Il demonio è cane bianco

Il demonio è cane bianco | di Sergio Atzeni

In una Sardegna arcaica, neve rossa e demonio segnano destini: Luisu, nato tra presagi, sfida avarizia e fame per scoprire sé stesso e la forza della terra.

«Sono sardo, sono italiano, sono anche europeo», ha scritto Sergio Atzeni. «Possiamo parlare di letteratura sarda? Dando risposta affermativa pretendiamo di essere una identità (i sardi) capace di esprimere una propria visione del mondo, sia pure in lingua importata. Niente di cui scandalizzarsi, il bulgaro ebreo Elias Canetti ha scritto in tedesco i suoi capolavori, intere etnie della Mitteleuropa hanno adottato a causa di svariate vicende storiche il tedesco come lingua di comunicazione letteraria, gli afroamericani di Martinica e Guadalupe esprimono l’identità creola in un francese che arricchisce, modifica e mette in crisi i dizionari d’oltralpe». Morto giovane, inghiottito dal mare della sua isola, dopo aver scritto alcuni racconti e tre romanzi, per Sergio Atzeni si potrebbe cercare una definizione raramente adeguata e difficile da usare nel piccolo mondo letterario italiano: uno scrittore etnico. Cioè, convinto che la letteratura sia la casa vera della lingua e della cultura, e che in essa un popolo conserva e dona contemporaneamente la propria identità, la rafforza mescolandola con le altre. Così, il sardo Atzeni scriveva in un italiano aggraziato da innesti di lingua sarda, storie giacenti nel fondo della cultura del suo popolo: ma arricchendole di metafore e sensi ulteriori, posteriori, presenti. Moderne epopee, rapide ma intrecciate di innumerevoli eventi e quadri, intorno a un eroe popolare emblematico ma brulicante di personaggi e caratteri.

Il demonio è cane bianco è stato pubblicato a Cagliari (Le Volpi Editrice) per la prima volta nel 1984 con il titolo Araj dimoniu, antica leggenda sarda e disegni di Giorgio Pellegrini e ripubblicato con lo stesso titolo sui numeri 21 e 22 di «Linea d’ombra», novembre e dicembre 1987.

Con Il demonio è cane bianco, Sergio Atzeni intreccia una narrazione che non relega la Sardegna a un semplice scenario statico, ma la rende un organismo pulsante, un cuore vivo che scandisce il ritmo della storia attraverso i suoi paesaggi vibranti e le sue ancestrali risonanze; una terra che, segnata da una nevicata rossa e carica di presagi, si rivela progressivamente in un susseguirsi di immagini ricche di dettagli e personaggi che sembrano emergere direttamente dal tessuto di una leggenda tramandata nel tempo. La morte di Papale Porcu, figura patriarcale che per novant’anni ha incarnato il dominio e la connessione viscerale con la sua terra, diventa l’innesco di un ciclo narrativo che non si limita a intrecciare mito e realtà, ma li fonde in una trama densa e ombrosa, capace di riflettere la vita collettiva degli abitanti, intrecciandola a quel paesaggio che è insieme rifugio e minaccia.

Luisu, il bambino nato nella carestia e cresciuto tra le profezie della coga, diventa il filo conduttore di un racconto che respira con il ritmo della tradizione orale. La sua corsa attraverso il paese, le colline, e infine verso il latte benedetto della fontana rappresenta una ribellione, un richiamo alla speranza in un mondo oppresso dal silenzio e dalla chiusura. Atzeni non si sofferma mai troppo su un dettaglio, ma lascia che ogni scena evochi significati molteplici. La lingua, in questo, gioca un ruolo fondamentale: l’italiano è impregnato di cadenze sarde, rendendo il testo vibrante, quasi musicale.

Giona Porcu, l’erede che chiude la casa dietro un portale nero, incarna la cupidigia e l’isolamento. La sua figura è opposta a quella del padre, che aveva fatto della sua terra un luogo aperto, in cui il cibo e la compagnia si condividevano con tutti. In Giona si riflettono le paure di un uomo che non comprende il mondo e che si protegge con le sbarre. La sua avarizia è punita dalla terra stessa, che restituisce solo spine laddove un tempo dava abbondanza. Atzeni descrive tutto con una precisione visiva che trascina il lettore dentro quel paesaggio, tra i fiori secchi e i rovi, i muretti e le colline spoglie.

Il demonio, che corre attorno al paese ridendo, è una presenza che non spaventa ma inquieta. Non ha bisogno di azioni plateali per affermarsi; è nei dettagli, nelle spighe che diventano armi, nei giorni che sembrano sempre più corti. La sua figura si confonde con quella del cane bianco, con Araj, il cavallo che accompagna Luisu nel suo viaggio. Non è tanto un’entità maligna quanto un riflesso delle angosce e delle colpe che abitano gli uomini.

La forza di Il demonio è cane bianco sta nella capacità di raccontare senza mai cadere nel sentimentalismo. Atzeni non idealizza il mondo che descrive: è duro, spesso crudele, ma sempre intriso di un’energia che sembra provenire dalla terra stessa. Ogni scena è costruita con una densità che evoca immagini e sensazioni, come il profumo acre delle colline o il suono del vento tra i cespugli. Non è un racconto di facile lettura, ma chi si lascia trascinare scoprirà una voce che unisce il canto antico alla narrativa moderna.

Questa è una storia che respira con il ritmo delle stagioni e delle tradizioni. Atzeni ci consegna una Sardegna che non è mai immobile, ma in perenne mutamento, dove la terra non perdona chi non sa ascoltarla e il futuro appartiene a chi osa correrle incontro.

* * *

Il demonio è cane bianco

di Segio Atzeni

I

È notte, nevica, e la neve copre il fango, i cortili, gli alberi, ogni cosa. L’alba colora le colline a oriente, le fa lucenti, rosa e sangue. La terra di Papale Porcu invece resta nera, come se la notte non volesse lasciarla, volesse strapparla e portarla via. Ma a mezzogiorno il sole la conquista, e anche su quella terra la neve è rossa.

Nevica neve rossa, e al primo fiocco che sfiora la finestra muore Papale Porcu, che aveva novant’anni da tre giorni. Soltanto il cielo non gli apparteneva, il cielo è di Nostro Signore, ma la terra, gli alberi, gli uomini, la pianura fino alle colline, tutto era suo. La ricchezza non ha dannato la sua anima. Ascoltava le preghiere dei cristiani maltrattati dalla cattiva fortuna. Mai ha negato un pasto, una moneta, un giaciglio, al vagabondo, all’ospite, al mendicante. Papale Porcu va via dal mondo, e le donne lo cantano. Sanno che è vissuto abbastanza, e hanno cantato altri morti, pure sono spaventate, tremano: mai, prima, hanno visto la neve colore del sangue.

Poi Meni Serra. Non aveva trent’anni, né marito, e muore di parto. Si segnano tutti, nella stanza, e il bambino nasce al mondo. Una coga scende dai paesi del nord, inattesa. La chiamano, e legge la vita del neonato: – Lutti e miserie, ma il Signore gli segnerà la strada, tornerà bianco di latte e vedrà il mare –. Battezzano il bambino e lo chiamano Luisu.

Antioco Isaia Durzu si sveglia al tramonto. Esce dall’ovile, vede la neve rossa, sente che puzza di palude, e la assaggia. Ciliegia, che appena sulla lingua comincia a marcire. Sputa via, con rabbia, e vede Lucifero che corre attorno al paese, ride, salta, maledice, rivela i giorni che arriveranno, la carestia e la fame, e lo sguardo nero, muto e attento, del messaggero che annuncerà la morte. Vivrà ancora dodici anni, Antioco Isaia, e non parlerà più. In paese diranno che il demonio gli ha cucito la bocca coi suoi aghi.

Papale Porcu ha un figlio solo. Si chiama Giona e ha vissuto quarant’anni nascosto dentro casa. Nessuno lo conosce, eccetto pochi servi scelti per la bocca chiusa. Qualcuno ricorda a malapena il battesimo di un coso fasciato di bianco che frignava.

Una volta ha tentato di sposarsi di nascosto. Con Teresa, una bella serva giovane. Ha mandato un’ambasciata a mezzanotte in canonica, e prete Saddi gli ha fatto rispondere che ci si sposa di giorno, davanti a Dio e agli uomini, di notte vivono topi e pipistrelli.

Da quel giorno neanche Teresa è più uscita di casa.

Giona Porcu, figlio di Papale Porcu e sconosciuto, diventa padrone della terra più fertile, degli alberi e dei ruscelli.

La neve si scioglie, i giorni si rincorrono, e Luisu succhia al petto di molte madri, e ingrassa, sorride. Ha i capelli scuri come terra e per tutti è figlio. Cammina, cade, poi corre sulle gambe malferme. Compie un anno, poi due.

Giona Porcu esce di casa a cavallo. Ha gli occhi spalancati, neri come la notte. Cavalca una bestia bizzosa, che si impenna e nitrisce, scalcia, demonio che vuol disarcionare il cavaliere. Giona Porcu non cade da cavallo. Il fucile luccica come la scimitarra di un demonio mussulmano. E uccide un uomo che ha rubato quattro pecore.

Tzia Cosima, una vecchia donna sola, segue Luisu come un’ombra, e il bambino si affeziona e la chiama mammai. Ha un giardino a basilico e pomodori, con conigli e galline, e uno dei conigli, bianco, con orecchie rosa, aspetta per ore su uno sgabello i rientri di Luisu dai vagabondaggi in paese – che lo portano dappertutto ma non a casa di Giona Porcu, chiusa dal portale nuovo.

Ogni mattina nel giardino tzia Cosima comanda: – Chiudi gli occhi, bitzinné – e Luisu li chiude, ma non del tutto, e vede fra le ciglia la mano bianca di mammai che fruga nella paglia e cerca le uova coperte di piume bianche. Sente la voce calda e scura che canta un rosario di parole sconosciute. Le uova sono tiepide sulle palpebre del bambino. La magia lo difenderà dal male, nei giorni di carestia e in quelli di abbondanza, fino alla fine. Compie tre anni, e quattro, e cinque.

Un arco di pietre gialle introduceva al cortile di casa: il vecchio Papale sedeva su una sedia impagliata, sotto un limone, fra amici e mendicanti. Dalla porta di cucina arrivavano caffè e pistoccus, minestrone e vino rosso, e capretto e vernaccia nei giorni comàndati. Chiunque era benvenuto. Non mancavano noci e mandarini, d’inverno, e susine e meloni, d’estate, o fichi bianchi e neri, ravanelli e castagne, ogni ben di Dio.

Ma Giona Porcu ha fatto costruire un grande portale nero, l’ha messo a ostruire l’ingresso e l’ha rinforzato con sbarre e paletti.

I mendicanti bussano, e lui non apre. Finché un vecchio girovago, un uomo gentile con una lunga barba bianca, disegna sui ciottoli del vicolo, proprio davanti al portale nuovo, un segno bianco di gesso che vuol dire: – Qui abita un uomo avaro e cattivo –. Giona Porcu non lo cancella, e più nessuno bussa.

Luisu impara a odiare, guardando quel portale.

E si avventura in campagna, assieme ai bambini più grandi.

Chiunque entrasse nella campagna di Papale, fosse pure per staccare pere o uva fino a saziarsi, era il benvenuto. Il raccolto era una festa, le cuoche preparavano pentole di malloreddus e spillavano acquavite per tutti. Pagava i lavoranti con sacchi colmi. Giona Porcu ha costruito i muretti, ha chiuso la terra e ha messo di guardia uomini armati, difficili da ingannare, sospettosi, prudenti, violenti.

Solo i bambini riescono a farla franca… E Luisu è il più svelto a saltare, strappare, rubare, scappare via di corsa, in silenzio, colle orecchie tese come una volpe. Compie sei, e sette.

Inverno. Il vento sradica i cespugli e li fa vorticare nei vicoli colle foglie cadute.

Dentro casa è buio, e caldo. Cosima ha i piedi sul braciere, e Luisu si accuccia sulla stuoia. – Mammai, cantami un’anninnìa.

– Non vuoi mai fermarti, non vuoi mai dormire… Ogni notte, mentre dormi, cresci un tanto così… Se non dormi non cresci, resti sempre piccolino.

– Oh, mammai, un’anninnìa.

– Zitto. Bussano alla porta. Chi è?

– Mintonia.

Luisu batte le mani e Cosima risponde: – Entra figlia mia, entra, la porta è aperta.

Mintonia è serva da Giona Porcu, e ogni tanto ruba i mandarini, o le mele, e qualche pistoccu, e li porta al bambino. Le venute di Mintonia promettono festini.

– Quali nuove? – Tzia Cosima parla mentre ancora Mintonia si affanna a spingere la porta e mandar fuori il vento. E subito Luisu: – Cosa mi hai portato?

– Arance, e latte caldo.

– Ihuh-hu – salta, acchiappa la scodella, ma è calda – uuh –. Ci riprova con una pezzuola.

– Buono, Luì, che svegli le galline. E tu siedi, Mintonia, siedi.

Luisu sorseggia, perfettamente immobile sulla stuoia. Ha otto anni, è già grande.

– Tzia Cosima, voi sapete dell’oro di Giona Porcu. Lo conserva in quattro bauli, in quella stanza senza finestre. Ogni notte si rinchiude dentro, conta le monete e beve bicchieri d’acquavite. Dopo un po’ non riesce più a contare, e canta a voce alta. Quel conto ogni giorno ricomincia, e non finisce mai. Si addormenta sull’oro, e russa. Nessun altro può aprire quella porta: l’unica chiave la tiene lui stesso legata ai pantaloni…

– Stanotte non riuscivo a dormire… Il campanile ha suonato le due… Le fascine trascinate dal vento sbattevano sul muro del cortile e sulla mia finestra, e mi parevano anime di donne morte che sbattevano dappertutto senza trovare la strada., Era buio, dentro casa. E sento un rumore come di un bastone che picchia sul muro, alle mie spalle. Mi sollevo dal letto, spaventata. Socchiudo la porta e guardo fuori. Una luce, piccola come una mosca, viene dall’andito. La seguo. Non è una mosca, è un barlume di candele accese, viene dalla porta di Giona Porcu, socchiusa… Mi avvicino… Sento dentro una voce che prega… Spingo piano… E lo vedo, addormentato, sdraiato dentro un baule, insieme alle monete. E Teresa in un angolo, piegata, coi capelli sulla faccia e sul petto, che prega a voce bassa: «Madre misericordiosa, fammi morire». E non dice altro che questo. Sono fuggita via, e stanotte non posso dormire.

– Puoi dormire con noi, terrai caldo a Luisu.

Ma non dorme nessuno, e nessuno parla più, stanotte.

In ogni casa, in tutti gli ovili, per Luisu c’è una scodella di latte, un pezzo di pane, un po’ di formaggio. Compie nove anni, e dieci.

Spia quel vecchio… Dicono che il demonio gli ha cucito la lingua. Vive solo, in una casa di fango, su in alto, in cima al paese, più in alto del portale di Giona Porcu.

Giovanna, una ragazza sordomuta, gli porta un po’ di cibo e una coperta.

Luisu guarda la casa silenziosa, e immagina un uomo, Antioco Isaia Durzu, alto e barbuto, robusto e impegnato in un litigio continuo con un demonietto rosso veloce come un serpente e linguacciuto. Quell’uomo è tanto preso da non poter mettere il naso fuori di casa.

Luisu vede Giovanna che esce. Ha pianto. Cerca di nascondere i segni. Cammina lenta, a testa bassa.

Cosa sarà successo, là dentro? Il bambino immagina un gran diavolo nero che tiene sulle gambe un piccolo vecchio tremante e gli cuce la bocca con aghi roventi… Isaia passa le giornate a scucirla e ogni notte il diavolo la ricuce?

Mintonia racconta che Giona Porcu, a furia di togliere un pugno di farina al giorno, ha dimezzato il pane in bocca ai suoi servi.

Luisu compie undici anni.

A febbraio il gelo brucia l’erba. A marzo il fiume straripa e strappa le sementi.

Aprile nevica, e maggio piove. Alla fine di giugno il sole asciuga i pozzi, e a luglio l’acqua si avvelena. Agosto porta la carestia.

La fame prende il paese, e governa.

Nessuno ha grano per panificare, le pecore non danno latte, le galline non fanno uova.

Su disisperu spinge prete Saddi, su per il paese, fino al portale di Giona Porcu, e spinge la mano a bussare.

La casa è silenziosa, come se Giona Porcu e i suoi servi fossero spariti, o morti addirittura.

Prete Saddi è vecchio, curvo, ha fatto in tempo a conoscere Papale Porcu, erano grandi amici. E nuovamente bussa.

Silenzio.

Chiama a voce alta: – Giona Porcu!

Silenzio.

– Dì, l’hai vista, Giona Porcu? La terra è pietra, e i frutti seccano prima di nascere. Li hai visti?

Luisu e mammai, accovacciati sul braciere, ascoltano. Tutti in paese ascoltano. La voce del prete arriva dentro ogni finestra.

La casa di Giona Porcu è muta come un camposanto.

Il prete ricomincia, a voce più bassa, e nell’aria c’è soltanto la sua voce e il suo respiro. – Dicono che sei grasso, Giona Porcu, come la bestia che ti nomina. Non so se è vero, perché in tutta la vita non ti ho visto una volta sola. E dicono che ti nascondi come un ladro, e che sei avaro. E vedo questa porta chiusa alle mie preghiere. Chiusa da undici anni, Giona Porcu, da quand’è morto tuo padre, che non aveva bisogno di porte. Attento. Le cattive azioni portano cattiva fortuna.

Il prete aspetta, davanti al portale chiuso. I battiti del suo cuore suonano nel paese come il martello del fabbro.

Al tramonto il portale si apre. Lascia venir fuori un servo, che non dice una parola, e poggia un sacco di grano sul bordo della strada, dove scivola un’acqua putrida succhiata da mosche avide.

Prete Saddi raccoglie il sacco, e il portale si chiude alle sue spalle.

Un pugno di farina a ogni capofamiglia. Le donne impastano in silenzio, e il prete nuovamente sale a casa dell’avaro, e nuovamente bussa. È notte.

Aprono al primo colpo di battente. Un servo fa cenno al prete, – può entrare –, e lo conduce a una sedia, vecchia e sfilacciata, nel cortile, forse la stessa su cui sedeva al tempo di Papale Porcu, fra un fico che allunga i rami secchi, e le foglie scure e lucenti di un limone. Portano da bere. Una brocca di acquavite e una tazza.

Beve e aspetta.

Una mano riempie la tazza, una volta e due e tre… Le ore passano in fretta, il freddo costringe le palpebre a chiudersi, l’acquavite gli impedisce di riaprirsi… Troppo freddo, troppa fame, troppa paura e acquavite, tutto assieme…

Un sussurro, una voce debole, allegra. – Buona giornata, prete.

Apre gli occhi, si guarda attorno. Il mondo è illuminato da una luce grigia, opaca. Tutto fugge. E vede le scarpe lucide di grasso, i pantaloni marrone, un lembo della camicia scura, la schiena di Giona Porcu che sparisce oltre le foglie del limone…

La voce è allegra, ma cattiva. – Ti darò tre sacchi, solo tre, oggi stesso, quando lascerai questa casa. Altro non ti spetta e non ti sarà dato.

– Tre sacchi? – Il prete guarda le labbra che parlano senza comando… E guarda il culo tondo di Giona Porcu.

– Non voglio più sentirti al mio portale. La carestia non l’ho chiamata io, e non spetta a me mandarla via. I peccatori moriranno certamente, come hanno meritato. Per quanto riguarda me in persona, le mie preghiere mi mantengono in buona salute.

– Sei gonfio – sputano le labbra del prete che parlano da sole, come in sogno. – Gonfio, ma non sano.

– Giuro, prete. Se mi insulti ti uccido. Ne ho abbastanza della tua voce.

Prete Saddi si solleva, lento, e si avvia. Non china la testa, non più di quanto sia già chinata dagli anni, dalla vita, dalla fatica, e non cerca la faccia di Giona Porcu, nascosta dal limone. Un servo accompagna il prete. Un altro trascina tre sacchi all’acqua putrida e alle mosche, e chiude il portale.

Gli occhi del prete vedono il paese, i campi, la canonica giù in fondo, le case di pietra una dietro l’altra, il sole che spunta dietro le colline. E l’anima non capisce, guarda se stessa, o sogna, è perduta, è rimasta nel cortile, dietro il limone, su quella sedia sfilacciata, ascolta e riascolta mille volte la voce di quell’uomo – le mie preghiere… ne ho abbastanza… tre sacchi, oggi stesso…

Il prete è immobile, muto, spalle al portale. La sua anima è incatenata, prigioniera nel cortile di Giona Porcu.

Cosima si lamenta, sulla stuoia, e Luisu ha freddo.

Giovanna la sordomuta imbocca il vecchio Isaia. L’ha visto sempre uguale, immobile come pietra, con la faccia a terra e le mani in grembo, e solo le mani, nere e scavate da mille rughe, solo le mani vivono fuori dalla coperta che lo avvolge. Il vecchio Isaia leva la testa, gli occhi sono bianchi.

Giovanna chiede: – Perché? – Non aveva mai visto quegli occhi né mai pronunciato parola, prima. – Perché? – La voce suona alta, nel silenzio, e strappa l’anima del prete dal cortile, la riporta oltre il muro. E l’anima vede il paese, sente le galline morte, i campanacci conservati, i cani sfiniti dagli stenti. Non ha sognato. È stato tutta la notte su una sedia, ubriaco e intirizzito.

– Il tuo cuore è di pietra, Giona Porcu – voce rabbiosa, di maledizioni – e la tua bocca è sudicia, si è presa gioco del Signore. Ma lui lo piegherà, il tuo culo grasso. Sì. Ti spezzerà in due. Ti getterà in ginocchio, e implorerai perdono. Striscerai, e non sarai perdonato. Piangerai.

Nessuno ha visto. Ma tutti hanno sentito il portale, il passo di Giona Porcu, il sibilo della falce, il silenzio, il corpo che cadeva senza un gemito. La testa che rotolava e sbatteva prima’di fermarsi, sola. I passi. Il portale sprangato.

Con un colpo di falce, via la testa. Le mosche ronzano di gioia e volano in alto, ubriacate dal profumo di sangue.

Raccolgono il grano, e lo lavano dal fango. Sollevano il corpo e lo compongono con amore in una cassa. Le donne inventano ghirlande di fiori di carta e cuciono il collo alle spalle. Lo portano in terra consacrata, e cantano. La voce di tzia Cosima è lamento di bestia ferita.

Rientrano nelle case, muti.

È notte. Mintonia racconta. – Ha lasciato aperta la porta della stanza. Tutta aperta. Si è ubriacato, è fermo, seduto, non conta Poro e non canta. Fissa un’ombra della candela, un’ombra che danza nel muro, e prima del muro c’è Teresa, gli occhi di lui le passano dentro e non la vedono, come se non ci fosse. Lei sta ferma faccia a terra e prega «Sparisci, demonio» e un’altra volta «Sparisci demonio». Lui non la sente e non la vede. E non vede i servi, tutti davanti alla porta, fermi come pietre, che lo guardano.

Si addormenta, si sveglia, è nuovamente Giona Porcu: chiama i servi più fidati e malvagi, e prima Borore, capo della banda – lo chiamano Cane tutti quanti, Giona Porcu compreso. Vengono dalla campagna, abituati a sparare.

Murano il grano in una stanza. La chiave dell’unica porta è appesa ai pantaloni, assieme a quell’altra che tiene rinchiusi l’oro e Teresa.

La famiglia è Cane e i banditi. Mangia con loro, attorno a un tavolo vecchio nel cortile, e con loro si ubriaca. Gli raddoppia la paga e l’acquavite. Al buio impazzisce, o recita, e urla, bestemmia, spara contro le stelle e il vento del nord.

Teresa prega: – Sparisci, demonio.

Luisu compie dodici anni. E corre. Non sa di avere dodici anni, né perché corra. Obbedisce a una voce che non sapeva di portarsi dentro. Che non ha mai parlato, prima, e ora incita, coro di tutte le voci sentite nella vita, tutte assieme: – Corri, corri!

Corre veloce, come se dodici anni fossero serviti tutti a preparare questa corsa.

Gli zoccoli di legno sui ciottoli, sulle pozzanghere. Il vecchio Isaia, che ha visto Lucifero danzare, li sente arrivare, e sorride. Una volta ha visto gli anni, i dodici anni maledetti.

Le notti d’estate erano brevi, calde, e d’inverno erano fredde e lunghe. I giorni, Isaia li ha riconosciuti uno a uno, e li ha contati e ordinati. Ogni notte ha sottratto un giorno dal conto che lo avvicina alla morte, e ha sommato un giorno a quello che lo allontana dal demonio.

Sorride.

Luisu è sulla soglia. Esita. Le voci comandano: – Entra.

La stanza è scura, sporca. Il braciere è spento. Un ammasso di stracci fangosi, in un angolo, rivela e nasconde un uomo accovacciato.

Il bambino vorrebbe domandare: – Perché? Chi ha guidato i miei passi? Chi ha parlato alla mia anima? – Ma non può. La bocca è stretta da mille mani. Siede sulla terra coperta di cenere.

Guarda il vecchio, tante volte immaginato. Un raggio di luce e polvere scende da una fessura dal tetto, illumina una faccia nera, ferma e morta, come bruciata dal fulmine. Gli occhi sono vivi, grigi e bianchi. E giocano con la luce e col buio, spariscono e ricompaiono.

Antioco Isaia Durzu riconosce gli occhi neri, muti e attenti, del messaggero. Li ringrazia e li benedice.

Luisu vede Lucifero che danzava. Il vecchio chiude gli occhi e si lascia morire.

Sulla porta le donne. Raccolgono gli stracci. Li seppelliscono.

– Corri. Corri!

Si lascia il paese alle spalle, e il sole che tramonta. La terra oltre i muri appartiene a Giona Porcu. È scura, secca. Luisu la sente cantare un canto minaccioso, di cavalli al galoppo, di cani e bastoni e fucilate. Corre.

Le canne. Getta al vento i vestiti, attento alle trappole dell’acqua infida e del fondo scivoloso. Si tuffa, nuota. L’acqua è fredda.

Oltre il fiume le colline nemiche, pietra e rovi. Solo un giorno di neve rossa sono state gioielli e hanno luccicato al sole, rosa e sangue.

L’aria oltre il fiume è silenziosa, profumata, tiepida e dolce. Luisu si sdraia sulla riva. E incantato, stordito dai profumi delle erbe, asciugato da un vento leggero di primavera anticipata.

– Corri. Corri!

Sassi, sterpi, cardi di ogni specie, fiori secchi. Disegni di una luna grassa e rossa, ombre silenziose. Non si accorge di salire. Sulla cima il vento porta un profumo sconosciuto, dolce, acre. Viene dal mare, anche se il mare è lontano, a giorni di cammino.

La luna va in alto, bianca, e illumina un sentiero in un bosco di alberi senza foglie, con spine lunghe e acuminate. Le più infide, nascoste alla luna, segnano di sangue le caviglie di Luisu.

Poi i rovi spariscono in un prato di erba umida.

– Corri! Corri!

Rumori d’acqua che cade, tintinna, fluisce via tranquilla. Una parete di roccia taglia il prato, e un filo d’acqua cade disegnando arabeschi bianchi sulla pietra, fino a una fontana, e scivola tranquillo oltre il bordo, si perde nell’erba. Bianco come latte, alla luna.

La notte è stata lunga, e Luisu non si è mai fermato. L’alba lo trova davanti alla fontana. L’erba è verde, scura. Le pietre bianche e grigie riflettono le prime luci. L’acqua della fontana è bianca come latte.

Luisu unisce le mani, si piega. Beve. È latte caldo.

Un uomo si avvicina con passo da vecchio. Dondola lentamente una lanterna rossa per cacciare le ombre dal mondo. I contorni del viso sfuggono. È un prete. Si ferma alla fontana. Un uomo senza testa. La lanterna rossa si scioglie nell’aria, scompare nel nulla, e si porta dietro la mano, poi il braccio, poi la tonaca. Al posto dell’uomo esce il sole.

– Torna al paese, e racconta – un canto, la voce di una donna giovane.

Al ritorno le spine e i rovi diventano cenere, come se anche loro, che vivono da sempre su questa terra, fossero creature di un incantesimo.

Tutti calpestano le tracce del bambino. Le donne e le brocche e i piedi pesanti dell’uomo che trascina il carro.

Nessuno più muore. Non può morire, chi beve quel latte benedetto. La terra delle colline annerisce, ingrassa, si fa morbida, sputa via le spine. È terra, pronta a darsi, a farsi fecondare. Trascinano le vanghe e gli aratri. Avvolte nei fazzoletti, le sementi scampate alla fame: le più dure, le più secche.

Di notte cantano, per vincere il freddo, per farsi coraggio, per i piedi che saltano di gioia.

I semi germogliano, sulle colline e nella terra di Giona Porcu. E le spighe ingrassano, sulle colline e nelle tanche. Al raccolto, sulle colline i chicchi sono grano, e nella piana di Giona Porcu sono spine rosse che ridono al sole come denti di demonio.

L’avaro non ci crede. Monta a cavallo e sprona. Cavallo e cavaliere volano sul paese, abbracciati. La bestia galoppa con la bava alla bocca, non si impenna e non scalcia. Vola, come se conoscesse l’esito del viaggio e fosse impaziente.

L’avaro arriva al suo grano. Smonta, si piega. Raccoglie una spiga e la stringe nel pugno, forte forte, per spezzarla e sentirne il cuore. E sente cento spine che bucano il palmo della mano e lo fanno sanguinare. Spine rosse dure come pietra e taglienti come coltelli.

Giona Porcu si ferma nel gesto di raccogliere e stringere nel pugno. Trasformato in pietra.

Cane e i banditi fuggono. Per strada troveranno Donna Nostra Malaria, che li concerà per le feste.

A settembre il latte della fontana è acqua, e la morte riprende il suo posto nel paese.

Passano le stagioni e gli anni. Giona Porcu di pietra cade faccia a terra e nessuno lo raccoglie.

Teresa ha pregato tanto, e il cielo l’ha esaudita. Ha trent’anni, e ride sempre. Qualunque cosa faccia, ride. Comunque si comportino gli altri, ride. Sempre. Non è più di questa terra.

II

Una volta sola il cavallo nero di Giona Porcu ha galoppato con la bava alla bocca, senza ribellarsi né scalciare: per accompagnare a morte il padrone che odiava. L’ha visto diventare di pietra e ha nitrito come se ridesse. È volato via, e nessuno ha tentato di prenderlo – Chi avrebbe potuto? Era un demonio…

Si è arrampicato nel paese, si è fermato davanti a casa di tzia Cosima e ha leccato la guancia di Luisu, che fantasticava seduto davanti alla porta guardando un volo di rondini.

– Voglio andare per il mondo – ha detto il bambino – per vedere come vivono gli uomini. Tu capiti a proposito. Non so come ti chiamasse il tuo padrone. Io ti chiamerò Araj. Ti piace?

III

Traversano fiumi, valicano montagne. Luisu mangia mele e noci, suona un flauto di canna e sfida Araj a correre sul bordo dei crepacci e fra gli alberi, dove l’agilità vince sulla forza. I piedi del bambino sono piedi di capra e di volpe. Vince lui, nella foresta e sull’orlo del precipizio.

Case bianche splendono al sole, lontane, oltre una piana alberata. Dagli alberi pendono frutti rossi e gialli. L’aria è profumata.

C’è un uomo, accovacciato sotto un albero, col naso per aria e un fazzoletto bianco in mano. Poi un altro. E un altro. Tanti. Tutti col naso per aria.

Araj si ferma davanti a un vecchio dalla gran barba sporca, e la camicia, le ragas, i piedi, lavati nel fango delle pozzanghere. – Buongiorno, signore – saluta Luisu. E quello risponde – Ssst! – portando l’indice destro alle labbra.

«Vuol dire: stai zitto e aspetta…» pensa Luisu, e obbedisce. Poi il vecchio scrolla le spalle con espressione delusa, e chiede: – Anche tu a cercare erbaluzza?

– No, signore. Non so cosa sia l’erbaluzza, e non lo immagino neppure.

– Bravo! Ammetti la tua ignoranza e non pretendi di saperne più di chi è nato prima. È un buon segno, ragazzo. È onestà, cioè l’opposto della presunzione… Bravo!

– Ti ringrazio, signore, e ti ringrazierò di più se vorrai spiegarmi cos’è quest’erbaluzza, a cosa serve, e perché la cercate in tanti…

– Chiedilo a qualcuno degli sbruffoni qui attorno. Chiediglielo. Sentirai, le risposte che sapranno dare. Un vero spasso. Vuoi sapere qual è la verità? Non sanno cosa cercano, né perché lo fanno. È così, sono ignoranti e superstiziosi. Tu dici: sono giovani, impareranno. No, rispondo io, da come hanno cominciato si vede bene che finiranno male.

– Non hai risposto alle mie domande, signore…

– È un segreto. Tu, però, sembri un ragazzo onesto. Anche se non è detto, l’apparenza inganna e potresti guastarti più tardi, a contatto con le mele marce. Io sono vecchio, e benché sia compito dei vecchi trasmettere la saggezza appresa in anni di esperienza, nessuno di questi sbruffoni mi ha mai interrogato. Hanno preferito seguire fantasie bislacche, piuttosto che invitarmi a spiegar loro la verità. Vanitosi e stupidi… Io cercavo erbaluzza quando ancora molti di loro, e tu stesso, non eravate neanche nati.

– Cercherò di non guastarmi, signore. Ancora non hai risposto alle mie domande…

– E sia. Ti svelerò il segreto. Una manciata di erbaluzza rende inesauribile l’oro di qualunque baule. Solleverai il coperchio, ci getterai erbaluzza, e prenderai oro a sacchi e badili, spenderai nei vicoli e nei palazzi, pagherai donne e mercanti, e il giorno successivo il baule sarà pieno, come non l’avessi mai vuotato. Questa è la magia dell’erbaluzza. Se qualcuno dovesse raccontarti che sveglia i morti, non crederci. Solo Dio può tanto.

– Ti ringrazio, signore. Perdona la curiosità che mi spinge a un’altra domanda: perché sedete tutti quanti sotto gli alberi, con gli occhi fissi al cielo e i fazzoletti in mano?

– La tua ignoranza supera ogni limite, ragazzo! Non conosci le leggi del rito, i rudimenti dell’arte! La prima legge afferma: chiudi il nido del picchio col gomorroi.

– Cos’è il gomorroi, signore?

– Non conosci neanche il gomorroi! Ma da dove vieni?

– Da un paese lontano, signore.

– Guardalo, allora – e il vecchio indica un disco di metallo dorato che splende al sole dal nido di un picchio. Luccichii e barbagli, tutto attorno, rivelano cento e cento gomorroi, in ogni albero. – Il picchio teme il gomorroi. Scappa appena lo vede, e vola a cercare erbaluzza. Solo il picchio la distingue, fra tante erbe differenti. Strappa trentasette fili, e torna. Davanti al nido vola in segno di croce e stringe forte l’erbaluzza nel becco. La magia si avvera, e il gomorroi sparisce. È così: l’erbaluzza fa sparire il gomorroi nel nulla. La gioia del picchio è grande e apre il becco per cantare. Bisogna stendere il fazzoletto al momento giusto, non un attimo prima né uno dopo, e chiuderlo in un baleno. La terza legge afferma: più in fretta chiudi il fazzoletto, meno erbaluzza volerà nel vento. Si fa così, guarda.

Il vecchio comincia a saltellare, seguendo il volo di un picchio immaginario, ansimando e stendendo il fazzoletto ora a destra ora a sinistra, e più in alto o più in basso, e chiudendolo con gesti veloci da mago illusionista. E si allontana, trascinato dalla finzione dell’inseguimento, e contagia frenesia agli altri cercatori. Cominciano tutti quanti a saltellare dietro picchi inesistenti. Sbandierano i fazzoletti in una danza muta. – Grazie, signore, – urla Luisu, e riprende il cammino fra alberi, profumi e danzatori. La strada è terra scura.

Più tardi si copre di ciottoli neri.

Nel paese non c’è un’anima, non si sente una voce, e si muove soltanto un volo di corvi attorno al campanile. Vicoli e cortili aperti echeggiano gli zoccoli sui ciottoli.

Araj si ferma davanti all’angolo scuro fra due case. «Come avesse sentito profumo d’acqua» pensa Luisu. «Una fontana qua dentro?» e protegge gli occhi dai riflessi del sole sull’intonaco bianco delle case, con la mano aperta. Scruta l’angolo d’ombra, che rivela un sentiero ostruito da un uomo sdraiato e coperto da un’armatura di botti, botticelle e borracce, e con due collane di bicchieri di ferro attorno al collo.

– Hai acqua in quelle botti, signore?

– È acqua – risponde quello con voce roca.

– Puoi darmene un sorso?

– Posso dartene un bicchiere, un secchio, una botte da venti o da quaranta, ma non un sorso: che misura è?

– Un bicchiere per me e un secchio per il cavallo basteranno, grazie.

L’uomo non si muove. Non tocca i bicchieri né riempie alcun secchio. Luisu aspetta, e il tempo passa.

– L’acqua che hai promesso, signore…

– Prima il danaro, ragazzo. Cinque centesimi per il bicchiere e mezzo soldo per il secchio.

– Danaro? In questo paese non è possibile bere senza pagare?

– La fontana è più avanti, lungo la strada. Non è lontana e l’acqua è la stessa delle mie botti.

– C’è qualcuno così tonto da comprare la tua acqua quando può averla più fresca, senza sapore di botte e senza pagare mezzo soldo?

– Hai fatto una domanda stupida. Se esiste un venditore d’acqua esistono certamente compratori d’acqua, e non è detto che siano più tonti degli altri. Se aspetterai fino a sera capirai perché. I cercatori di erbaluzza torneranno tutti insieme, al tramonto, e correranno alla fontana con le brocche, si ammasseranno, si faranno largo a gomitate e spintoni, urleranno come dannati, e uno impugnerà una leppa, un altro un bastone. Correrà il sangue, come ogni sera, perché a molti non piace farsi scavalcare, calpestare e minacciare dall’impazienza altrui. I più furbi compreranno la mia acqua, risparmiando salute e tempo. Saranno i primi ad addormentarsi e domani si sveglieranno all’alba, ora ideale per l’erbaluzza.

– Da quanto tempo gli vendi la tua acqua?

– Da trent’anni.

– E hanno sempre cercato erbaluzza?

– Da prima che io nascessi.

– Qualcuno l’ha trovata?

– Mai nessuno.

– Perché?

– Ho ascoltato i racconti dei delusi, e ne ho tratto una conclusione: il picchio fugge appena vede il gomorroi, e cerca un nuovo albero dove fare il nido. Un cercatore lo segue e prepara il gomorroi. È una catena senza fine. Mai nessun picchio cerca erbaluzza. Non so se l’abbiano mai cercata, nella notte del tempo, né perché i cercatori si ostinino a credere che la cercheranno…

– Grazie, venditore d’acqua. Berrò alla fontana e non andrò in cerca di erbaluzza. Non saprei che farmene. Non ho bauli d’oro da moltiplicare.

– Moltiplicare l’oro? Come ti salta in mente? Questa non l’ho sentita proprio mai…

– Ognuno dei cercatori ha una verità, una fede diversa da quelle di tutti gli altri. Uno dice che cancella i peccati mortali dall’anima, un altro che restituisce i capelli ai calvi. Le discussioni sono interminabili. Strepitano che protegge da Donna Nostra Malaria, che regala visioni del paradiso e dei santi, o che rende più fertili le pecore. All’uomo che la mangi condita di solo sale donerà la forza di sollevare una vacca con la mano destra, chi beva l’acqua in cui è stata tenuta in infusione leggerà il pensiero del prossimo, o avrà l’astuzia della volpe, o l’occhio dell’aquila… Conosco una sola magia che moltiplica l’oro, ed è quella del misero venditore d’acqua… La fortuna ti protegga, ragazzo. Ne avrai bisogno, in questa terra di uomini che non amano farsi interrogare. Addio.

– Addio, venditore d’acqua – saluta Luisu.

Araj vola e l’eco degli zoccoli rimbomba come la fuga di una banda di predoni o l’inseguimento di un drappello di soldados.

La fontana è un getto d’acqua in una vasca di granito. Non c’è anima né voce. Bevono a sazietà e si lasciano il paese alle spalle.

Scende la notte e Luisu si addormenta. Torna il giorno e il sole illumina una piana spaccata in crepe e fenditure lunghe molte braccia, senz’acqua né erba, e un monte lontano, desolato, da cui viene un brusio, un mormorio, l’ombra di un rumore, che aumenta man mano che si avvicinano. Alle pendici è un concerto di diavoli impazziti, nascosti.

«Viene dall’altro versante» pensa Luisu, e sprona, ma gli zoccoli scivolano, Araj indietreggia e vuol fuggire. «Ha paura. Pure, ha portato sulla groppa Giona Porcu, ha già avuto affari col demonio…». Il bambino parla all’orecchio del cavallo: – Araj bella, voglio capire la causa dei sonus. Dobbiamo arrivare almeno in cima. Magari poi fuggiremo, te lo prometto.

Il cavallo non scivola più, come avesse capito.

Salendo, voci umane e nitriti, fischi e spari. Dalla cima del monte una valle bruciata, attraversata da uomini e cavalli che arrivano da ogni direzione, a cento e cento, e corrono tutti a una nuvola di polvere che si innalza fino al cielo, e produce il clamore più alto, i tuoni di dieci temporali tutti assieme, mille agnelli sgozzati in un attimo, un pandemonio. Luisu spalanca gli occhi, e cerca di capire cosa nasconde quella bolgia.

Una cavalla nitrisce come se piangesse, si contorce sulla sabbia, e un uomo la insulta: – Bestia schifosa sozza porca e bastarda… – e le danza attorno infogato, torturandola con calci e scudisciate.

– Signore – grida il bambino. – Non faresti meglio a lasciar partorire la cavalla, invece di maltrattarla in quel modo?

– Sicuramente no, tonto. Deve arrivare al pozzo prima di figliare.

– Quale pozzo? E perché?

– Il pozzo di San Pancrazio, laggiù – risponde l’uomo, e indica la nuvola di polvere. – Soltanto se berrà quell’acqua figlierà un puledro verde…

– Verde?

– Verde. I puledri più belli, i più preziosi, i più rari, la manna dal cielo:.. Pur di averne uno pagherei un tesoro e vent’anni della mia vita, – risponde l’uomo, e si ferma. Gli occhi si perdono in un sogno.

Torna alla realtà, e frusta la cavalla che ansima, immobile, e lascia colare un filo di bava dalla bocca.

L’aria è asciutta, secca, turbini di polvere gialla fine come farina si infilano dappertutto, nelle scarpe e nel naso. Brucia e ha gusto di ghiande secche e sangue di cavallo.

Un nitrito lungo e disperato accompagna al mondo il puledro. Bagnato e tremante muove le zampe in aria, senza capire, e la polvere lo copre in un baleno.

L’uomo si inginocchia, solleva il viso rigato di lacrime e stringe i pugni fino a infilzarsi con le unghie.

Serra le mascelle in una smorfia di rabbia e grida: – Dio! Perché non vuoi che arrivi al pozzo? Trentadue hanno figliato in strada. Trentadue, non una. Porco! – Si piega, scosso dai singhiozzi, e biascica bestemmie.

Una cavalla imbizzarrita arriva chissà da dove, sfiora Luisu e scalcia, seguita da un uomo che agita in aria una frusta nera a tre code. Calpestano il puledro appena nato, senza badarci, e corrono al pozzo.

Uomini e cavalli, polvere e boghes, nitriti e fucilate. Un volo di avvoltoi oscura il sole, e Luisu sussurra: – Araj bella, se c’è un pozzo è pieno di cadaveri. Via!

Fuggono. – Via! Via! – La terra di quel monte era fuoco, e dalle crepe della piana si sollevavano incubi e duennas. – Via! Via!

Fino a notte. L’aria è silenziosa, profumata di ginestre. Luisu si addormenta sulla criniera.

IV

Il sole illumina una pianura gialla, infinita. Il vento dondola fiori rossi, gialli, viola, di ogni specie di cardo, e spine argéntate di cardo mariano.

Nient’altro fino a notte, e la notte è senza luna. Laggiù, lontano, una fiamma nel buio.

«Uomini» pensa Luisu, «e forse cibo, riparo, acqua…».

Araj vola. Arrivano in un attimo. Sembrava lontano, era appena più avanti. La fiamma è una lampada appesa a una foglia di palma secca, pende dall’angolo di una casa.

Luisu scende, barcolla. È stanco di stare in groppa. Ha fame, sete.

La porta si apre senza dargli il tempo di bussare, e lascia uscire una nuvola di fumo.

«Hanno sentito gli zoccoli» pensa Luisu, e vede una donna bassa, curva, attortiàra, avvolta in uno scialle nero a ricami dorati grandi come unghie di bambino. Il viso è vecchio, nero come pece e rugoso come uva passa, e le orbite dei suoi occhi sono vuote. Sorride mostrando due file di denti d’oro che lampeggiane assieme ai ricami dello scialle. – Vieni dentro. Siediti con noi. La zuppa è quasi cotta –. La voce è cristallo e si spezza nelle tonalità più alte.

«Dove sono i suoi occhi?» si chiede Luisu con un brivido. La vecchia lo prende per la manica, lo tira giù fino a farlo passare sotto la porta troppo bassa e lo trascina in una spelonca affumicata. Al centro arde un fuoco. A Luisu pare lontano come le colline del paese. Non c’è finestra né camino. Una nebbia grigia ristagna e si addensa.

La vecchia lo spinge su una sedia e lo abbandona. La sedia è troppo piccola, lo costringe a star chinato coi gomiti poggiati sulle ginocchia e la faccia sulle mani. Attorno al paiolo che bolle sul fuoco si muovono come serpenti le dita lunghe della vecchia, artigli affilati.

– Io l’ho vista, giuro! – giura una voce a destra, Luisu si gira, spalanca gli occhi. Vorrebbe distinguere qualcosa in quel fumo, ma riesce soltanto a lacrimare. Chiude gli occhi. – L’ho vista, giuro! – è una voce da uomo adulto, chiara e sorridente.

– Una giana viva, alta non più di quattro palmi. Aveva un vestito di pelle cruda, e mangiava frutta selvatica. Quando si è accorta che la spiavo è fuggita, timida come un cerbiatto.

– Bugiardo… – piagnucola un bambino, dall’altra parte della spelonca, oltre il fuoco, invisibile anche lui. – Io l’ho vista veramente, una giana. Alta trenta piedi e bella come il sole. Si arrabbiava ogni giorno senza motivo e strillava in continuazione. Era vanitosa, e usciva solo di notte perché il sole non le annerisse la pelle. Tesseva sempre broccati e una volta si è tagliata le dita con la mezzaluna mentre tritava il prezzemolo.

– Non è vero – gracchia una voce dal tetto («Una cornacchia che parla!» pensa Luisu) – soltanto io conosco la giana, la vedo ogni santo giorno. È coperta di stracci luccicanti e ha unghie nere affilate. Succhia il sangue ai bambini.

– Smettila uccellaccio – strilla la vecchia, e la voce è cristallo in mille pezzi. Agita un bastone per tentare di colpire la cornacchia. Poi si volge a Luisu, il viso nero sorride e la voce è lattemiele: – Parla per dispetto. Dice le bugie. Le gianas non esistono, lo sanno anche i bambini. Uomini cattivi, ci sono, altro che gianas. Mi ricordo, una volta, sono andata alla festa di San Francesco, con gioia, oh, per la festa e la benedizione. Arrivo con questo animo pio, e subito tolgo dalla sacca il fillindeu benedetto, che nessuno può rifiutarsi almeno di assaggiarlo. Comincio il giro da due malarittus dae su dimoniu, e cosa fanno? Ridono! Non vogliono il fillindeu benedetto! «Nessuno può rifiutarsi almeno di assaggiarlo!» dico io, «se non bevono questi scriteriati non berrà nessuno!». E conservo il fillindeu. La giornata a poco a poco se ne va e la notte viene. Tutti tornano ai paesi, e per strada, sull’orlo di un burrone, i cavalli di quei due imbizzarriscono senza motivo. E cadono tutti e quattro, cavalli e uomini, e si troncano le ossa sulle rocce. Male han fatto, dico io, a non bere il fillindeu, e la mano del Signore li ha puniti.

– Raccontala come si deve – corregge la cornacchia. La vecchia agita il bastone nella nebbia, a casaccio e inutilmente. – Volevi avvelenare tutti, col tuo fillindeu. Per rubare il denaro, l’oro dei corpetti, le camicie di seta, gli orecchini e pure le elemosine. Ma dovevano sorbirselo tutti proprio tutti, altrimenti ti avrebbero smascherata e uccisa. Hai scelto per primi quei due, perché li avevi ben osservati e pensavi che ti avrebbero resistito. Hanno mandato all’aria i tuoi piani. Il fillindeu l’hai fatto sparire in fretta e furia prima che qualcuno volesse veramente assaggiarlo.

– Vero. Vero, – conferma il bambino piagnucoloso. La vecchia smette di inseguire la cornacchia e si tuffa nella nebbia a caccia del bambino, che continua senza mutare di una nota il piagnisteo. – Hai pensato alla vendetta tutto il santo giorno. Eri piena di fiele. Tu stessa hai gettato l’erba di biscia nel naso dei cavalli, proprio mentre imboccavano il sentiero sul burrone. Per questo sono imbizzarriti, non senza un motivo.

– Proprio così! – aggiunge la voce a destra di Luisu. La vecchia riappare vicino al paiolo. Si ferma. Ha un sorriso fra i denti stretti, orrendo. («Dove sono i suoi occhi?» pensa Luisu). E l’uomo continua. – Appena i ragazzi sono precipitati, hai cominciato a gridare, e l’eco ti ha ripetuta molte volte. Tutti quanti, nel buio, hanno saputo la notizia della morte. Neppure se avessi gettato il bando… Strillavi come una gallina, eh? Dì la verità, vecchia stria. Il Signore? L’anno venturo a San Francesco nessuno avrà il coraggio di rifiutare il fillindeu avvelenato. Li spoglierai di tutto e li brucerai, eh? Uno a uno? Soffocavi dalla soddisfazione, sull’orlo del burrone, dì la verità, e come strillavi, eh? «Avete visto avete visto paesani? Il Signore mi ha vendicata. Avete visto avete visto? Male han fatto a rifiutare il fillindeu benedetto. Avete visto avete visto? La mano del Signore li ha spinti nel burrone…».

La vecchia ha cominciato a pestare i piedi dal primo avete visto, come un’ossessa, e solleva una nuvola di cenere che annerisce la nebbia. Respirare è ingoiare cenere. E grida, voce di stria: – Zitti, zitti, dimonius. Spaventerete l’ospite e non berrà il fillindeu. E chi non beve il fillindeu muore per mano del Signore.

Le unghie della vecchia si agitano controluce nella nebbia, artigli d’aquila sul coniglio. Luisu grida con tutto il fiato che ha in gola, e soffoca nella cenere. – Araj, aiuto – la voce è come nei sogni, ti sforzi di urlare a piena gola e non riesci a sussurrare.

Una zoccolata schianta la porta. La vecchia si getta su Luisu, lo sfiora con le unghie, e sparisce risucchiata nella nebbia – Lasciatemi, lasciatemi, dimonius malarittus… – Nella spelonca le risate di quei tre.

Araj addenta la giacca di Luisu e lo trascina fuori. «Una cornacchia che ride…» pensa Luisu, e respira, tossisce, si trascina. I cardi gli riempiono di spine la faccia e le mani. Si solleva. Balza in groppa e si stringe al collo di Araj. Chiude gli occhi e si addormenta. Il vento canta un’anninnìa.

Lingue gialle. Fuoco. Un uomo che attizza soffiando in un imbuto. È scuro di pelle, ha occhi gialli e lunghi ricci neri. È vestito di panno rosso, ha scarpe dorate con le punte all’insù. Sorride e fa cenno d’invito con la mano. – Avvicinati, non aver paura – è la voce dell’uomo che parlava a casa della vecchia. – Io sono Arrafiebi. Sei ancora spaventato… La strìa non ti è piaciuta. Le si è spaccato il cuore, vedendoti fuggire. «Dimonius, dimonius malarittus», si lamentava, eh?

– Dimonius, signore?

– Il demonio assume mille forme, per indurre l’uomo in tentazione. Ogni volta è diverso –. La voce è quella del bambino piagnucoloso.

– Ogni volta?

– Appunto. Ma non startene appollaiato lassù. Il fuoco riscalda, e ho cibi e bevande a sazietà – gracchia. – Il demonio è cane bianco, testa di cavallo o culo di bue. O pecora, agnello, capra dorata, o un ciabattino su uno scoglio in mezzo al mare, il vento che sussurra sconcezze alle orecchie, o un bambino coi piedi d’asino. Vieni qua, fammi vedere i piedi.

Luisu guarda i suoi stessi piedi, temendo che un maleficio li tramuti in chissà cosa. Se potesse non respirerebbe, e pensa: «La stria l’ha detto, ci sono uomini cattivi, lei stessa, per esempio, e Giona Porcu e i cavalieri di San Pancrazio… altri sono stupidi e incantati, i cercatori di erbaluzza… e ce n’è buoni, indifesi e pieni di magia, mammai, prete Saddi… Questo è diverso. È un demonio. Una volta qualcuno ha disegnato un demonio col carbone, pareva una capra e una donna, assieme. No. Diverso da quest’uomo… Ha trattenuto la strìa perché fuggissi, e avrebbe potuto lasciarmi a quelle unghie… Forse può incenerirmi con un dito, anche ora».

Arrafiebi sorride, annuisce.

«Legge i pensieri… Sta provando il mio coraggio… La danza di un demonio, negli occhi di Isaia, mi ha rivelato la strada…».

– È così, Luì – la voce di mammai, calda, profumata, scura, esce dalle labbra di Arrafiebi.

– Smettila, demonio. Zitto! Scenderò da cavallo e ti ascolterò. Mangeremo e berremo, ma parlerai con una voce sola, la tua, se hai voce tutta tua –. Un coro di grida e risate di dimonius, e urla… Il cielo si abbassa in convulsioni, la terra trema e le pietre danzano il ballo tondo e la notte sfolgora di luci e canti a tenore come se, anche i dimonius del giorno dopo volessero partecipare a quella festa, e il sole. – Ho capito – grida Luisu per farsi sentire in quel baccano.

La risata tace, di colpo com’è cominciata. Appaiono dal nulla un tavolo tarlato, tre sedie nere e un camino che protegge il fuoco dal vento.

– Scenderò solo se giurerai di non parlare con la voce di mammai.

– D’accordo. Scelgo quest’altra voce.

– Sì.

Luisu siede coi piedi al fuoco e beve un bicchiere di vino rosso. Arrafiebi gira lentamente uno spiedo e parla.

– Giona Porcu era uomo. Cattivo, chiuso, dominato da sogni di ricchezza, e corrotto da vizi che lo rendevano feroce come un cane rabbioso, scesi nel sangue da parte di madre. Forse era pazzo. Ma uomo, non demonio. Un demonio ti ha portato sulla schiena, l’hai chiamato Araj.

Luisu cerca il respiro del cavallo nella pianura silenziosa, e la sua forma, ma oltre il fuoco è buio pesto.

Dall’ombra esce una donna. È scalza, i piedi anneriti dal sole. La bocca è rossa. Nasconde gli occhi con le palpebre abbassate e coll’orlo del mantello. – Voglio una tavola imbandita con tovaglie di batista ricamate e piatti di porcellana – ordina, la voce è un canto sommesso – e fiori di tutti i colori in caraffe bianche, e alberi verdi carichi di limoni, e una fontana che abbia sul fondo un mosaico di cigni e principesse e al centro uno zampillo alto come Luisu, e una voliera gialla con un corcoro giapponese, una mattina di primavera senza vento, e che dalle guance e dalle mani di Luisu spariscano le spine dei cardi –. Mentre parla tutto si avvera, il sole di primavera, la voliera gialla e la tavola imbandita. Quando tace tornano notte e vento, camino e capra sul fuoco. Le spine dei cardi non tornano.

Nell’aria profumo di capra che cuoce, di rosmarino e di lardo infuocato che sfrigola in cima a un bastone mosso da Arrafiebi, che spiega: – Anche la stria è una donna. Voleva ucciderti per prendersi il cavallo e venderlo al mercato. Sperava di ricavarne un buon prezzo. Nasconde il fillindeu avvelenato in una botte piccolissima incuneata fra grandi botti di abardente. Sotto la sua casa c’è una fossa dove ha sotterrato cento e cento viandanti. Li avvelena per derubarli, ma anche per il gusto di vederli agonizzare.

– Un tempo viveva in un paese di montagna, e possedeva uno scrigno pieno di smeraldi, rubini, zaffiri e monete d’oro. Sua madre si è ammalata, aveva bisogno di medicine costose e cibi dispendiosi, brodo di oca e ventresca di tonno. La stria ha giurato di aver perduto la chiave dello scrigno, e ha detto di non volerlo forzare per amore dell’uomo che gliel’aveva regalato e perché comunque non conteneva che muffa e lettere d’amore. Era zeppo d’oro, l’aveva comprato da un mercante di passaggio e la chiave stava nella tasca di un grembiule nero che portava sempre addosso, notte e giorno. La madre si contorceva sul letto e la stria la guardava, aspettando paziente che morisse. L’hanno bandita dal paese. È scesa in pianura e ha costruito quel camposanto che chiama osteria. Ma è donna, non demonio.

Arrafiebi allunga un pezzo di capra succulenta. Il bambino addenta e domanda: – Tu eri a casa della stria. Perché?

– Prepara intrugli portentosi. Per te è stata una fortuna: ho potuto sfilarle la maschera da santa vecchierella innocua, intenta al minestrone, con cui cercava di ingannarti.

– D’accordo: Giona Porcu era uomo, la stria è donna. E voi due?

– Noi due? – risponde Arrafiebi dispiaciuto e sognante. – In un certo senso, o per modo di dire. Se proprio vuoi saperlo, mi è proibito diventare cavallo e falco, chioccia e maialino, elefante e…

– Basta! – interrompe la donna, argento tintinnante. – Non vorrai farci ascoltare il tuo elenco tutto intero! Arrafiebi non può trasformarsi in bestia né in pesce né in insetto, e ha l’abitudine insopportabile di recitare elenchi infiniti di ciò che non sarà mai, per farsi compatire, per rendersi interessante o saprà lui il perché. Eppure può parlare con ogni voce creata e inventarne di nuove, e cambiare naso, età, colore dei capelli, e diventare grasso, untuoso e puzzolente come un mercante, o alto, chiaro, elegante, profumato, barone. Io, che pure ho la vita del gatto, della nube e del fiato sospeso, ho una faccia sola, una voce e sempre questi stessi occhi.

– Uno è nero, notte senza luna, l’altro giallo, mezzogiorno d’estate.

– Siete diversi uno dall’altra. Potete trasformarvi in bestia e mercante. Ma io non posso diventare lupo né parlare con la voce di mammai, e non ho occhi di cielo. Perché?

– Perché è tutto buio, ora? Dov’è il fuoco? Arrafiebi? Perché la stria non aveva occhi?

«È la mia voce che chiede perché?» pensa Luisu, e si sveglia, aggrappato al sottogola di Araj, che vola sulla pianura. Ha la guancia sulla criniera, come un cuscino. L’aria è fredda, i capelli bagnati dall’umido della notte. Una strada grigia e polverosa continua fino a un orizzonte grigio e polveroso. Si tocca le guance e le mani. Non c’è una spina.

V

Araj vola. Sulla strada polverosa un serpente di figure, buoi, ruote che rotolano… La coda del serpente è un carro di legno carico di meloni, trainato da due vacche scheletriche che non muoverebbero un passo se un uomo non le pungolasse di continuo, piagandogli i fianchi con un frustino di salice e gridando: – Aiò! Hì! Aiò!

Luisu guarda il berretto verde consunto, sformato, schiacciato sulla fronte, e l’occhiaia nera attorno a una palla rossa che pulsa e pare voglia fuggire dall’orbita, e pensa «Occhi di rospo», e chiede: – Scusa signore… Cos’è questo posto?… Ieri la pianura era un letto di cardi, oggi è coltivata… Ieri non ho visto uomo, per strada, e oggi una processione che si allunga fino all’orizzonte…

Occhi di rospo non dà segno di aver sentito, né di essersi accorto che un bambino cavalca al suo fianco. – Aiò! Hì! Aiò!

– Dove andate, tutti quanti?

– Aiò! Hì! Aiò!

– Dove porta questa strada?

Occhi di rospo si gira stizzoso: – Al corno della forca, porta! – Accompagna le parole con un ghigno cattivo e torna alle sue vacche, la discussione è finita. – Aiò! Aiò!

«Avrai bisogno di fortuna, in questa terra di uomini che non amano farsi interrogare…» ricorda Luisu, guarda il frustino di Occhi di rospo e sprona: – Via!

Araj vola. Luisu è incantato dalla processione: uomini ubriachi, che piangono, o inanimati, o rabbiosi, vocianti, e donne ben sveglie che tengono d’occhio i carri e trascinano per mano bambini scalzi, tristi e cupi come fossero condannati a qualche pena, e carciofi, pomodori, quarti d’asino, orbace, pistoccus, argenti, ricami, tappeti e ogni altro ben di Dio alla rinfusa sui carri. Non ha mai visto tanti colori tutti insieme: oro e carruba le guance delle donne, bianca e rosa la carne d’asino, rossi e verdi i pomodori, grigio e nero l’orbace, e tappeti macchiati di giallo e azul.

Cavalieri vestiti di bianco e di rosso si lanciano lunghe fiasche di zucca, le acchiappano al volo e ridono a bocca aperta. Galoppano verso la pianura, e in un attimo sono alle spalle di Luisu, guidano un altro serpente di figure, buoi, carri vuoti, bambini sdraiati sul fondo a guardare il cielo che passa, sorridenti, e donne che corrono nei campi a raccogliere cicoria e ravanelli.

Le processioni marciano in direzioni opposte sulla stessa strada, brulicante come la piazza del paese il giorno del santo. Corrono saluti. – Tornando state?

– Tornando. E voi andando?

– Andando.

– In ora bona!

– Eh!

«Andando dove e tornando da dove?» si chiede Luisu. Non ha il coraggio di domandare più niente a nessuno, dopo averci provato con Occhi di rospo.

Araj prende il passo dei buoi e di un cavallo bigio, ben pasciuto. Il cavaliere guarda fisso davanti a sé, e mai a sinistra, dove lo affianca Luisu, né a destra, dove scorre la pianura di limoni e case di fango. Il naso dell’uomo è il becco di un astore, le guance bianche e ben rasate, la giacca di panno nero opaco, la camicia di lino, candida e abbottonata sul petto da fibbie d’oro, le mani lunghe, scure, pulite, senza calli e gli stivali di pelle nera, morbida, ben ingrassata, infilati in staffe d’argento, e la bocca stretta in una smorfia di disgusto, o di angoscia, e rughe profonde attorno all’occhio semichiuso.

Luisu non ha mai visto una sella, né mai immaginato che potesse esistere un uomo come questo.

Corrono voci, fra i carri – Labài, labài! – e tutti rallentano la marcia, tirano le redini, pungolano i buoi, si gettano in un fossato sul bordo della strada – Labài, labài! – e continuano a marciare.

L’uomo dal becco d’astore ha occhi stretti, grigi, e una voce pacata: – Togliti di mezzo e leva il berretto dalla testa. Stanno arrivando i baroni.

«Alto, chiaro, elegante, profumato, barone…» ricorda Luisu, e obbedisce, raggiunge l’uomo nel fossato.

I baroni passeggiano fuoriporta in carrozze rosa, turchesi e ciclamino. Il centro della strada gli appartiene. Servi in marsina nera siedono a cassetta. Una voce vola fuori da un finestrino aperto – No se puede dormir, me levanto. No hay nadie. Probablemente rayos de la luna. Y no se puede conciliar el sueño. Parece que alguien golpeara la puerta. Me levanto de nuevo, abro de par en par, el aire me da de lleno en la cara, pero la calle está completamente vacía. Sólo se ven las hileras de álamos que se mueven al ritmo del viento…

«Sembrano trilli di rondine» pensa Luisu e cerca di vedere dentro la carrozza, spia dai finestrini visi bianchi di farina incorniciati di boccoli rossi d’uovo, e labbra rossoamarena. Volano risa contagiose da una carrozza all’altra, come se ridessero tutti delle stesse cose.

No. Non tutti. Una carrozza nera. Il viso serio, attento, cupo, di un uomo che ascolta. Dal finestrino vola una voce di donna: – Nada podrá apartar de mi memoria la luz de aquella misteriosa lámpara, ní el resultado que en mis ojos tuvo, ní la impresión che me dejó en el alma…

«Le loro voci son trilli di rondine» pensa Luisu, e le parole sconosciute si perdono nell’aria.

Il bambino chiede al becco d’astore: – Se non avessi levato il berretto?

– Avrebbero fermato la processione per farci assistere all’esibizione di un boia. Ti avrebbero appeso al ramo di un albero, a torso nudo, per darti almeno cento nerbate, e ti avrebbero requisito il cavallo. Qualche anima caritatevole, forse io stesso, ti avrebbe slegato e dato da bere, ma soltanto dopo il tramonto, come vuole la legge. Saresti rimasto lassù fino al buio, con le mosche appiccicate a levarti il sangue…

– Ti ringrazio dell’avviso…

– I baroni hanno denti di iena per torturare gli innocenti, soprattutto se proprietari di un bel cavallo come il tuo… Vieni da lontano, e non conosci la città neanche per sentito dire…

– Come fai a saperlo?

– Chiunque se ne accorgerebbe, se ti osservasse per un minuto. Ammiri i baroni come fossero meraviglie del creato, uova di elefante o cuccioli di minotauro… Li ascolti incantato e sorridi…

– Hai ragione, signore, non so chi siano i baroni, né cosa siano elefanti e minotauri. Ho conosciuto Arrafiebi, però, e Giona Porcu. E non ho mai visto un uomo come te. Come ti chiami?

Il becco d’aitore guarda attento il bambino. Per un attimo i suoi occhi sono fessure lucenti, un sorriso nascosto. – Mi chiamo Emanuel Alabì… Se continuassimo a parlare ci riempiremmo soltanto la bocca di polvere sollevata dai baroni… Più tardi ci sarà tempo…

La marcia continua, lenta. – Aiò! – Cigolio di carri sulla sabbia del fossato, schiocchi di carrozze che saltano sulle pietre della strada. Trilli di baroni escono dai finestrini e raggiungono Luisu silenzioso. – Lo queramos o no, sólo tenemos tres alternativas: el ayer, el presente y el mañana. Y non siquiera tres. Y non siquiera dos…

Il cielo a occidente è arancio e rosso. Le carrozze dei baroni spariscono. I carri si fermano. Gli uomini impastoiano i buoi, le donne montano tende di pelli colorate e accendono falò. Una launedda modula sottovoce le note di un ballo.

Luisu segue Emanuel Alabì, e pensa: «Mi ha salvato dalle grinfie dei baroni… Non conosco questo mondo, e nasconde pericoli… Araj potrebbe non bastare alla salvezza… Ho bisogno di sapere dove metto i piedi…» e chiede: – Dove andiamo?

– In città.

Cavalcano fino a notte, e il cielo è nero, c’è soltanto una stella.

– Dormiremo lassù –. Un colle. La cima sparisce nel buio.

Araj si arrampica come un muflone, in quattro balzi è a metà strada. Un profumo dolce e acre raggiunge Luisu. – L’ho già sentito, una volta… la notte dei miracoli, prima delle spine… – Guarda nel buio alle sue spalle. Il cavallo bigio scivola sulle rocce, ha paura, non si vede più. – Ehi, Emanuel Alabì, cos’è questo profumo?

– Il mare.

«Chissà cos’è il mare…» pensa il bambino, e Araj in men che non si dica è sulla cima.

Luisu si volge indietro, alla pianura. I fuochi degli accampamenti disegnano stelle – Per sostituire quelle che mancano in cielo? – Davanti agli occhi un baratro nero e profumato, e laggiù in fondo luci minuscole. Camminano, disegnano cerchi e onde tremanti…

Emanuel Alabì divide il suo pane, il suo formaggio e la sua fiasca di acqua di fonte con Luisu.

– Dov’è il mare?

– Attorno, dappertutto. Da qualunque monte si scenda, si arriva sempre a un mare.

– Cos’è?

– … Acqua. Acqua senza fine. È scritto di Ben Alì, che dalla costa di Barbarìa vedeva le belle di Nerja, e oltre Ouled Diellal i margini del deserto, e neppure Ben Alì ha mai visto le pietre di Licata dalla sabbia di Annaba. Il mare è infinito, e vivo. Respira. Gioca, minaccia, e ogni tanto uccide… Bisogna navigare, e guardarlo… Guardarlo. Un’immagine vale più di mille parole… Lo vedrai domani, laggiù – l’indice di Emanuel Alabì traccia un semicerchio che contiene metà del mondo e le luci minuscole che camminano disegnando cerchi e onde tremanti.

– Cosa sono quelle luci?

– Lamparas. Barche di pescatori. È una buona notte, per calamari… – L’uomo cerca il bambino, e vede gli occhi che brillano, spalancati sotto l’unica stella. – Non sai cos’è una barca e forse non hai mai visto un calamaro…

– Hai ragione. Ma non è importante. Mi piace ascoltarti. Le parole sono note di un ballo, non bisogna capire…

Ride, Emanuel Alabì. Accende una pipa corta, dimezzata. – Parleremo fino a che non sarà spenta. Poi dormiremo. Avrai tempo anche domani, per imparare.

– Emanuel Alabì… Cos’è la città?

– Non basterebbe il racconto della mia vita tutta intera… Dovrei dirti di mio padre e di mia madre… – Parla lento, e tra una frase e l’altra aspira una boccata di fumo, la conserva a lungo nei polmoni e la soffia verso il mare invisibile – … Dovrei dirti di mio padre e di mia madre… e dei sette Alabì che hanno procreato Alabì per arrivare a mio nonno Vidal Alabì… e arrampicarmi anche più indietro a Ehaim Alabì, che fuggì da Maiorca su una barca da pesca con quattro bauli d’oro e una scimmia ammaestrata… seguito in mare da suo padre Salomone… Che nuotò per trenta giorni, poi diventò lampreda e pescecane… Sarebbe troppo lungo… Una cosa è importante, soprattutto. Guardati dai baroni… Torturano, uccidono, comprano e vendono… qualunque cosa anche se stessi… riveriscili secondo l’etichetta, quando ti capiterà… gli fa piacere, adorano gli ossequi, i salamelecchi e i leccapiedi… gareggiano per un’onorificenza formale, per un titolo vuoto di valore, per una decorazione, per un’inezia… che li fàccia apparire diversi, superiori, e obblighi il mondo alla riverenza… fanno le code, come i pavoni, e si specchiano negli occhi del prossimo… Ho un fratello di sangue… si chiama Bassach Manahem… e una volta ha detto che la loro stessa anima, se pure hanno un’anima, è davanti a uno specchio, vede solo se stessa e ignora l’esistenza del mondo… Ma non è così, se è vero che invidiano chiunque, con la massima facilità, per qualunque motivo… Bassach crede che si possa invidiare senza uscire dallo specchio, semplicemente notando la propria bruttezza, ma è un gioco… un paradosso… e Bassach compra, ogni anno, tre pesi d’oro di Persia, e due pugni di gemme di Barbarìa, e vende ogni anno più dí cento monili finiti… Li disegna Beth, sua moglie, e meraviglie così non le vedresti al bazar di Costantinopoli… I baroni amano il lusso e i gioielli, per fortuna… Anche se più di ogni altra cosa amano il dominio, e il cibo… fuori dalle mura, nel porto, c’è un mercato più affollato della casbah di Agadir… vendono stoffe, armi, carbone, pesce appena pescato… e barili di baccalà salato, vini portoghesi e droghe moresche… Ogni notte banchettano, ruttano, si ubriacano… vaneggiano di onori e denari, balsami e favori… elisir e complotti per distruggersi a vicenda… Vivono per dominare gli altri… Bassach crede che lo facciano perché non sanno governare se stessi…

– Cos’è il porto? E Agadir?

– …Dovresti sapere cos’è una nave…

– D’accordo. Cos’è una nave?

– Una cesta di legno, ma grande, più grande della tua casa… vola sul mare, i venti spingono le vele… arriva nei porti delle città… Agadir è laggiù, oltremare, nel cuore di un regno… nel mondo dei Re e dei prodigi… dei flauti incantati… dei creditori di dèi… Adesso basta. La pipa è finita, bisogna dormire.

Emanuel Alabì si corica e copre le spalle con una manta di pelli di pecora. Chiude gli occhi.

Luisu non ha sonno e sente la voce di mammai: – Non vuoi mai dormire… Chiudi gli occhi, bitzinné.

Li chiude. Ma non del tutto, e vede fra le ciglia la mano bianca di mammai che fruga nella paglia e cerca le uova coperte di piume bianche. Le uova sono tiepide sulle palpebre. La magia l’ha difeso dal male nei giorni di carestia e in quelli di abbondanza, fino alla fine. E la voce calda e scura canta un rosario di parole nuove: – Domani sarai Luisu, Luisu Alabì più tardi, e dovrai imparare, dovrai lottare, la magia non sarà più tuo scudo, Araj dimoniu ti accompagnerà, ma soltanto se saprai domarlo…

– Oh… mammai… senza magia… dove porta la strada?

– Al corno della forca, porta! – Il ghigno malvagio di Occhi di rospo accompagna le parole.

«Anch’io ho faticato, ad aprire gli occhi…» pensa Emanuel Alabì, orafo judeo e contrabbandiere. Si rigira sotto la manta e si addormenta.

Luisu apre gli occhi. Una luna si solleva, tonda e gialla come un’arancia, e una luna rossa si abbassa e scompare, e riappare, affonda, trema, ondeggia, scivola, sinuosa.

«Prima c’era una stella… una sola…» pensa, e si addormenta.

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