Giorgio Agamben, Homo sacer, 1995

L’homo sacer e il potere della biopolitica

Agamben mostra come lo stato d’eccezione trasformi le democrazie in regimi totalitari, dove il potere decide chi è sacrificabile, legittimando nuove forme di dominio.

Giorgio Agamben, “Homo sacer”, 1995

Ci sono libri che si leggono per diletto, altri per necessità, e altri ancora che ci trascinano nella loro orbita come pianeti intrappolati dal campo gravitazionale di un sole troppo vicino. Homo Sacer di Giorgio Agamben appartiene a questa ultima categoria, e lo fa con la perizia di un chirurgo che incide nel tessuto della filosofia politica per mostrare, sotto la pelle delle parole, le ossa di un meccanismo antico quanto il pensiero occidentale. Con un’operazione che richiama gli studi filologici tanto cari a una certa tradizione italiana, Agamben porta alle estreme conseguenze le intuizioni di Foucault sulla biopolitica e disegna un quadro in cui il moderno non si comprende senza l’antico, la democrazia non si libera dalle ombre del totalitarismo, e il concetto stesso di vita si intreccia inestricabilmente con quello di sovranità.

Il titolo è già una dichiarazione di intenti: Homo sacer, una figura giuridica del diritto romano arcaico che designa colui che può essere ucciso senza che ciò costituisca omicidio, ma che al tempo stesso non può essere sacrificato. Un’esistenza ai margini della legge, dentro e fuori il diritto, in una condizione di abbandono sovrano. Il tema è di quelli che, se ben sviluppati, aprono voragini nella nostra percezione della politica e del diritto. Agamben lo tratta con l’abilità del filosofo che sa essere anche storico, giurista e semiologo, scandagliando le pieghe del pensiero occidentale dalla Grecia classica ai campi di concentramento nazisti.

L’autore costruisce il suo discorso attraverso una genealogia che parte da Aristotele e giunge a Foucault, passando per Hobbes, Carl Schmitt, Benjamin e Arendt. I greci distinguevano tra zoé (la vita naturale, condivisa con gli animali) e bios (la vita qualificata, politica). Per Aristotele, la città non nasce per il semplice vivere (zen), ma per il vivere bene (eu zen), e la politica si definisce attraverso questa separazione. Eppure, suggerisce Agamben, è proprio questa distinzione a costituire l’invariante della politica occidentale: il potere sovrano è tale proprio perché decide chi può accedere alla sfera della vita politica e chi deve rimanere confinato nella mera esistenza biologica. Questa inclusione attraverso l’esclusione trova il suo culmine nei totalitarismi del Novecento, dove la nuda vita diventa il vero oggetto della politica, come dimostrano i campi di concentramento.

L’analisi di Agamben diventa particolarmente incisiva quando affronta il tema dello stato di eccezione, quella sospensione della norma giuridica che, secondo Carl Schmitt, definisce la sovranità stessa. Se sovrano è chi decide sullo stato di eccezione, ciò significa che il potere politico si fonda sulla capacità di decretare quali vite valgano e quali siano sacrificabili. Il campo di concentramento diventa allora il paradigma della modernità: non un’anomalia, ma il cuore stesso della politica contemporanea, il luogo in cui la legge si manifesta proprio nella sua sospensione.

Questa lettura della biopolitica non è priva di implicazioni inquietanti: la democrazia moderna, sostiene Agamben, non ha realmente superato la logica del totalitarismo, ma l’ha semplicemente declinata in nuove forme. Se nel passato il sovrano aveva il potere di vita e di morte sui sudditi, oggi il potere si esercita nel controllo totale della nuda vita, nella gestione biopolitica delle popolazioni. In questo senso, le politiche di emergenza, i decreti di sicurezza e persino le misure sanitarie possono essere lette come manifestazioni di uno stato di eccezione permanente.

Non è un caso che Agamben abbia suscitato reazioni contrastanti: la sua tesi implica che le categorie politiche moderne – destra e sinistra, democrazia e dittatura – siano in ultima analisi inservibili, perché non colgono il vero punto di snodo, che è il rapporto fra la vita e il potere. Questo è forse l’aspetto più radicale del libro: l’idea che la politica occidentale non sia altro che un continuo rimaneggiamento del dispositivo sovrano che decide chi è Homo Sacer e chi no. Se un tempo l’homo sacer era una figura eccezionale, oggi è diventato la norma. L’escluso è ovunque, e la biopolitica non fa che amministrare questa esclusione.

Dal punto di vista stilistico, il libro è denso e rigoroso, con quella prosa filosofica che non fa concessioni alla leggerezza e che impone al lettore un impegno non indifferente. Agamben scrive con la consapevolezza di chi scava nei fondamenti del pensiero, e il risultato è un testo che può risultare ostico a chi non abbia familiarità con i riferimenti teorici. È un libro che si muove in quello spazio in cui la filosofia incontra la filologia e la teoria politica, con una scrittura che oscilla tra la limpida esposizione e il labirinto concettuale. Se a volte l’argomentazione sembra farsi circolare, è perché Agamben non cerca tanto di dimostrare una tesi, quanto di far emergere un problema nella sua complessità.

Si potrebbe obiettare che, nella sua critica della modernità, Agamben rischi di appiattire le differenze storiche e politiche, di vedere continuità là dove ci sono fratture. Si potrebbe anche sospettare che il suo insistere sulla biopolitica come unica chiave di lettura della storia politica occidentale lasci in ombra altre dinamiche, altre possibilità. Ma ciò che conta, in un’opera filosofica, non è tanto la sua infallibilità quanto la sua capacità di aprire spazi di riflessione, di mettere in discussione le nostre certezze. E da questo punto di vista, Homo Sacer è un testo che non si lascia archiviare facilmente.

C’è, infine, una domanda che aleggia sulle pagine del libro e che Agamben lascia irrisolta: è possibile immaginare una politica che non si fondi sull’esclusione della nuda vita? Esiste un modo per sottrarsi alla logica della sovranità, per rompere il cerchio che lega potere e vita? Forse è questa la vera sfida del nostro tempo, e forse Homo Sacer non è un libro che offre risposte, ma uno che ci costringe a porre le domande giuste.

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