Risvegliare la poesia sarda nella cultura contemporanea

Le poesie sarde, cantate nei balli e nelle attività quotidiane, venivano tramandate oralmente come il dialetto. Ignorate dalla scuola, rappresentano una ricca eredità culturale da preservare.

Queste poesie

di Michelangelo Pira

Si cantavano, le poesie pubblicate in questo libro ed altre come queste, nei balli tondi, nelle serenate, nelle vendemmie, nelle tosature e nelle solitudini dei campi, nei palchi delle «feste grandi», a sa lestra e a sa lenta, a boch ’e notte, accompagnate da tenores, dall’organetto, dalla chitarra, o anche soltanto da campani di pecore al pascolo. Così, le si imparava con la stessa «naturalezza» con la quale si apprendeva il dialetto.

Non c’erano professori a spiegarle, ma neanche a inaridirle con «lezioni» complicate. Non era importante sapere chi le aveva cantate per la prima volta: erano di tutti, patrimonio pubblico, appunto come la lingua.

La scuola le ignorava, queste nostre poesias, come ignorava e continua ad ignorare altre cose nostre importanti (contos e leges, locos e zente). Del resto anche i non molti di noi che frequentavano la scuola italiana al di là della terza elementare le lasciavano anch’essi fuori, queste cose. Eppure queste poesie, con altre, costituivano una letteratura che veniva tramandata e arricchita nei luoghi di lavoro e di vita da un’altra scuola, orale, impropria, «alla macchia» (com’è stata definita), bandita, ma molto più frequentata della scuola italiana, e con programmi più aperti, più ricchi, più stimolanti e docenti più numerosi, più severi e insieme più affettuosi.

Soltanto di qualche autore (poeta mannu) si sapeva il nome, il luogo di nascita (un paese non lontano) e qualche aneddoto, come quello di Luca Cubeddu che, ospitato molto poveramente a Tula, aveva commentato:

E m’ana postu in sa banca lattuca
cun duas o tres fozas de vinuju:
su aer fatto custu a padre Luca,
in Tula nch’è su vamine a binuju.

Erano poesie da cantare (raramente da dire) anche quelle più tristi, come Gisella e Addemàla di Paulicu Mossa, del quale si sapeva che era stato ucciso da un bandito e che un altro poeta lo aveva pianto:

Un’oju aisti e ti nde l’as bogadu:
como, Bonorva, cantas a s’ìscuru.

Poesie da cantare: dunque canzones e canticos. Collaudate, filtrate, limate, «consacrate» dall’uso fattone nel tempo (anche gli autori delle più recenti sono scomparsi da più di mezzo secolo) dalla gente, dal popolo che le faceva sue e tramandava. Così le poesie di questo libro, e altre come queste, arricchiscono ancora oggi la nostra sensibilità intellettuale, sociale, affettiva, morale. Esse hanno aiutato la gente dei nostri paesi a dire i propri sentimenti. Rusticos e biddaresos se ne sono serviti per esprimere i loro amori (ite bella chi ses, cantu m’aggredas, | cant’ a sos ojos mios ses grasciosa: | a mes’ aprile non fiori’ rosa | colorida che tue e attraente. | Tue faghes amante unu serpente | cun so’ risitos tuos e miradas: | ite bella chi ses, cantu m’aggradas) e i loro affanni (palchì no torri, dì’, tempu paldutu? | palchì no torri, dì’, tempu passatu?).

Poesie organiche, dunque, ai modi di sentire e di pensare della gente; canzoni che dicevano e talvolta istituivano il senso individuale e collettivo della vita nei luoghi dove si cantavano. Da queste poesie si può partire (e si parte) anche per discorsi difficili, che però non vogliamo tentare; paghi come siamo di ritrovarle, queste poesie, nella loro immediata significanza; paghi come siamo di sorprenderci ancora a cantarle sia pure a mezza voce o anche in un muggugno; o paghi soltanto di sentirci ancora abitati da questi canti, di ritrovarci comunicanti e comunicati in essi che costituiscono un capitolo importante della nostra storia personale e collettiva; paghi di ritrovare in essi la funzione sociale, liberante e umanizzante, della poesia.

Il libro ci propone un uso ulteriore di una letteratura che le nuove generazioni, cresciute più dentro la scuola ufficiale che dentro la scuola impropria, conoscono meno delle generazioni precedenti e spesso non conoscono affatto. A questo punto della nostra storia il continuare a lasciare questa letteratura fuori della scuola ufficiale e dei nuovi canali di comunicazione di massa porterebbe rapidamente ad una mutilazione della nostra identità culturale. Con questo libro, che restituisce i testi ai loro autori e accosta poesie scritte nei diversi (e maggiori) dialetti sardi in una prospettiva di passaggio da una lettura, per così dire, zonale ad una regionale, questa letteratura incomincia a bussare alle porte della scuola ufficiale di massa.

Anche questo fatto ci dà la misura delle mutazioni intervenute nel nostro modo di essere nel tempo e di pensare il tempo. Siamo, vorremmo essere comunque, alla vigilia di un recupero nella «cultura colta» della poesia sviluppatasi sul terreno della cultura antropologica, in una prospettiva di integrazione tra le due culture. Ci pare, in ogni modo, che sia questa la strada da percorrere, se è vero che Ottana fid Ottan’antigamente: como totu su mundu es cambiadu (sono versi antichi ma, a quanto pare, più che mai attuali).

—Prefazione a Il meglio della poesia in lingua sarda, a cura di Manlio Brigaglia, Edizioni della Torre, 2003

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