di Carlo Pagetti
In un saggio più volte ristampato – ma apparso per la prima volta sul numero speciale che Science-Fiction Studies dedicò a Philip K. Dick nel 1975 – lo scrittore polacco Stanisław Lem definì Dick «un visionario tra i ciarlatani», un autore genuinamente ispirato che rimestava le sue pozioni magiche nel calderone ribollente di idee, fantasie, miti avveniristici in cui fermenta la fantascienza americana.
Visionario e ossessivamente preoccupato della propria esistenza inquieta e precaria – tanto da farne colare qualche densa goccia di sangue nella produzione fantascientifica, apparentemente così immune dalle tentazioni autobiografiche – Dick era consapevole degli strumenti espressivi a sua disposizione. Fin dagli anni Cinquanta, proprio mentre la science fiction stava mutando pelle e accentuando la sua vena anti-utopica, egli pubblica romanzi e racconti che esplorano criticamente l’universo instabile dell’immaginario scientifico e il suo impatto devastante sull’individuo, prigioniero di grandi poteri de-umanizzanti, che ‘storicamente’ coincidevano con l’entità politica Stati Uniti d’America, ma che abbracciavano una più vasta estensione metafisica. Torna alla mente, a questo proposito, il dialogo tra Amleto e i suoi falsi amici Rosencratz e Guildenstern nel secondo atto dello Hamlet shakespeariano, un’opera che Dick avrebbe esplicitamente utilizzato nel 1959 in Time Out of Joint, il ‘tempo fuor di sesto’:
AMLETO: La Danimarca è una galera.
ROSENCRATZ: Allora lo è tutto il mondo.
AMLETO: Certo, una gran bella galera con tante celle e bracci e segrete. E la Danimarca è una delle peggiori.
Negli stessi anni Dick tenta la strada della narrativa di riflessione ‘diretta’ sulla realtà americana contemporanea, usando i toni amari e grotteschi che appartengono alla tradizione del romanzo d’oltre Atlantico e che riaffiorano nel black humour di un altro autore di fantascienza più fortunato di Dick: Kurt Vonnegut, jr. In effetti, nella maggior parte delle sue opere, Dick fonde un livello realistico, impastato di esplicite allusioni alla condizione americana e non immune da parodici tocchi autobiografici, e un discorso di ‘genere’, che usa liberamente e spesso ironicamente tutte le convenzioni della science fiction. La pozione narrativa che emerge proietta il lettore nella dimensione allucinata di Kafka, di Borges, di Pynchon.
Non è un caso che nel 1969 – un anno dopo la comparsa di Do Androids Dream of Electric Sheep?– Kurt Vonnegut pubblichi quella che è probabilmente la sua opera migliore, Slaughterhouse n. 5 (Mattatoio n. 5), in cui la visione mitica di una meravigliosa civiltà galattica si affianca all’incubo del passato storico e autobiografico: dalle macerie della città tedesca di Dresda, annientata dai cacciabombardieri alleati nella notte tra il 13 e il 14 febbraio 1945, una umanità annichilita, rappresentata dal soldato americano Billy Pilgrim (il fratello maggiore di Forrest Gump), involontario testimone dell’apocalisse, non può risorgere se non nella fantasticheria escapista e pseudo-edenica delle divinità di Trafalmadore, alla cui superiore imperscrutabile volontà si possono attribuire tutte le malefatte della Storia.
Eppure Dick, pur pubblicando dal 1964 con Doubleday, un editore importante, non riuscì mai a sfondare nell’ambito della cultura postmoderna, sempre più fashionable, e rimase imprigionato tra le maglie del proprio vissuto tumultuoso, fatto di matrimoni falliti, di amicizie disordinate, di frustrazioni curate con la droga e – sempre di più – di vere e proprie allucinazioni, in cui realtà e finzione si mescolano come in uno dei suoi romanzi. I volumi di lettere pubblicati, che coprono più o meno il periodo degli anni Settanta, rivelano appieno le difficoltà esistenziali dello scrittore. Eppure le lettere sono anche una testimonianza commovente della volontà di Dick di tornare dal suo Inferno privato per raccontare ai lettori l’orrore di una condizione non puramente individuale, piuttosto emblematica e universale. In una lettera datata 12 gennaio 1976 Dick confessa con umiltà forse un po’ ironica la propria incapacità di mettersi in contatto con scrittori famosi che possano aiutarlo a lanciare A Scanner Darkly, uno dei romanzi a cui tiene di più. Per telefono si è vantato di conoscere Saul Bellow e Susan Sontag, ma non è vero, e i funzionari di Doubleday «vogliono gente come William Burroughs, Kurt Vonnegut – tutti gli eroi da culto della controcultura, affinché leggano [A Scanner Darkly]. Ma, qui è l’impiccio: sono io che devo avvicinare questa gente, questi grandi della letteratura, e, a dirla tutta, non ne conosco assolutamente nessuno.»
Nel suo romanzo ‘realista’, scritto nel 1959, Confessions of a Crap Artist (Confessioni di un artista di merda), Dick si era calato nel personaggio di Jack Isidore, a lui coetaneo, che aspetta l’arrivo degli alieni osservando non le stelle, ma il sottosuolo tellurico della California:
Oggi, negli anni ‘50, l’attenzione di tutti è rivolta verso l’alto, verso il cielo. È la vita sugli altri mondi che interessa la gente. Eppure, in ogni momento, il terreno può aprirsi sotto i nostri piedi e razze strane e misteriose possono riversarsi nel cuore del nostro mondo. Vale la pena di farci un pensiero, e proprio qui in California, a causa dei terremoti, la situazione è particolarmente all’ordine del giorno. Ogni volta che c’è una scossa di terremoto io mi domando: ‘È questa che aprirà una falla nel terreno e che alla fine rivelerà il mondo interiore? Sarà questa la scossa decisiva?’
Varrà la pena di notare che il ‘mondo interiore’ (the world inside) su cui medita Jack assomiglia molto, nella sua valenza simbolica, allo inner space di cui scrive nel 1968 J.G. Ballard nel suo «Which Way to Inner Space?», in cui evoca «lo scafandro da palombaro che Salvador Dalì usò alcuni anni fa a Londra, per tenere una conferenza». Come ha osservato Lem, la ‘new wave’ della fantascienza britannica, fiorita negli anni Sessanta, deve molto a Dick; eppure, salvo che per John Brunner, nessuno si accorse di lui.
Intanto, però, Jack Isidore ricompare in Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (che così continueremo a chiamare, per distinguere il romanzo dickiano dal film di Ridley Scott). Ora egli è un povero semideficiente, lo ‘speciale’, il cervello di gallina (chickenhead), che tuttavia è dotato di quelle virtù cristiane – pietà, carità, amore per il prossimo – di cui tutti gli altri personaggi, compreso il ‘cacciatore di androidi’ Rick Deckard, sono sprovvisti.
Da ‘artista di merda’ a cervello di gallina che si occupa di animali artificiali – questa è la carriera di Isidore, così metaforicamente e autoironicamente simile a quella di Philip K. Dick, che si dedica a costruire opere di fantascienza ‘scadenti’, ‘difettose’, pallide imitazioni della vera letteratura. La parabola dello scrittore postmoderno si compie nella consapevolezza di appartenere alla sfera della cultura trash, che è raccolta di rifiuti, immagazzinamento di scorie e dei resti del ricco pasto rigurgitato dalla letteratura ‘alta’, alla cui tavola imbandita sono stati invitati anche i «grandi della controcultura», osannati e riveriti. Dick è rimasto fuori dalla porta, a raccontare le sue storie atroci e visionarie.
Eppure, in mezzo al kipple, alla palta (come assai bene traduce Riccardo Duranti), ai rifiuti che stanno sommergendo la San Francisco di Ma gli androidi…, si può trovare uno straordinario tesoro letterario; come nell’ultimo romanzo compiuto di Dickens, Our Mutual Friend (Il nostro comune amico), i cumuli di immondizie depositati lungo la riva del Tamigi, abilmente setacciati, rivelano la presenza di un ricco bottino.
Non resta dunque che seguire l’autore – e la sua pericolosa guida pronta a sparare, il cacciatore di androidi – nel mondo oscuro della San Francisco del futuro, e penetrare nelle viscere che sono il sottosuolo dell’inconscio e dunque il deposito di sogni e visioni. Se gli androidi del titolo sono condannati a sognare pecore elettriche, non diversamente da loro i personaggi di Dick sono immersi in sogni di plastica, contaminati dall’illusione di cogliere qualche brandello di conoscenza che filtri dagli schermi televisivi o si sprigioni dalle droghe sintetiche, necessarie per alleviare il peso della vita quotidiana. Ed è proprio l’attività onirica che rende gli androidi simili ai loro creatori. Essi sognano un passato che non esiste, tanto da essere talvolta all’oscuro della loro origine artificiale, sognano di essere cantanti liriche e ricche ereditiere, agenti sovietici – o cacciatori di androidi; sognano perfino di distruggere l’odiata umanità a cui pure aspirano ad appartenere – tanto che il presentatore televisivo Buster Friendly (uno di loro) si prepara a rivelare la falsità della religione redentrice di Wilbur Mercer, togliendo ogni speranza ai derelitti che – identificandosi con la dolorosa salita sul Golgotha che Mercer compie nella visione mistica della empathy box, la scatola empatica – vi riconoscono la propria miseranda condizione esistenziale. Eppure, sognando, gli androidi si riscoprono umani e chiedono di essere accettati come tali. Proprio la più crudele di loro, Rachael Rosen – un’ennesima variante della donna seduttrice e gelida di cuore, che Dick temeva, eppure agognava di possedere nella sua vita turbolenta – appare cosciente della propria inadeguatezza e sterilità, tanto che, mentre si appresta a unirsi con il cacciatore di androidi in uri accoppiamento mostruoso e innaturale, si interroga:
«Gli androidi non possono avere figli» disse infine. «Ci perdiamo qualche cosa?»
Lui finì di spogliarla, mettendo a nudo i suoi lombi pallidi e freddi.
«Ci perdiamo qualche cosa?» ripetè. «Non lo so; non ho termini di confronto. Che si sente ad avere un figlio? Anzi, che si sente a essere nati? Noi non nasciamo mica; non cresciamo; invece di morire di malattia o di vecchiaia, ci consumiamo come formiche. Sempre le formiche: ecco che cosa siamo. Cioè, non te. Voglio dire, io: macchine chitinose dotate di riflessi che non sono veramente vive.» Girò la testa d’un lato e gridò: «Io non sono viva! Non stai per andare a letto con una donna. Cerca di non rimanerci male, va bene? Hai mai fatto l’amore con un androide prima d’ora?»
Ma, in seguito, accuserà Rick di essere disumano, perché antepone la sua preziosa capra nubiana alla moglie e a lei. Forse Rachael ucciderà lo status symbol che Rick si è comprato con i soldi della taglia per gelosia.
Sappiamo che Dick era ossessionato dai simulacri artificiali che avevano conquistato l’immaginario americano. Rachael, con la sua bellezza costruita in laboratorio, ricorda la bambola Barbie, che dal 1959 aveva invaso il mercato degli Stati Uniti. Lo scrittore californiano aveva notato la vicinanza del parco giochi di Disneyland alla sua abitazione, situata a Santa Ana. Dick Hebdige ha rievocato una visita a Disneyland compiuta da Dick assieme all’amico e collega Norman Spinrad:
I due parlarono del Watergate sulla coperta della nave pirata di Capitan Uncino. Nello stesso giorno Dick discusse con Spinrad della nascita del fascismo mentre roteavano dentro una gigantesca tazza da tè… A quei tempi, Dick pensava un sacco alla simulazione. Non poteva mai dimenticare il fatto di sapere come recarsi a Disneyland dal suo appartamento, il fatto che, in un modo strano, Disneyland era la dimora delle ossessioni che lo spingevano a scrivere. In quei giorni si preoccupava tantissimo su come tracciare una linea tra realtà e finzione (fiction), copie e originali, l’autentico e l’inautentico.
Frammenti di realtà deformata, manipolata, si insinuano tra le pagine di Ma gli androidi…, a suggerire che anche nell’universo pili artificiale e ciarlatanesco (l’universo della fantascienza?), brandelli di verità ricompongono il corpo della creatura-romanzo. La science fiction come il mostro di Frankenstein, dunque, che aspira alla pienezza della condizione umana e grida ad alta voce l’ingiustizia del creatore, che l’ha abbandonata inorridito dalle sue laide fattezze. E questo uno dei motivi dickiani che Ridley Scott svilupperà in una delle sequenze memorabili di Blade Runner, allorché la creatura luciferina, il ‘re folle’ Roy Batty e il suo occhialuto e decrepito signore si incontrano: allora la carezza del figlio è mortale.
Altri brandelli si innestano nel corpo del romanzo. Esso assimila anche un racconto del 1964, «The Little Black Box», per la verità non tra i migliori di Dick. In «The Little Black Box» la religione di Wilbur Mercer, basata sul contatto empatico con le maniglie della ‘piccola scatola nera’, è in grado di propagarsi con estrema facilità, malgrado le persecuzioni a cui è sottoposta da parte dei due Imperi mondiali, il capitalista e il comunista, una volta tanto alleati. Non è chiaro se l’impatto del Mercerismo sia benefico, perché esso è descritto come un sistema di verità assolute, altrettanto monolitico delle ideologie che potrebbe sostituire. Inoltre, il Mercer del racconto ha forse origini extra-terrestri, e potrebbe prefigurare l’invasione dallo spazio di una creatura terribile che ha il ghigno mostruoso di Palmer Eldritch. In Ma gli androidi… Wilbur Mercer è una quintessenza di umanità, tanto da rivelarsi a Isidore come un mediocre attore ubriacone, un imbroglione che non esita a confessare di aver girato su un set televisivo la tragica sequenza della sua salita sul Golgotha — esattamente come l’androide Buster Friendly ha denunciato.
Eppure, anche uno spot pubblicitario – perché di questo si tratta – non può saper raccontare una sua paradossale verità sulla condizione dell’uomo? E magari con maggiore intensità di un vuoto sermone, di una predica solenne?
Altri cenni presenti nel romanzo dickiano ci ricordano Counter-Clock World, un’opera pubblicata anch’essa nel 1968, che è tra le più lugubri e apocalittiche dello scrittore americano. Di fatto, questi due romanzi, assieme a Ubik, costituiscono, secondo Patricia Warrick, la terza fase di Dick, il ‘periodo entropico’. Sia Ubik sia Ma gli androidi… vengono scritti nel 1966, quando Dick, alla sua terza esperienza matrimoniale, vive con Nancy Hackett, una ragazza dai lunghi capelli neri quindici anni più giovane dello scrittore. Siamo in un momento di fervore creativo e anche di sperimentazioni narrative, in cui Dick abbandona definitivamente l’idea di rimanere fedele a un ‘genere’ SF ben definito, e procede invece a un’opera di ibridizzazione, in cui fantastico puro, gotico, poliziesco concorrono a rimescolare le carte di una scrittura ormai pienamente postmoderna, proprio perché essa si serve di generi considerati marginali, minori, per scombinarli e sottoporli a una rivisitazione ironica e a tratti paradossale.
Va anche detto che Ma gli androidi… non trovò grandi estimatori, almeno in un primo momento, e lo stesso Dick, in un’intervista del 1977, non lo colloca tra le sue opere più importanti. Nel 1972, Stanisław Lem, che fu tra i primi a intuire la grandezza di Dick (e Dick lo ripagò – bisogna ricordarlo, per capire certe spigolosità e nevrosi dell’uomo – accusandolo di aver manovrato contro di lui un complotto comunista, che doveva attirarlo i Polonia), distingue nettamente tra Ubik e Ma gli androidi…: il primo è moneta d’oro sonante, il secondo «moneta contraffatta». Anche Darko Suvin, che curò il già citato numero speciale di Science-Fiction Studies nel 1975, osserva un po’ frettolosamente che Ma gli androidi… è un fallimento, perché rappresenta gli androidi nello stesso tempo «come proletariato sottoposto alle ingiustizie e come minaccia disumana», confondendo dunque due livelli di significato assai diversi. E tuttavia Suvin non manca di aggiungere, a proposito di Dick: «la sua preoccupazione per l’alienazione e la reificazione, per gli esseri umani a una dimensione, è pari, in termini di fantascienza, alla preoccupazione di un’intera generazione, espressa in opere come quella di Marcuse e di Laing». E infatti l’uomo a una dimensione di Marcuse e l’io diviso di Laing abitano le pagine dei romanzi di Dick. Lo scrittore californiano aveva elucidato in modo convincente uno dei motivi centrali di Ma gli androidi… in un saggio del 1976, «Uomo, androide e macchina», pubblicato in Italia da Feltrinelli nel volume di saggi Mutazioni:
Nell’universo esistono cose gelide e crudeli, a cui io ho dato il nome di ‘macchine’. Il loro comportamento mi spaventa, soprattutto quando imita così bene quello umano da produrre in me la sgradevole sensazione che stiano cercando di farsi passare per umane pur non essendolo. In questo caso le chiamo ‘ androidi ‘… Mi riferisco a una cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con successo per un nostro simile. Che ciò avvenga in un laboratorio o meno per me non ha molta importanza: l’intero universo è una sorta di enorme laboratorio, da cui provengono scaltre e crudeli entità, che ci sorridono tendendoci la mano. Ma la loro stretta è quella della morte, e il loro sorriso è di un gelo tombale.
Il recupero di Ma gli androidi… avviene nel 1982 – l’anno della morte di Dick – grazie alla comparsa sugli schermi di Blade Runner di Ridley Scott. Pur distaccandosi in più punti dall’opera di Dick, tanto da rendere totalmente umani i ‘replicanti’ e da eliminare quasi del tutto dalla trama i motivi religiosi e il ruolo giocato dagli animali artificiali, Ridley Scott cattura la visione tragica e insieme grottesca di Ma gli androidi…, accentuando la metamorfosi del ‘genere’ SF in un noir cupo e metafisico, in cui Rick Deckard, recitato da Harrison Ford, assorbe qualcosa del detective Philip Marlowe di Chandler (così come la Rachael di Sean Young richiama all’inizio una dark lady chandleriana) e affronta in un truculento duello western-futuristico il Roy Batty di Rutger Hauer, pericolosamente contiguo a un superuomo germanico, mentre Sebastian – introdotto nel film al posto di Isidore – introduce lo spettatore nel suo personale mondo di balocchi, simile a una sinistra Disneyland. Ibridazione si aggiunge quindi a ibridazione, senza che si possa ricomporre in modo definitivo l’immagine frantumata di un mondo a venire, che è dentro di noi, sepolto nei sogni e nelle fantasie del nuovo millennio. La prodigiosa entità metamorfica continua, infatti, a trasformarsi nei videogiochi che si ispirano a Blade Runner. Essi offrono ormai l’alternativa di diverse conclusioni, a seconda che il cacciatore di androidi sia ‘uno di loro’ (o ‘uno di noi’?), ovvero che egli completi la sua opera di killer spietato massacrando i replicanti uno dopo l’altro.
Già nel romanzo di Dick, del resto, il personaggio di Rick Deckard, ‘gemello’ di Isidore, secondo la Warrick, consente alla trama narrativa di svilupparsi secondo un doppio punto di vista, una biforcazione, che presuppone differenti interpretazioni. Se Isidore è solo e in balia degli altri (uomini o androidi, non importa), Rick ha una moglie, che tuttavia lo rifiuta, un ambiente domestico confortevole a cui tornare, aspirazioni di status sociale (perciò con i soldi della taglia vuole permettersi il lusso di acquistare uno dei pochi ‘veri’ animali sopravvissuti alle radiazioni nucleari), un’arma che sa usare da efficiente professionista. La vicenda che si concentra in un’unica intensa giornata gli toglie però qualsiasi certezza. Fin dalla scena iniziale – il risveglio mattutino – la moglie Iran rifiuta di farsi toccare dal consorte («toglimi di dosso quelle manacce da sbirro!»). Il viaggio per la città desolata – ingombra di immondizie che proliferano come erbacce nutrite dalla radioattività diffusa nell’aria – è pieno di insidie. L’identità di Rick è continuamente messa in discussione dagli eventi. Luba Luft, la cantante androide che ama la musica e l’arte, lo accusa di essere egli stesso una macchina omicida; il suo aiutante, Phil Resch, si rivela parte di un’organizzazione di androidi che è ormai in grado di gestire strutture di polizia parallele a quelle ‘ufficiali’ (ammesso che la parola abbia ancora un senso). Eppure è un individuo timorato di Dio, premuroso verso il suo amato scoiattolo e diligente nel lavoro. Rachael, con cui Rick tradisce la moglie, si vendica di lui uccidendogli l’ambita capra nubiana. Isidore, che lo ha aiutato a sterminare gli ultimi androidi (in una scena brusca che suona un po’ come un anti-climax rispetto allo spettacoloso duello che oppone i due protagonisti di Blade Runner), rifiuta la sua amicizia, non avendo nulla da spartire con un killer. Infine, quello che sembra un incontro salvifico con Wilbur Mercer nella wilderness a nord di San Francisco, è fonte di nuovo disappunto, perché il rospo raccolto amorosamente da Deckard è anch’esso artificiale, come tutti i surrogati in circolazione. Non rimane che il ritorno a casa, lo homecoming del guerriero ferito nello spirito, dove l’unico vero ‘prodigio’ del romanzo si compie tra le mura domestiche, e dunque lontano dall’apocalittico spazio privilegiato dalla fantascienza, hic et nunc, verrebbe da dire, allorché Iran accoglie il marito con parole affettuose e perfino ordina mosche artificiali, affinché il rospo venga nutrito. Forse non possiamo fare altro che sognare pecore artificiali.
E tuttavia, la paradossale domanda compresa nel titolo del romanzo continua a riverberare, anche quando il sipario è calato su una coppia americana in crisi, temporaneamente riconciliata.
Se il confine tra androide ed essere umano è ormai caduto e siamo tutti androidi; se l’artificialità dell’intera esistenza è stata dimostrata in modo incontrovertibile nelle sue più alte tensioni religiose (anche Cristo è un falso, come succede nel blasfemo cartoon di South Park, dove Egli si è trasformato in un personaggio televisivo), tuttavia la ‘confessione’ fatta da Wilbur Mercer a Isidore nel mondo tombale equivale a una vera e propria rivelazione, capace di rimettere in discussione il nichilismo apocalittico di Ma gli androidi…, senza bisogno di ricorrere allo happy end ‘ecologico’ del film di Scott, del resto imposto dalla produzione – ma forse la coppia cinematografica composta dal cacciatore di androidi e da Rachael si avvia verso l’orrendo albergo maledetto di Shining a celebrare la notte nuziale.
Mercer rappresenta il simulacro grottesco della figura del Redentore, il Sisifo di una mitologia televisiva, ricreata dalla empathy box (oggetto misterioso per eccellenza, che è impossibile ricondurre a una qualsiasi verosimiglianza scientifica). E tuttavia, il suo ‘vero’ nome dovrebbe farci riflettere, poiché egli si chiama Al Jarry, come Alfred Jarry, il drammaturgo maledetto a cavallo tra i due secoli, l’inventore della patafisica, un genio eversivo. Infatti, i poteri taumaturgici di Mercer appaiono, almeno a Isidore, autentici, poiché il ragno orribilmente mutilato dagli androidi riacquista le sue zampe. A modo suo, Isidore assiste (forse) a un ‘vero’ miracolo, mentre Rick si deve accontentare del perdono della moglie. Non solo, ma il ‘messaggio’ di Mercer (mercy = misericordia) si intona alla perfezione al comportamento generoso e altruista di Isidore nel segno del motto evangelico: «Beati gli ultimi perché saranno i primi»:
«Ma io sono una truffa» rispose Mercer. «Loro dicono la verità; le ricerche che hanno fatto sono vere. Dal loro punto di vista io non sono che una vecchia comparsa in pensione che si chiama Al Jarry. Tutta quella roba della denuncia è vera. Mi hanno intervistato a casa, proprio come hanno detto; ho detto loro tutto quel che volevano sapere, cioè tutto.» «Compresa la storia del whisky?»
Mercer sorrise. «Sì, era vero. Hanno fatto un ottimo lavoro e dal loro punto di vista la rivelazione di Buster Friendly era molto convincente. Avranno molti problemi a capire come mai non è cambiato nulla. Come mai tu sei ancora qui e anch’io sono ancora qui.» Con un ampio gesto del braccio Mercer indicò l’erta spoglia del monte, quel luogo così familiare. «Ti ho appena tirato fuori dal mondo della tomba e continuerò a tirarti fuori finché non perderai interesse e vorrai smettere. Ma sarai tu a dover smettere di cercarmi, perché io non smetterò mai di cercarti.»
Una volta perduta la speranza del messaggio divino calato dall’alto dei cieli, nel mondo artificiale di Ma gli androidi… non resta che la voce di un profeta fasullo, che tuttavia enuncia ancora una volta la verità del Verbo. In quello che forse è il romanzo più ‘cristiano’ di Dick, il lettore viene lasciato solo con se stesso a interrogarsi sulla natura dei sogni. Può identificarsi con Rick Deckard che, sentendosi attratto dagli androidi, ha voluto possedere la donna androide con un gesto d’amore disperato e fine a se stesso. Può identificarsi con Isidore, il buffone derelitto, il Santo idiota, che crede ancora nel suo Dio, che gli parla e lo consola. Forse troveremo una risposta all’interrogativo che risuona in tutto il romanzo. Gli androidi – e gli esseri umani che sono così simili a loro – sognano davvero pecore elettriche, sognano anche «una vita migliore, senza servitù». Forse talvolta sognano l’agnus Dei, l’agnello divino, reincarnatosi in una creatura artificiale, che redime dai peccati del mondo coloro che credono in lui.
Fonte: Philip K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, traduzione di Riccardo Duranti, introduzione e cura di Carlo Pagetti, postfazione di Gabriele Frasca, collana Collezione Immaginario Dick, Fanucci Editore, 2000, pp. 286