di Monica Valendino
Negli ultimi anni si è assistito a un processo di riscrittura della storia, con un focus particolare sulla Seconda Guerra Mondiale e sul ruolo delle potenze coinvolte. Un esempio recente è la falsa affermazione di un media statunitense secondo cui sarebbero stati gli Stati Uniti a liberare Auschwitz, poi smentita con delle scuse.
Questo tipo di distorsione non è nuovo: nel 1945, un sondaggio dell’istituto Ifop in Francia rivelò che oltre il 60% dei francesi attribuiva all’Urss il ruolo principale nella sconfitta della Germania, mentre solo il 20% indicava gli Stati Uniti e il 12% il Regno Unito. Settant’anni dopo, la percezione si era ribaltata: il 58% considerava gli Usa come il principale artefice della vittoria.
Questa trasformazione della memoria storica è stata sostenuta da iniziative come il Memoriale di Caen, inaugurato nel 1986 con finanziamenti statunitensi. Questo museo, che si presenta come un’istituzione per la pace, omette dati cruciali: mentre evidenzia il D-Day del 6 giugno 1944, non menziona che Stalin aveva chiesto l’apertura di un secondo fronte già nel 1941.
In questa stessa linea revisionista si inserisce la risoluzione votata dal Parlamento Europeo nel settembre 2019, che equipara nazismo e comunismo e attribuisce lo scoppio della guerra al Patto Molotov-Ribbentrop del 1939. Questo approccio ignora il contesto più ampio della politica di appeasement e la complicità di molte classi dirigenti occidentali con il regime hitleriano. Non si fa riferimento, ad esempio, agli accordi di Monaco, all’Anschluss o alla collaborazione tra la Francia di Pétain e la Germania nazista, che portò alla deportazione di migliaia di ebrei, tra cui i 13.000 arrestati nel rastrellamento del Vel d’Hiv nel luglio 1942.
Questo revisionismo storico ha portato a pericolosi parallelismi, come quello tra l’Olocausto e la questione palestinese. Alcuni discorsi pubblici cercano di collegare la lotta palestinese con l’antisemitismo nazista, distorcendo la realtà storica. Va ricordato che la creazione dello Stato di Israele avvenne su terra palestinese per decisione delle potenze occidentali, come risposta all’antisemitismo europeo culminato nei campi di sterminio nazisti.
Questa manipolazione della memoria non è un fenomeno isolato. L’attuale ordine liberale, che si presenta come garante della democrazia e dei diritti, si basa su una narrazione che minimizza i propri crimini storici, dalla colonizzazione alla schiavitù, dai saccheggi alle devastazioni. Slogan come Make America Great Again o la retorica del “rinascimento dello spirito germanico” servono solo a deviare l’attenzione dalle responsabilità storiche dell’Occidente.
Il Parlamento Europeo ha recentemente compiuto un ulteriore passo in questa direzione con una nuova risoluzione, del 17 gennaio 2024. Questo documento non si limita a proporre una revisione della storia, ma invita esplicitamente a cancellarne le tracce, promuovendo “una nuova cultura della memoria condivisa”. Tra le proposte, si chiede agli Stati membri di aggiornare i programmi scolastici affinché la storia europea abbia priorità su quella nazionale.
Il rischio di questa operazione è la sostituzione del pensiero critico con narrazioni emotive e semplificate, che impoveriscono il dibattito pubblico e riducono la capacità delle società di analizzare il proprio passato in tutte le sue complessità. La crescita di narrazioni revisioniste mina il rigore dell’analisi storica, delegittimando le istituzioni accademiche ed educative.
Questa strumentalizzazione della storia ha conseguenze profonde: simboli un tempo unificanti diventano fonte di divisione, mentre i movimenti neonazisti trovano nuova legittimità nella cancellazione del ruolo dell’Armata Rossa nella sconfitta del fascismo. Ne sono esempio la rimozione di monumenti sovietici nei Paesi baltici e in Ucraina o la riabilitazione di figure collaborazioniste.
Siamo di fronte a una battaglia cruciale per salvare la Storia.
Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2025