata solo in quanto fenomeno estetico.” Cosa vuol dire? L’esistenza non può essere giustificata ontologicamente, non può essere riscattata ontologicamente dal senso, poiché l’esistenza eccede il senso. Ma può essere riscattata come fenomeno estetico.

Nel romanzo, i momenti di pacificazione di Roquentin, i momenti di beatitudine, si verificano quando lui ascolta un brano di jazz. L’ascolto di questo brano di jazz lo strappa dall’esistenza e lo include in quello che Sartre definisce il “campo dell’essere”. Il campo dell’essere non è il campo dell’esistenza, il campo dell’essere ha una caratteristica che Sartre descrive in un dettaglio molto importante: il protagonista Roquentin paragona se stesso alla puntina dura del grammofono che suona il disco di ragtime Norton. Questa durezza della puntina d’acciaio è il campo dell’essere. Quello che noi proviamo di fronte a un’opera d’arte è un’estasi che è differente dall’estasi orribile a cui la nausea ci espone di fronte al pieno dell’esistenza. L’estasi di fronte all’essere è l’estasi di un “anti-mondo,” direbbe Sartre, lettore di Flaubert, che realizza l’esistenza e ci apre ad un’altra esperienza possibile dell’esistenza nell’esistenza.

Questo è il significato chiave della scrittura stessa di questo libro. Questo libro è una scrittura che parla di ciò che è impossibile scrivere, cioè il pieno dell’esistenza. In questo senso, questa scrittura è il luogo dell’essere come “anti-mondo.”

Grazie a tutti.

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