Ecco un breve riassunto per ciascun articolo presente nel numero L’ordine del Caos di Limes:
PARTE I – ORDINARIE FOLLIE
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“Stargate e l’autoscontro delle stelle rosse” – Giuseppe De Ruvo
Analisi sulle nuove tecnologie militari spaziali e il crescente conflitto tra potenze globali per il dominio dell’orbita terrestre. -
“Se la Bomba non ci protegge più dalla Bomba” – Agnese Rossi
Riflessione sulla deterrenza nucleare in un contesto geopolitico sempre più instabile e sull’erosione del suo ruolo di strumento di sicurezza. -
“La guerra è noi” – Giacomo Mariotto
Esamina la militarizzazione della società moderna e il modo in cui la guerra permea ogni aspetto della politica e dell’economia globale. -
“La governanza è il caos” – Giuliana Commisso
Discute il collasso delle strutture governative tradizionali e la crescente anarchia nella gestione delle crisi globali. -
“Il dollaro e la fine dell’eccezione cinese” – Russell Napier
Analisi del declino del primato economico cinese e della ridefinizione dei rapporti monetari globali con gli USA. -
“La moneta apolide mina lo Stato” – Fabrizio Maronta
Esplora l’impatto delle criptovalute e delle valute digitali sulla sovranità degli Stati e sui sistemi economici nazionali. -
“Il genere come disordine” – Nicola Cirulli
Analisi delle implicazioni sociopolitiche delle identità non binarie nel contesto della crisi culturale occidentale. -
“L’impero del caos o del principio di ragion insufficiente” – Giuseppe De Ruvo
Un approfondimento sul caos geopolitico contemporaneo e sulle forze che lo alimentano.
PARTE II – OCCIDENTI IN CONFUSIONE
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“La Groenlandia e la forza del destino” – Federico Petroni
Il ruolo strategico della Groenlandia nel futuro delle relazioni tra USA, Europa e Cina. -
“Thule, chiave della Groenlandia americana” – Andrea Campanelli
Approfondimento sulla posizione militare e politica della Groenlandia negli equilibri strategici globali. -
“L’Europa deve prepararsi all’interregno americano” – Seth Cropsey
Riflessione sulla transizione geopolitica e sulla necessità per l’Europa di ridefinire il proprio ruolo con il declino della leadership USA. -
“Una Nato dormiente per l’America imperiale” – Sumantra Maitra
Analisi critica della NATO e del suo ruolo nel futuro assetto mondiale. -
“Ultimatum al Messico: chiudete le frontiere o ve le chiudiamo noi” – Lorenzo Di Muro
Le tensioni tra Stati Uniti e Messico sulla questione migratoria e sulla sicurezza del confine. -
“L’apocalisse di Peter Thiel” – Alessandro Aresu
Ritratto dell’influenza del miliardario Peter Thiel sulla politica e sulla visione del futuro globale. -
“Una Nato polacca per salvare l’Occidente” – Wojciech Lorenz
L’ipotesi di una leadership polacca per rafforzare la sicurezza dell’Europa orientale. -
“La Polonia guarda a nord” – Miłosz J. Cordes
L’orientamento strategico della Polonia verso i paesi baltici e la Scandinavia. -
“L’Inghilterra filo-europea non serve all’America” – Harry Halem
Analisi sul posizionamento geopolitico del Regno Unito post-Brexit. -
“A Berlino la Zeitenwende non basta” – Karl-Heinz Kamp
Esamina le difficoltà della Germania nell’affrontare la trasformazione geopolitica in corso.
PARTE III – GUERRA GRANDE A CAOS UNIFICATI
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“Come ci prepariamo alla guerra” – Carmine Masiello
Riflessione sulle nuove dottrine militari per affrontare le guerre ibride e asimmetriche. -
“Prove di guerre stellari” – Marcello Spagnulo
Analisi delle nuove tecnologie belliche spaziali e della corsa agli armamenti nello spazio. -
“Come dao comanda: la Cina cerca opportunità nella crisi americana” – Giorgio Cuscito
Il modo in cui la Cina sta sfruttando il declino USA per rafforzare la propria posizione globale. -
“Nodo ucraino o nodo di Gordio” – Jeffrey Mankoff
Le implicazioni strategiche della guerra in Ucraina e il suo impatto sugli equilibri globali. -
“Ucraini e russi a confronto” – Oleksij Arestovyč e Andrej Sušencov
Un’analisi delle divergenze tra le prospettive strategiche di Russia e Ucraina. -
“La Romania resterà a stelle e strisce” – Mirko Mussetti
Il ruolo della Romania come avamposto della NATO nel confronto con la Russia. -
“L’Ungheria non è cavallo di Troia di Russia e Cina ma Laocoonte dell’Occidente” – Attila Demkó
Il posizionamento ambiguo dell’Ungheria tra Est e Ovest. -
“Entropie balcaniche” – Laris Gaiser
Le tensioni nei Balcani e il loro impatto sulla stabilità europea.
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“La guerra è noi” – Giacomo Mariotto
Abbiamo vissuto nell’illusione che la guerra fosse un relitto del passato, un fenomeno superato dall’evoluzione della civiltà e dalle istituzioni internazionali. Eppure, ci ritroviamo immersi fino al collo in un mondo che brucia, dove gli equilibri geopolitici sono scompaginati, le crisi si moltiplicano e le linee rosse vengono continuamente superate. La realtà è che la violenza non è mai scomparsa: la guerra è dentro di noi, parte integrante della nostra storia e del nostro presente. Oggi, non è ancora una guerra mondiale, ma il mondo è in guerra.
Negli ultimi cinque anni, il numero di conflitti attivi è più che raddoppiato, superando la soglia dei cinquanta, un record assoluto dalla fine della Seconda guerra mondiale. I tradizionali punti di riferimento della politica internazionale sono sfocati, le gerarchie globali si disgregano e nei vuoti di potere si insinuano nuovi attori pronti a ridefinire gli assetti. Dall’Europa orientale al Medio Oriente, dal Nord Africa ai Balcani, gli Stati si dissolvono, il caos avanza e la violenza si diffonde con un’intensità che non si vedeva da decenni.
Questo non è il risultato del caso, né un accumulo casuale di conflitti locali. È il riflesso della transizione egemonica in corso, la crisi della Pax Americana. Per trent’anni, gli Stati Uniti hanno creduto di essere la “nuova Roma”, arbitri incontrastati dell’ordine globale. Ma oggi, l’illusione si è dissolta. Il problema non è che Washington non sia più in grado di rimodellare il mondo a propria immagine; è che tutti, amici e nemici, hanno capito che non lo è mai stata. E così, gli avversari sfidano l’America proprio nei punti dove la sua egemonia si mostra più fragile: in Ucraina, nel Mar Cinese Meridionale, in Medio Oriente.
L’Europa si è cullata per decenni nell’idea che il conflitto fosse una reliquia del passato, un’eccezione ormai superata dalla storia. Abbiamo creduto che la nostra sicurezza fosse garantita da trattati, istituzioni e buone intenzioni, dimenticando che l’ordine internazionale si regge sulla forza, non sulla morale. Abbiamo smilitarizzato la nostra cultura, rinnegato il ruolo del potere militare, e oggi ci scopriamo impreparati.
L’Italia, più di altri paesi, si è rifugiata nella comoda illusione che la violenza fosse un’anomalia da rimuovere, una parentesi tragica che si poteva archiviare una volta per tutte. Il mito degli “italiani brava gente” ha cancellato dalla memoria collettiva il peso che la guerra ha avuto nella nostra storia, la violenza subita e inflitta, il ruolo che il militarismo ha avuto nel plasmare la nostra identità nazionale.
Per decenni abbiamo vissuto nell’idea che il futuro della guerra sarebbe stato asettico, tecnologico, gestito da droni e cyberattacchi, con pochi uomini e zero morti. Ma l’Ucraina ci ha riportati bruscamente alla realtà. La guerra di logoramento, le trincee, gli eserciti di massa, i bombardamenti sulle città: il passato che credevamo archiviato è tornato con una brutalità sconvolgente. E non siamo pronti.
La nostra dipendenza dalla protezione americana è stata data per scontata, ma oggi mostra tutta la sua fragilità. Gli Stati Uniti non garantiranno per sempre la nostra sicurezza. Eppure, continuiamo a rimuovere il problema, a evitare qualsiasi riflessione sul ruolo delle forze armate, a nascondere persino i dettagli delle forniture militari all’Ucraina, mentre altri paesi li dichiarano apertamente. È il riflesso di una società che rifiuta di riconoscere la guerra come una realtà inevitabile, come un fattore permanente della storia umana.
Il mondo sta tornando a essere governato dal rapporto di forza. E noi ci troviamo nudi di fronte a questa nuova realtà, privi degli strumenti materiali e culturali per affrontarla. Abbiamo smesso di pensare la guerra, di prepararci a essa, di capire le dinamiche che la governano. Ma la guerra non ha smesso di pensare a noi.
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“La Groenlandia e la forza del destino” – Federico Petroni
La Groenlandia si trova oggi al centro di una competizione geopolitica sempre più accesa, spinta dall’importanza strategica della regione artica e dalle trasformazioni indotte dal cambiamento climatico. Il progressivo scioglimento dei ghiacci ha reso l’Artico più accessibile, aprendo nuove rotte marittime e rendendo sfruttabili risorse naturali un tempo irraggiungibili. Questo mutamento ha attratto l’attenzione delle grandi potenze, in particolare degli Stati Uniti, che vedono nella Groenlandia un perno essenziale per la sicurezza e l’influenza nella regione.
La Groenlandia, pur essendo formalmente parte del Regno di Danimarca, gode di un’ampia autonomia e un crescente desiderio di autodeterminazione. Tuttavia, la sua collocazione strategica e le sue risorse naturali fanno sì che gli equilibri politici ed economici dell’isola siano sempre più influenzati da dinamiche esterne. Gli Stati Uniti hanno storicamente riconosciuto l’importanza della Groenlandia, come dimostra la presenza della base aerea di Thule, fondamentale per il sistema di difesa missilistico nordamericano. La posizione geografica dell’isola permette un monitoraggio privilegiato delle attività nell’Artico e rappresenta un potenziale punto di appoggio per operazioni militari.
L’amministrazione americana ha manifestato un interesse crescente per la Groenlandia, con episodi eclatanti come la proposta di acquisto dell’isola avanzata dall’ex presidente Donald Trump. Anche se la proposta è stata ufficialmente respinta dalla Danimarca, ha rivelato il peso strategico che Washington attribuisce a questo territorio. L’influenza statunitense nella regione non si manifesta solo in termini militari, ma anche attraverso investimenti economici e cooperazione con il governo locale, che vede negli Stati Uniti un potenziale alleato per affrancarsi dall’influenza danese.
La Danimarca, dal canto suo, si trova a gestire una situazione complessa. Pur detenendo formalmente la sovranità sulla Groenlandia, deve bilanciare le proprie relazioni con gli Stati Uniti e con la stessa popolazione groenlandese, sempre più incline a rivendicare una maggiore indipendenza. L’interesse internazionale per l’isola potrebbe accelerare questo processo, mettendo in discussione gli assetti storici della regione.
La crescente attenzione globale per la Groenlandia si inserisce in un quadro più ampio di rivalità tra le grandi potenze nell’Artico. La Russia ha rafforzato la sua presenza militare nella regione, mentre la Cina ha investito massicciamente in infrastrutture e progetti minerari, cercando di ritagliarsi un ruolo nelle dinamiche artiche. Gli Stati Uniti vedono con sospetto queste manovre e stanno cercando di consolidare la loro posizione per evitare che la Groenlandia diventi terreno di penetrazione per potenze rivali.
L’importanza della Groenlandia non si limita alla sua posizione strategica. L’isola è ricca di risorse naturali, tra cui terre rare, minerali critici per l’industria tecnologica e risorse energetiche potenzialmente sfruttabili. Questi fattori aumentano l’interesse economico nei confronti del territorio, spingendo sia attori statali che privati a cercare opportunità di investimento. Tuttavia, lo sviluppo economico dell’isola è frenato da condizioni climatiche estreme, infrastrutture limitate e una popolazione ridotta, elementi che rendono difficile una trasformazione rapida e sostenibile.
Il futuro della Groenlandia dipenderà dall’evoluzione degli equilibri geopolitici e dalle scelte politiche della sua leadership. L’isola potrebbe avvicinarsi progressivamente all’indipendenza, cercando di giocare un ruolo autonomo nel contesto artico, oppure potrebbe rimanere nell’orbita danese, mantenendo un fragile equilibrio tra le pressioni internazionali. In ogni caso, la Groenlandia è destinata a essere un attore sempre più rilevante nella competizione tra le potenze globali, e le decisioni che verranno prese nei prossimi anni influenzeranno non solo il destino dell’isola, ma anche le dinamiche geopolitiche dell’intero Artico.
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“Thule, chiave della Groenlandia americana” – Andrea Campanelli
Thule è il cuore pulsante della strategia americana nell’Artico. Situata nella Groenlandia settentrionale, questa base aerea, oggi ribattezzata Pituffik Space Base, rappresenta uno degli asset più strategici per la sicurezza degli Stati Uniti. Il suo ruolo non si è mai limitato alla difesa della Groenlandia, ma ha avuto implicazioni dirette sulla sicurezza del Nord America e sull’intera architettura della deterrenza statunitense. Da avamposto durante la Guerra Fredda contro la minaccia sovietica a fulcro della difesa missilistica e delle operazioni spaziali, Thule è il simbolo della continuità dell’interesse americano per l’Artico.
Le dichiarazioni di Donald Trump sulla Groenlandia hanno riacceso i riflettori su una questione che covava sotto la superficie da decenni. L’ex presidente non ha mai nascosto il suo desiderio di annettere l’isola, arrivando a dichiarare apertamente che il controllo sulla Groenlandia è un’esigenza vitale per gli Stati Uniti. Questo interesse non è affatto nuovo: già nel 1946, l’amministrazione Truman aveva offerto alla Danimarca 100 milioni di dollari per acquistare la Groenlandia. Un’offerta respinta, ma che segnalava quanto la posizione di quest’isola fosse considerata cruciale.
La storia di Thule è la storia della militarizzazione dell’Artico. Nel 1940, quando la Germania nazista invase la Danimarca, la Groenlandia si trovò isolata. La paura di un’occupazione tedesca spinse i vertici groenlandesi a stringere un accordo con Washington. Nel 1941, gli Stati Uniti assunsero il controllo della difesa dell’isola, avviando una presenza militare che non si sarebbe più interrotta. Con il nuovo equilibrio imposto dalla Guerra Fredda, la Groenlandia divenne un tassello fondamentale della strategia americana per contenere l’Unione Sovietica. Thule fu scelta come sede di una delle più avanzate basi dell’Air Force, con un ruolo chiave nel sistema di allarme precoce contro attacchi missilistici.
La costruzione della base avvenne in tempi record e con un costo altissimo, anche umano. I residenti inuit di Thule furono trasferiti con la forza per far posto alla nuova infrastruttura, una decisione che avrebbe lasciato cicatrici profonde nella popolazione locale. La base divenne operativa nel 1952 e ospitò inizialmente i bombardieri B-36 e B-47, capaci di trasportare bombe nucleari. Negli anni successivi, Thule entrò a far parte del Ballistic Missile Early Warning System (BMEWS), il sistema di radar avanzato progettato per identificare in tempo reale eventuali attacchi missilistici sovietici.
Uno degli episodi più controversi della storia di Thule si verificò nel 1968, quando un bombardiere B-52 armato con quattro bombe termonucleari si schiantò nelle vicinanze della base. L’incidente scatenò un caso diplomatico tra Stati Uniti e Danimarca, che fino a quel momento non era stata informata sulla presenza di armi nucleari nella base. La crisi portò Washington a garantire formalmente che non avrebbe più schierato armi nucleari su suolo groenlandese, ma le ombre su quella promessa non si sono mai del tutto dissipate.
Con la fine della Guerra Fredda, l’attenzione sulla Groenlandia sembrava destinata a calare. Tuttavia, gli eventi degli ultimi decenni hanno riportato l’Artico al centro della competizione globale. L’emergere della Cina come attore interessato alla regione, il ritorno della Russia come potenza militare artica e la crescente importanza strategica delle rotte polari hanno ridato slancio alla presenza americana a Thule. La base è stata modernizzata e ha assunto un ruolo di primo piano nelle operazioni spaziali dell’Air Force e della Space Force, consolidandosi come uno dei principali centri di comando satellitare e di intelligence.
La rivalità tra Stati Uniti e Cina si riflette anche nella partita groenlandese. Pechino ha cercato di inserirsi nella regione attraverso investimenti economici, progetti infrastrutturali e operazioni commerciali. Nel 2018, una società cinese tentò di acquisire una vecchia base navale abbandonata in Groenlandia, scatenando una reazione immediata da parte di Washington. La Danimarca, su pressione americana, bloccò l’operazione, evitando che la Cina potesse ottenere una testa di ponte nella regione.
Il crescente attivismo cinese ha spinto gli Stati Uniti a rafforzare la loro presenza in Groenlandia e a raffreddare le velleità indipendentiste dell’isola. I leader groenlandesi, che vedono l’autonomia come un obiettivo politico prioritario, si trovano di fronte a un dilemma: da un lato, l’indipendenza li esporrebbe a pressioni esterne che potrebbero minare la loro sovranità; dall’altro, la permanenza sotto il controllo danese garantisce stabilità, ma impedisce loro di sviluppare una politica estera autonoma.
Thule rimane il pilastro della strategia americana nell’Artico. L’ammodernamento delle sue strutture, il rafforzamento delle operazioni spaziali e il nuovo contesto geopolitico indicano che il suo ruolo è destinato a crescere. La Groenlandia è diventata un terreno di scontro tra potenze, e gli Stati Uniti non intendono cedere nemmeno un millimetro del controllo che esercitano su di essa. Il futuro della base dipenderà dall’evoluzione degli equilibri globali, ma una cosa è certa: per Washington, la Groenlandia non è solo un pezzo di terra ghiacciata, ma una frontiera strategica irrinunciabile.
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“Entropie balcaniche” – Laris Gaiser
L’Europa si illude che la polveriera balcanica sia stata definitivamente messa in sicurezza, ma la realtà è che il caos continua a fermentare sotto la superficie. La stabilità è solo apparente, una fragile impalcatura costruita su accordi internazionali inefficaci e su un equilibrio di potere che si regge sul nulla. Chi crede che le guerre jugoslave appartengano ormai ai libri di storia dimostra una visione miope e pericolosa. La tensione è latente, pronta a esplodere alla minima scintilla, e chiunque osservi da vicino la regione se ne rende conto con spietata chiarezza.
L’Italia, che per ragioni storiche e geografiche dovrebbe essere uno degli attori principali nei Balcani, si è mossa per decenni senza una strategia definita. Ha investito risorse, uomini, denaro, ha mandato contingenti militari e diplomatici, eppure il suo peso politico nella regione è rimasto trascurabile. Roma è stata generosa, ma confusa. Ha agito senza obiettivi chiari, lasciandosi trascinare dagli eventi invece di influenzarli. Nel frattempo, altri attori, con investimenti molto più modesti, hanno ottenuto risultati decisivi. La Germania, per esempio, ha consolidato un’influenza economica invidiabile, mentre la Turchia ha saputo inserirsi nei vuoti di potere con una determinazione che all’Italia è sempre mancata.
Gli Accordi di Dayton, osannati come la grande soluzione alla guerra in Bosnia, si sono rivelati il vero cappio al collo della regione. Il sistema politico bosniaco è un castello di carta costruito su veti etnici incrociati, un meccanismo disfunzionale che alimenta il nazionalismo e impedisce qualsiasi progresso. La Bosnia ed Erzegovina non è uno Stato, ma una macchina inceppata che produce solo tensioni. Milorad Dodik, leader della Republika Srpska, sfida apertamente l’autorità centrale di Sarajevo, minacciando la secessione con una regolarità quasi meccanica. Nel frattempo, a Belgrado si fa di tutto per tenere aperta la ferita del Kosovo, negandone la legittimità come Stato sovrano. Albin Kurti, primo ministro kosovaro, non è da meno: sfrutta ogni crisi bosniaca per rafforzare il suo potere interno, alimentando il conflitto con la Serbia.
I Balcani non sono mai stati un sistema chiuso, ma un groviglio di fili che si intrecciano con il resto d’Europa e oltre. Ogni crisi ha ripercussioni che vanno ben oltre i confini nazionali, eppure l’Unione Europea sembra incapace di comprendere la portata del problema. Le cancellerie europee, paralizzate dalla loro stessa burocrazia, osservano le tensioni senza intervenire, mentre attori esterni si muovono con crescente disinvoltura. La Russia di Putin continua a sfruttare le fratture balcaniche per destabilizzare l’Europa, usando la Serbia come testa di ponte per la sua influenza. La Turchia, sotto Erdoğan, ha consolidato la sua posizione tra i musulmani bosniaci e albanesi, ritagliandosi uno spazio che Bruxelles non è stata capace di occupare. La Cina, con il suo approccio silenzioso ma efficace, ha investito pesantemente nelle infrastrutture della regione, acquistando porti, strade, centrali energetiche.
L’Italia, che avrebbe potuto essere l’ago della bilancia in questo intricato gioco di potere, ha scelto di restare spettatrice. Ha avuto la possibilità di trasformare il suo coinvolgimento militare ed economico in un’influenza politica duratura, ma ha preferito accontentarsi di un ruolo di secondo piano. Roma non ha saputo costruire una visione strategica, non ha colto l’importanza di avere un’agenda balcanica chiara e coerente. Il risultato è che oggi l’Italia viene percepita nella regione come un attore diplomaticamente cortese, ma privo di reale peso.
Se la situazione non cambia, il rischio è quello di trovarsi di fronte a una nuova esplosione di instabilità. Non serve molto per far deflagrare una crisi nei Balcani. Un episodio di violenza, un’elezione contestata, un intervento sconsiderato da parte di qualche leader locale. La miccia è sempre accesa, e l’Europa sembra decisa a ignorarlo. Una conferenza internazionale che ridefinisca gli equilibri della regione sarebbe necessaria, ma nessuno sembra voler prendere l’iniziativa. Si preferisce fingere che tutto sia sotto controllo, che la stabilità sia acquisita, mentre il caos continua a fermentare sotto la superficie.
La geopolitica non ammette vuoti di potere. L’Italia ha sprecato un’occasione storica per essere un attore decisivo nei Balcani, e ora rischia di essere costretta a subirne le conseguenze senza avere alcun margine di manovra. Non si governa una regione instabile con la sola buona volontà, servono visione, determinazione, capacità di imporsi. Qualità che, finora, l’Italia ha dimostrato di non possedere.