Il Candide di Voltaire è un’opera che mescola sapientemente ironia e critica filosofica, ponendosi come una satira delle teorie ottimistiche del suo tempo. Attraverso le disavventure di Candido e dei suoi compagni, Voltaire sfida l’idea che viviamo nel “migliore dei mondi possibili”, smascherando la crudeltà e l’ipocrisia umana. L’ambiguità del romanzo risiede nella sua capacità di essere, al tempo stesso, una riflessione profonda sulla condizione umana e una parodia delle utopie e delle filosofie illuministiche, proponendo, alla fine, il semplice e modesto ritorno al buon senso e alla necessità di “coltivare il proprio giardino”.
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“Se si giudicasse il romanzo composto da Voltaire col titolo di Candide solo dal modo come ne sono sviluppate e raccontate le trame, ci si potrebbe accontentare di considerarlo un ammasso di idee assurde, stravaganti, slegate, inverosimili, prive di senso; e si potrebbe credere che Voltaire, mentre lo scriveva, era evidentemente in preda agli attacchi di una febbre violenta. Ma esaminandolo più attentamente, ci si accorgerebbe ben presto che nello scriverlo l’autore bruciava di un fuoco ancor più temibile. Si comprende facilmente che tutti i furori dell’impudicizia correvano allora nelle sue vene e tutti gli orrori dell’inferno riempivano la sua nera immaginazione”.
Chi parlava così era l’abbé Nonnotte, autore negli anni ’70 di tre piccoli ma densi tomi dedicati a Les erreurs de Voltaire. Non sarà il caso di fare più conto del suo giudizio di quanto se ne debba o se ne possa fare di tanti altri polemisti e detrattori, specialmente cattolici, di Voltaire allora e dopo. E, tuttavia, quel suo accenno al Candide come frutto di una passione ardente e non di una stravaganza priva di senso offre, a riflettervi, uno spunto critico penetrante. È consolidata, infatti, la fama del Candide come di opera d’ingegno, certamente, ma superficiale, divertita, fortemente ironica, più brillante che seria, tanto spiritosa da poter essere considerata pressoché fine a se stessa. E se, invece, come a titolo di accusa e in termini dispregiativi afferma Nonnotte, si trattasse del frutto di un impulso appassionato, di un appello a emozioni e sentimenti invece che alla ragione?
Altrettanto consolidata è la fama del Candide come prodotto di una sottile perversione tanto intellettuale quanto morale. Ascoltiamo, ad esempio, un giudice di rilievo fuori del comune quale, sicuramente, è Rousseau. “Pare sempre”, egli scrive addirittura nelle Confessions, e cioè in una delle sue opere più emblematiche e profonde, “che Voltaire creda in Dio. In realtà, egli non ha mai creduto ad altri che al diavolo. Il suo preteso Dio è soltanto un essere che fa del male e prende gusto solo a nuocere. L’assurdità di questa dottrina salta agli occhi, ma soprattutto è rivoltante in un uomo colmato di ogni bene che, dalla rocca della sua buona sorte, cerca di indurre alla disperazione i suoi simili con l’immagine penosa e crudele di tutte le calamità da cui egli è immune. Poiché sono più di lui autorizzato a contare e pesare i mali della vita umana, ne feci un esame equilibrato e giunsi alla conclusione che di tutti questi mali non ve ne sia uno solo imputabile alla Provvidenza o che non abbia la sua matrice nell’abuso compiuto dall’uomo delle sue facoltà anziché nella natura stessa. […] Dopo di che Voltaire ha pubblicato la risposta che mi aveva promesso, ma che non mi è mai stata inviata; ed essa non è altro che il romanzo di Candide, di cui io non posso parlare perché non l’ho letto”.
Ecco, dunque, il cliché di Voltaire come cinico e sadico gaudente, che dalla loggia dei beati possidentes irride alla folla dei sofferenti; di un Voltaire autore di una “filosofia parassita ai cui occhi”, come affermava André Chénier, “il ricco con una bella casa, cavalli e carrozze, che deposita presso una bella cortigiana il frutto di venti anni di concussione, è sempre una persona onesta”. Ecco il cliché di Voltaire che Madame de Staël derivava proprio dal Candide: “opera di una gaiezza infernale, poiché sembra scritta da un essere di un genere altro dal nostro, indifferente alla nostra sorte, contento delle nostre sofferenze, che come un demonio, o come una scimmia, ride delle miserie di questa specie umana con la quale egli non ha nulla di comune”. Ecco il giudizio di Rousseau sviluppato e reso più drastico da Barbey d’Aurevilly, per il quale il Candide è un “libro scellerato, che fa della coscienza umana uno scherzo e che, sotto forma di romanzo, non è che un odioso libello contro la Divina Provvidenza”.
E se, invece di un’opera cinica e sadica, Candide fosse il frutto di quella “ironia bonaria di Voltaire con tanto buon senso sotto tanta malizia”, di cui parlava De Sanctis? E se, invece di segnare il solco odioso di una distanza voluta e irridente dalla sorte comune e dolorosa degli umani, fosse un modo di solidarizzare con questi esseri e di partecipare e immedesimarsi di quella sorte? Chénier stesso sosteneva che, se leggiamo Voltaire, accanto alle pagine della “filosofia parassita” ne troviamo altre, in cui “vedremo la virtù amata e rispettata, e dipinta con colori degni di essa; vedremo il vizio trascinato nel fango, la grandezza eretta sul crimine, le usurpazioni di ogni tipo attaccate con veemenza o con un’ironia acre e penetrante e non meno efficace, e insomma tutti i diritti dell’umanità sostenuti con un’eloquenza così forte e persuasiva da stupirmi sempre che pensieri così opposti siano nati nella stessa testa e che quest’altra parte dei suoi scritti non lo abbia portato a sopprimere la prima”.
E quanto a Voltaire, in una lettera del 1765 (e, dunque, di pochi anni posteriore al Candide, che è del 1758), egli affermava di aver “passato la vita a cercare e a rendere pubblica la verità” che egli amava. “Nei terribili disastri dei Calas e dei Sirven”, ossia nelle battaglie da lui sostenute nel frattempo per difendere la causa dell’innocenza e della giustizia, “[non aveva fatto] altro che ciò che fanno tutti gli uomini: seguire la propria inclinazione. Quella di un filosofo non è di compiangere i disgraziati, è di servirli”. E a d’Alembert scrisse una volta: “marciare sogghignando sempre sul cammino della verità”.
Resterebbe il rapporto tra Candide e la filosofia dell’“ottimismo” illuministico, del razionalismo aprioristico (alla Wolff più che alla Leibniz), del conseguente rifiuto della storia e della vita, dell’appello all’ordine anche nella più solare evidenza del disordine. È stato René Pomeau a porre la questione: “la filosofia del Candide è una filosofia dell’assurdo?”. Pomeau lo nega. “Candido”, egli scrive, “non è, più di Giacomo o di Figaro, un eroe tragicamente scagliato in un mondo altro. Per quanti imprevisti resistenza riservi ad essi, questi errabondi non sono affatto degli ‘alieni’. Nella rada di Lisbona la loro nave si sfascia e si inabissa, ma Candido e Pangloss afferrano a tempo una tavola che li porta a riva. Nel peggiore dei disastri l’universo del Candide fornisce sempre la tavola della salvezza. In quel mondo non si muore. Allo spettacolo del Candide manca la scena capitale del mondo dell’assurdo, ossia la morte, e il suo complemento, ossia la sepoltura, questo sforzo supremo della pompa umana per camuffare l’angoscia dell’assurdo. Il mondo del Candide è un mondo in cui si vive. L’alacrità di Voltaire manifesta appieno, in quest’opera, la sua ambiguità. La corsa dettagliata e rapida del piccolo drappello termina nel giardino che è il migliore dei paradisi possibili, se si tiene conto dell’instabilità degli uomini e delle cose”. E non si può negare a Pomeau di aver colto qui, per più di un verso, nel segno.
Dunque, non una semplice reductio ad absurdum dell’“ottimismo” filosofico del tempo. Non Cocchio rivolto a Leibniz o a Wolff (o a Pope o ad altri); non satira o parodia o ironia delle utopie o sogni o illusioni attraverso l’iperbolica inverosimiglianza di sciagure di ogni genere che piombano, imprevedibili e repentine, sui disgraziati protagonisti del romanzo; né sfida all’assurdo con la prospettiva di consolazioni irrisorie (“bisogna coltivare il nostro orto”, conclude, alla fine, Candido). Al contrario, un richiamo alla verosimiglianza dell’assurdo, alla precarietà del quotidiano, al “tragico quotidiano”, alla catena dei mali che nascono l’uno dall’altro non diversamente che il bene. “La fine del Candide”, osservava Flaubert, “è per me la prova evidente di un genio di prim’ordine. C’è l’artiglio del leone in questa conclusione tranquilla, stupida come la vita”. E fa tornare alla mente il “buon senso sotto tanta malizia”, che a Voltaire riconosceva, come si è detto, De Sanctis.
Dagli studiosi sono stati indicati nella biografia e nel tempo di Voltaire varie sollecitazioni e vari obbiettivi polemici del romanzo. Oltre che all’“ottimismo” di molti filosofi di allora si è pensato ai rapporti dell’autore con la Duchessa di Sassonia-Gotha, impenitente seguace di quei filosofi pur fra i disastri arrecati al suo paese dalla Guerra dei Sette Anni; alla rovinosa sconfitta dei Francesi a Rossbach nei primi tempi della stessa guerra; al terremoto di Lisbona. Si è pensato alle peripezie personali di Voltaire in quegli anni, dalla perdita di Madame du Châtelet alla rottura con Federico II, dal suo arresto a Francoforte alle pene del suo soggiorno a Colmar, dallo scandalo per l’articolo su Ginevra nell’Encyclopédie alle minacce dei Gesuiti pur dopo il suo rifugio in Svizzera. Ma, alla luce di quanto si è detto, tutti questi possono essere stimoli o occasioni, pura materia comunque, non il canale genetico, la matrice ideale del romanzo, come per più si sostiene. Genesi e ideale emergono più persuasivamente da quelli che possono essere considerati il mondo morale e la fisionomia intellettuale di un Voltaire ormai maturo, anzi il Voltaire che proprio con il Candide dà inizio e piena espressione alla sua raggiunta e, per quel che un simile termine può valere, definitiva maturità (e il valore periodizzante, sotto questo aspetto, del romanzo non appare ancora chiaro, a quel che sembra, negli studi sul suo autore).
Si può sempre trovare un modo di vivere e sopravvivere, sembra dire il messaggio che, nella verosimiglianza dell’assurdo, scaturisce dalle pagine voltairiane. Se gli accidenti che colpiscono senza sosta Candido e compagni, lungi dall’essere inverosimili e iperbolici, sono soltanto ironiche e paradossali gigantografie di quel che ogni giorno si sperimenta di inauspicato e di rovinoso (il terremoto, la guerra, il cadere in disgrazia, l’arresto e quant’altro), allora sono soltanto allegorie e forzature caricaturali delle scappatoie e delle rivalse che la vita al contempo ci riserva anche le tavole di salvataggio a cui in ogni occasione quei derelitti riescono ad aggrapparsi: presso i Bulgari o nelle Americhe, dinanzi a Lisbona, o al centro di Londra e di Parigi. Certo, occorre saggezza perché nelle disavventure si ravvisi ciò che, di volta in volta, è il maggior bene possibile, e occorre moderazione di appetiti e di criteri per rallegrarsene e accontentarsene. Ma certo è pure che il romanzo, apertosi nel “paradiso terrestre” di Thunder-ten-tronckh, si chiude in un piccolo orto: un piccolo hortus conclusus nel duplice senso che è l’orto dove si conclude la storia e l’orto in cui i protagonisti si recludono, finalmente al riparo – si spera – da avventurose traversie; un orto che promette sostegno alla vita, ma che bisogna pur coltivare, con cura e con fatica, perché lo dia.
L’ambiguità del Candide a cui accenna Pomeau (e che, più in generale, ci può far chiedere se si tratti di parodia ironizzante o di seria riflessione) non va oltre questo. Vero è che essa è uniformemente presente in ogni sua pagina come un elemento costitutivo. Si pensi al nome del dottor Pococurante (al quale nella sua corrispondenza Voltaire dichiarerà di rassomigliare): che si cura poco delle cose o che si cura di poche cose? L’uno e l’altro vien subito fatto di dire: come è del significato del Candide in generale. E la contrapposizione fra Pangloss e Martin? Anche questa dialettica non appare rilevata negli studi voltairiani. Eppure, è una dialettica centrale nella “filosofia” dell’opera, poiché, se Pangloss è sempre convinto del bene, Martin lo è sempre del male, anzi, più precisamente, dell’esistenza di un Dio del Male in opposizione al Dio del Bene: provvidenzialismo contro manicheismo.
Né provvidenzialismo, né manicheismo sono, però, la “religione” di Voltaire. La sua sta piuttosto nel buon senso di Candido, che con pazienza si rimette all’opera del vivere dopo ogni disavventura e che, dopo vari preannunci ironici o allusivi, a Pangloss esaltante “il migliore dei mondi possibili” onde sarebbero concatenati fra loro gli sciaguratissimi avvenimenti vissuti dai protagonisti, finisce con l’opporre il richiamo sommesso e modesto, ma risolutivo, alla necessità di coltivare il giardino del loro approdo. Si può, dunque, dire che, se Pococurante esprime la psicologia, Candido esprime il pensiero del Voltaire maturo. Ed ecco ancora un’ambiguità, tra le più allusive, dell’opera, poiché il candore, a cui rimanda il nome del suo eroe eponimo, è anche la trasparenza del buon senso tanto concretamente realistico quanto bonariamente ironico e alimenta la filosofia spontaneamente emergente dal parossistico susseguirsi di innumerevoli e incredibili disastri. Il vero filosofo non è il dotto Pangloss, bensì l’ingenuo e semplice (come il nome suggerisce) suo allievo Candido.
Si capisce che a Rousseau il Candide apparisse come l’antitesi più esplicita al suo modo di vedere e di sentire. Il candore di Candido non è quello della natura umana non adulterata dalla società e dalla storia, dall’educazione e dalla cultura. Candido non è né il “buon selvaggio”, né il protagonista dell’Émile. Al contrario, è il nuovo Adamo che, cacciato dal paradiso terrestre, matura una saggezza fatta tutta di semplicità e di bonomia, nata da dolorose esperienze e da continue e sconvolgenti altalene della fortuna, risolta nella paziente accettazione e nell’operoso adattamento alle mutevoli condizioni a cui il corso delle cose lo mette di fronte. Eroe positivo e costruttivo, dunque; tutt’altro dall’inconsistente e pretestuosa “ombra cinese”, dal fantoccio destinato a far apparire più comica e violenta, con un contrasto in fortissimo chiaroscuro, la satira di cui è destinatario Pangloss; altro, anche, dal cliché tradizionale del rustico “di scarpe grosse e di cervello fino”, perché Candido è tutto, tranne che ignaro di città e palazzi, ché, anzi, è nell’esilio da corti e delizie principesche che consiste la sua perdita del paradiso terrestre. E meno che mai egli è l’Adamo biblico, cristiano, cattolico, perché dopo la perdita dell’Eden (che già, comunque, è un Eden tutto terreno) egli non fa parte di alcun dramma cosmico di maledizione e di redenzione, bensì solo di una quasi tragicomica vicenda di esasperate traversie e di pazienti reazioni.
Del resto, la simbologia dei personaggi che più felicemente o positivamente si incrociano con Candido va tutta in questo senso. La vecchia al servizio di Cunegonda è preziosa consigliera di astuzie maliziose o innocenti. L’anabattista Giacomo è caratterizzato da doti che possono essere definite senz’altro come virtù e carità. Il meticcio Cacambo è un vero personaggio-manifesto contro la discriminazione sia sociale che razziale, ed è, quindi, da tener presente anche quando si parla dell’antisemitismo di Voltaire, per il quale il razzismo non fu mai un valore, né quando esaltava, né quando deprimeva una razza. Egli è non solo il più fedele, ma anche il più abile aiutante di Candido. In tutti risaltano un equilibrio umano e un’esperienza di vita lontani dagli estremi opposti dell’ottimismo di Pangloss e del manicheismo di Martin. Non aveva torto Sainte-Beuve, se si considera questa umanità modesta e costruttiva, ad affermare che accanto alla grazia e alla petulanza, al tono brillante e a quello serio vi è talora, in Voltaire, del patetico. Candide non può essere letto in maniera pertinente e inteso appieno al di fuori di questa complessità del suo registro e senza coglierne il pensiero di fondo e il messaggio di umanità che esso vuole trasmettere.
Aveva, tuttavia, ancor più ragione Madame de Staël ad affermare che era impossibile imitare i contes philosophiques di Voltaire per le caratteristiche (“la gaiezza arguta e la grazia sempre diversa”) di quegli scritti. “Senza dubbio si trova,” ella scriveva, “una conclusione filosofica alla fine dei suoi contes, ma la piacevolezza e la rifinitura del racconto sono tali che ci si accorge di un tale scopo soltanto quando esso è stato già conseguito.” La dissimulazione del filosofo da parte dello scrittore è, qui come altrove, un’ulteriore, e più appariscente, ambiguità di Voltaire. In Candide l’eccellenza letteraria da lui raggiunta è addirittura impressionante. Nessun’altra delle sue opere di invenzione gli avrebbe arrecato altrettanta e così meritata fama. E neppure Voltaire, come notava Alain, “poteva supporre che le sue tragedie sarebbero state presto dimenticate e che il suo capolavoro fosse proprio quel romanzo”.
Dall’introduzione di Giuseppe Galasso a Voltaire, Candido o l’ottimismo, Feltrinelli, 1991, pp. 5-12