Il Grande Inquisitore di Fëdor Dostoevskij

Il Grande Inquisitore | di Fëdor Dostoevskij

Il Grande Inquisitore di Dostoevskij esplora il conflitto tra libertà e autorità, con Cristo e un cardinale che discutono se l'uomo preferisca la libertà o la sicurezza.

L’episodio del Grande Inquisitore narrato da Ivan a suo fratello Alëša ne I Fratelli Karamazov di Dostoevskij si sviluppa in un dialogo immaginario ambientato nella Spagna del XVI secolo, durante l’Inquisizione. Cristo ritorna sulla Terra e, nonostante non faccia nulla per farsi notare, viene immediatamente riconosciuto dalla folla. Effettua miracoli, tra cui la risurrezione di una bambina, suscitando l’entusiasmo delle persone. Tuttavia, il Grande Inquisitore, un cardinale novantenne, lo fa arrestare e portare in prigione, ritenendo che Cristo sia venuto a disturbare l’ordine stabilito dalla Chiesa.

Nel dialogo con Cristo prigioniero, l’Inquisitore accusa Cristo di aver concesso agli uomini una libertà insostenibile, che li ha resi infelici e disorientati. L’Inquisitore sostiene che la Chiesa, per il bene dell’umanità, ha preso il controllo della libertà degli uomini, offrendogli in cambio sicurezza e benessere materiale. L’Inquisitore argomenta che gli esseri umani non desiderano realmente essere liberi, ma piuttosto essere guidati e rassicurati, e che la libertà assoluta concessa da Cristo ha solo causato loro sofferenza. Pertanto, secondo l’Inquisitore, la Chiesa ha agito saggiamente prendendo il potere e guidando le masse verso una felicità controllata e regolata, anche a costo di ingannarli.

Il cardinale si appella alle tre tentazioni di Cristo nel deserto per sostenere la sua tesi: trasformare le pietre in pane, gettarsi dal pinnacolo del tempio e accettare il potere terreno su tutti i regni della Terra. Cristo ha rifiutato queste tentazioni, preferendo dare agli uomini la libertà di scelta. Tuttavia, l’Inquisitore vede questo rifiuto come un errore. Sostiene che l’umanità non desidera il libero arbitrio, ma piuttosto il miracolo, il mistero e l’autorità, tre elementi che danno conforto e stabilità. Rifiutando questi, Cristo ha condannato gli uomini a un’esistenza tormentata.

L’Inquisitore rivela che, per otto secoli, la Chiesa ha collaborato con “l’ingegnoso spirito” (il diavolo) per mantenere l’ordine e il controllo, fornendo agli uomini ciò di cui hanno veramente bisogno: pane e sicurezza. L’Inquisitore dichiara che, grazie a questo patto con il male, la Chiesa ha reso l’umanità felice, a differenza di Cristo, il quale, insistendo sulla libertà, ha portato solo caos e sofferenza.

Quando l’Inquisitore finisce il suo monologo, Cristo rimane in silenzio e risponde solo con un bacio sulle labbra del cardinale. Questo gesto sconvolge profondamente l’Inquisitore, ma non lo fa cambiare idea. Infine, il cardinale lascia andare Cristo, intimandogli di non tornare mai più.

L’episodio esprime la visione di Dostoevskij sulla libertà umana e sul potere, sollevando domande profonde sull’autonomia, la fede e l’autorità, lasciando aperto il dibattito su quale sia il vero bene per l’uomo.

* * *

V.

– Ecco, anche qui un po’ di prefazione è necessaria; voglio dire proprio una di quelle prefazioni letterarie… pfu! – scoppiò a ridere Ivan. – Eppoi già, che po’ po’ d’autore sono io! Vedi, l’azione del mio poema si svolge nel sedicesimo secolo, e a quei tempi (tu, del resto, lo saprai già dagli anni di scuola), a quei tempi c’era appunto l’abitudine, nelle produzioni poetiche, di portar sulla terra le potenze celesti. Di Dante non parlo neppure. In Francia, i clercs dei tribunali, e perfino i frati pei conventi, davano vere e proprie rappresentazioni, nelle quali mettevano in scena la Madonna, gli angeli, i santi, Cristo, e addirittura Dio. C’era allora, in tutto questo, una grande ingenuità. In Notre-Dame de Paris, di Victor Hugo, per onorare la nascita del Delfino, a Parigi, sotto Luigi XI, nella sala del municipio, vien data un’edificante e gratuita rappresentazione popolare, dal titolo: Le bon jugement de la très sainte et gracieuse Vierge Marie, in cui quest’ultima appare in persona e pronuncia il suo bon jugement. Da noi a Mosca, nell’epoca anteriore a Pietro il Grande, rappresentazioni drammatiche dello stesso genere, ispirate soprattutto all’Antico Testamento, si davano pure di quando in quando: e contemporaneamente giravano per le mani di tutti una quantità di racconti e di «versi», in cui agivano, all’occorrenza, santi, angeli, e tutte le potenze del cielo. Nei nostri monasteri ci si occupava parimenti di tradurre, di trascrivere e anche di comporre siffatti poemi, e questo perfino sotto la dominazione dei tartari. C’è per esempio il poemetto d’un monaco (dal greco, indubbiamente): Viaggio della Madonna fra le pene, con certe scene e un ardimento, da non restare indietro a Dante. La Madonna visita l’inferno, e a condurla «fra le pene» è l’arcangelo Michele. Essa vede i peccatori e i loro tormenti. Figura, tra l’altro, un’interessantissima schiera di peccatori in un lago ardente: coloro, fra questi, che s’immergono nel lago in modo da non poterne piú sommar fuori, «costoro, ormai, Iddio se li scorda»: espressione di profondità e forza straordinarie. Ed ecco, commossa e piangente, la Madonna cadere in ginocchio dinanzi al trono di Dio, e chieder pietà per quanti stanno all’inferno, per tutti quelli che Essa ha veduti là, senza distinzioni. Il Suo colloquio con Dio è d’enorme interesse. Essa supplica, non recede, e quando Dio Le accenna ai chiodi che trafiggono le mani e i piedi del Figliuol Suo, e Le domanda: «Come potrei perdonare a quelli che lo hanno torturato?» Essa ordina a tutti i santi, a tutti i martiri, a tutti gli angeli di prostrarsi insieme con Lei e di pregare affinché si abbia pietà di tutti senza discriminazioni. Alla fine, Essa impetra da Dio che le pene rimangano sospese, ogni anno, dal venerdí santo al giorno della Santissima Trinità, e allora subito i peccatori, dall’inferno, ringraziano il Signore e osannano a Lui: «Giusto sei Tu, o Signore, che cosí decretasti». Ebbene, ecco, anche il mio poemetto sarebbe stato sul genere di questi, se fosse uscito in quell’epoca. Vi appare in scena Lui; benché poi Lui non dica parola in tutto il poema, e non faccia che apparire e passar oltre. Son già passati quindici secoli dal momento che Lui diede promessa di venir nel Suo regno; quindici secoli da quando il Suo profeta scrisse: «Modicum et videbitis me»; «De die autem illo vel bora nemo scit, neque filius, nisi Pater»1 come annunciò Lui stesso mentre era su questa terra. Ma l’umanità lo aspetta con fede sempre uguale e con sempre uguale tenerezza. Oh, anzi con fede ancora piú grande, giacché quindici secoli son già trascorsi dal tempo che fu sospeso all’uomo ogni pegno celeste:

Credi a ciò che dice il cuore:
non piú pegni a noi dai cieli.

– E cosí, unica e sola, è restata la fede in ciò che dice il cuore! Certo, c’erano allora anche molti miracoli. C’erano santi i quali operavano guarigioni miracolose; a certi uomini pii, secondo i loro biografi, scendeva in persona la Regina dei Cieli. Ma il diavolo non sonnecchia, e fra gli uomini era già nato il dubbio sulla veracità di codesti miracoli. Appunto allora era apparsa nel Nord, in Germania, una nuova tremenda eresia. Un’enorme stella, «simile a una fiaccola» (cioè alla Chiesa) «cadde sulle sorgenti delle acque, ed esse divennero amare»2. Queste eresie cominciarono a rinnegare, in modo blasfemo, i miracoli. Ma tanto piú ardente era la fede in chi rimaneva credente. Le lacrime degli uomini salivano a Lui come sempre: Lui aspettavano, Lui amavano, in Lui speravano, come da sempre… Ed ecco: da tanti secoli ormai l’umanità pregava con fede e con passione: «Signore Iddio, manifestati a noi»; da tanti secoli alzava a Lui il suo grido, che Egli, nella Sua pietà infinita, fu colto dal desiderio di scendere ai supplicanti. Anche prima era avvenuto che Egli scendesse e facesse visita a qualcuno dei giusti, dei martiri o dei santi eremiti sulla terra, secondo sta scritto nelle loro vite. Fra noi Tjutčev, che aveva una fede profonda nella verità delle sue parole, proclamò che

Sotto la grave sua croce gemendo,
in lungo e in largo, o mia terra natale,
il Re dei Cieli, a rozzo schiavo eguale,
è passato su te, benedicendo.

– Che senza fallo cosí sia avvenuto, è quel che ti dirò. Ed ecco dunque che Egli fu colto dal desiderio di manifestarsi almeno un istante al popolo, al popolo angariato, sofferente, pieno di turpi peccati, ma insieme di fanciullesco amore per Lui. L’azione del mio poema si svolge in Spagna, a Siviglia, all’epoca piú tremenda dell’Inquisizione, allorché in gloria di Dio s’accendevano quotidianamente, in quel paese, i roghi, e

in autodafé grandiosissimi
gli eretici ardevan vilissimi.

– Oh, non fu questa, s’intende, quella discesa in cui Egli si manifesterà, secondo la Sua promessa, alla fine dei tempi, in tutta la gloria celeste, e avverrà di repente «come il lampo, che risplende da oriente fino a occidente». No, Lo aveva preso il desiderio di visitare almeno per un istante i figli Suoi, e proprio là dove stavano crepitando i roghi degli eretici. Grazie alla Sua pietà infinita, Egli passa ancora una volta fra gli uomini in quella stessa forma umana, in cui s’era aggirato fra loro per trentatre anni quindici secoli prima. Egli scende alle «piazze infocate» della città del Sud, nella quale al piú tardi il giorno prima, in un «grandioso autodafé», a cui assistevano il re, la corte, cavalieri, cardinali e seducentissime dame del seguito, ed era presente, in una folla innumerevole, l’intera Siviglia, era stato arso in blocco dal cardinale «grande inquisitore» un buon centinaio d’eretici ad maiorem gloriam Dei. Egli appare in sordina, inavvertitamente, ed ecco che tutti (cosa strana!) Lo riconoscono. Questo potrebb’essere uno dei luoghi migliori del poema: dove si vedesse, cioè, in che modo propriamente Lo riconoscano. Spinto da una forza irresistibile, il popolo si protende a Lui, Lo circonda, Gli s’addensa intorno, Lo segue. In silenzio, Egli passa tra mezzo con un lieve sorriso d’infinita pietà. Un sole d’amore arde nel Suo cuore, e raggi di Luce, di Sapienza e di Potenza fluiscono dai Suoi occhi, e riversandosi sugli uomini, fanno fremere d’amore, di rimando, i loro cuori. Egli tende a loro le braccia, li benedice, e dal contatto di Lui, foss’anche appena dei Suoi vestimenti, emana una forza risanatrice. Dalla folla ecco gridare un vecchio, cieco fin dall’infanzia: «Signore, guariscimi, cosí anch’io Ti vedrò»; ed ecco che una specie di squama scivola giú dai suoi occhi, e il cieco Lo vede. La gente piange e bacia la terra su cui Egli cammina. I bambini Gli gettano innanzi dei fiori, cantano e inneggiano a Lui: Osanna! «È Lui, è proprio Lui», ripetono tutti, «dev’essere Lui, non può essere altri che Lui». Egli si ferma all’ingresso della cattedrale di Siviglia nel preciso momento in cui recano al tempio, fra i pianti, una bianca, aperta cassettina di bimbo: c’è dentro una bambinetta di sett’anni, unica figlia d’un maggiorente della città. Il cadaverino è tutto ricoperto di fiori. «Egli resusciterà la tua creatura», gridano di tra la folla alla madre piangente. Uscito incontro al morto, il titolare della cattedrale guarda attonito e aggrotta le ciglia. Ma ecco prorompere il pianto della madre della morticina. Essa s’è gettata ai piedi di Lui: «Se sei Tu, resuscita la mia creatura!» grida, tendendo a Lui le braccia. La processione si ferma, la piccola cassa vien deposta sulla scalinata ai Suoi piedi. Egli la guarda con pietà, e le Sue labbra, piano, pronunciano ancora una volta: Talitha kumi, fanciullina svegliati. La bambinetta si solleva nella cassa, si mette a sedere e si guarda intorno, sorridendo stupita cogli occhietti spalancati giro giro. Fra le mani ha il mazzo di rose bianche, con cui stava adagiata nella cassa. La folla tumultua: gridi, singhiozzi; quand’ecco, proprio in quell’istante, passar d’improvviso presso la cattedrale, per la piazza, il cardinale in persona, il grande inquisitore. È un vecchio di quasi novant’anni, alto e diritto, col viso scarno e gli occhi incavati, dai quali tuttavia brilla ancora, come una favilla, lo sfolgorio dello sguardo. Oh, non ha indosso i sontuosi paramenti cardinalizi in cui si pavoneggiava ieri dinanzi al popolo, mentre bruciavano i nemici della fede di Roma: no, in questo momento ha soltanto la sua vecchia, rozza tonaca di frate. Dietro, a una certa distanza, lo seguono i foschi coadiutori e servi suoi, e la «sacra» guardia. Egli si ferma di fronte alla folla, e osserva a distanza. Ha tutto veduto: ha veduto come han deposto la cassa ai piedi di Lui, ha veduto com’è resuscitata la fanciullina, e il viso gli s’è rabbuiato. Aggrotta le canute, folte sopracciglia, e il suo sguardo s’accende d’un fuoco pieno di rancore. Fa cenno col dito, e ordina alle guardie che Lo prendano. Ed ecco, tanta è la sua potenza e a tal segno il popolo è ormai assuefatto, sottomesso e pronto a obbedirgli, che immediatamente la folla si apre a far passar le guardie, e queste, nel mortale silenzio sopravvenuto di colpo, pongono le mani su Lui e Lo conducono via. La folla istantaneamente, come un sol uomo, si curva colle teste fino a terra dinanzi al venerando inquisitore: questi, in silenzio, benedice il popolo e passa oltre. Le guardie conducono il prigioniero all’angusta, buia prigione a volte dell’antico edificio del Sacro Tribunale, e Lo rinchiudono lí. La giornata volge alla fine, sopravviene la cupa, calda, «sivigliana notte senza respiro». L’aria «di lauro e di limone odora». Nel profondo tenebrore s’apre d’improvviso la porta di ferro della prigione, e in persona il vecchio grande inquisitore, con una lampada nella mano, lentamente entra nel carcere. È solo: la porta, dietro a lui, si richiude subito. Si ferma presso la soglia e a lungo, per un minuto o due, fissa lo sguardo nel viso di Lui. Alla fine, adagio, s’appressa, posa la lampada sul tavolo e Gli dice: «Sei Tu? sei Tu?» Ma, non ricevendo risposta, s’affretta a soggiungere: «Non rispondere, taci. E che cosa mai potresti Tu dire? So fin troppo bene, che cosa diresti. Ma Tu non hai neppure il diritto di aggiunger qualcosa a quello che già è stato detto da Te in precedenza. Perché dunque sei venuto a darci impaccio? Giacché Tu sei venuto a darci impaccio, e sei il primo a saperlo. Ma sai, di’, che cosa avverrà domani? Io non so chi Tu sia, e non voglio sapere se sei Tu o soltanto un simulacro di Lui: ma domani stesso, io ti condannerò e ti brucerò sul rogo come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi, domani, a un mio semplice cenno, si precipiterà ad accostare le braci al rogo Tuo: sai Tu questo? Già: Tu, forse, lo sai», soggiunge il vecchio in una intensa riflessione, senza staccare un istante lo sguardo dal suo Prigioniero.
– Io non capisco bene, Ivan, di che cosa si tratti, – sorrise Alëša, che aveva ascoltato fin qui senza far parola. – È semplicemente una fantasia sbrigliata, o si tratta d’un errore del vecchio, di non so quale inaudito qui pro quo3?

– Intendila un po’ in quest’ultimo modo, – scoppiò a ridere Ivan, – se già ti ha viziato tanto il realismo contemporaneo, che non puoi tollerare nulla di fantastico: sia per il qui pro quo, se cosí preferisci. È un fatto, – tornò a ridere, – che il vecchio aveva novant’anni, e da un pezzo poteva dare in ciampanelle con quella sua idea fissa. Il prigioniero, dal canto suo, poteva avere un aspetto atto a colpirlo. E potrebbe anch’essere, in fondo, un delirio puro e semplice, un’allucinazione d’un vecchio novantenne prossimo alla morte, e piú che mai esaltato dall’autodafé della vigilia, coi suoi cento eretici arsi vivi. Ma questa è una questione che a noi due importa poco: qui pro quo? fantasia sbrigliata? Quel che importa, qui, è che il vecchio ha bisogno di esprimere ciò che gli sta nell’anima, e finalmente viene ad esprimere tutto ciò che in novant’anni gli s’è accumulato dentro, e dice ad alta voce ciò che pel corso di novant’anni ha sempre taciuto.

– E il Prigioniero anch’Egli tace sempre? Guarda all’altro, e non pronuncia parola?

– Ma appunto cosí dev’essere, per ogni buona evenienza, – di nuovo si mise a ridere Ivan. – È stato il vecchio stesso a rinfacciarGli che Egli non ha diritto d’aggiunger nulla a ciò che già a suo tempo fu detto. Se tu badi bene, è proprio qui la caratteristica del cattolicesimo romano, almeno per quanto sembra a me: «Tutto (come a dire) è stato trasmesso da Te al papa, e tutto quindi si trova ora nelle mani del papa: Tu dunque, adesso, puoi anche far a meno di venire, o d’impacciarci finché non è tempo, se non altro». In tal senso non solo essi parlano, ma anche scrivono, almeno i gesuiti. Ho letto io coi miei occhi di questa roba nei loro libri di teologia. «Hai Tu forse il diritto di annunziarci foss’anche uno solo dei misteri di quel mondo, dal quale Tu sei tornato?» gli domanda il mio vecchione, e lui stesso risponde per Lui: «No, non ne hai il diritto, affinché nulla si aggiunga a ciò che già a suo tempo è stato detto, e non venga tolta agli uomini quella libertà, sulla quale Tu hai tanto insistito, quand’eri su questa terra. Qualsiasi cosa Tu annunciassi di nuovo, inciderebbe sulla libertà di fede degli uomini, giacché prenderebbe l’aspetto d’un miracolo, mentre la libertà della loro fede era cara a Te sopra ogni altra cosa fin d’allora, un migliaio e mezzo d’anni or sono. Non eri Tu che tanto spesso, allora, dicevi: voglio rendervi liberi? Ma ecco, Tu hai veduto ora, codesti uomini liberi!» commenta bruscamente il vecchio con pensosa ironia.

– Già, questa è stata una cosa che ci è costata assai, – continua, e guarda a Lui con severità, – ma l’abbiamo condotta in porto, finalmente, nel nome Tuo. Per quindici secoli ci siam tormentati con questa libertà, ma ora la è finita, e finita da fondo. Tu non ci credi, che sia finita da fondo? Tu mi guardi con dolcezza, e non mi degni neppure del Tuo risentimento? Ma sappi che ora, e specialmente in questi momenti, codesta gente è persuasa, piú che non sia stata mai, d’esser libera in pieno, mentre pure con le proprie mani essi han recato a noi la loro libertà e l’hanno umilmente deposta ai nostri piedi. Ma questo l’abbiam fatto noialtri: era forse questo che Tu desideravi, questa la Tua libertà?

– Io di nuovo non capisco, – interruppe Alëša. – Il vecchio ironizza, si fa beffe?

– Nemmen per sogno. Non fa anzi che ascrivere a merito proprio e dei suoi d’esser riusciti, una buona volta, a soggiogare la libertà e di aver agito cosí al fine di render gli uomini felici. «Giacché ora soltanto (e qui, beninteso, egli si riferisce all’Inquisizione) è divenuto possibile provvedere per la prima volta alla felicità umana. L’uomo è, costituzionalmente, un ribelle: e forse i ribelli possono mai esser felici? Tu fosti preavvisato», a Lui dice il vecchio, «Tu non hai avuto davvero difetto di preavvisi e di ammonimenti, ma Tu non hai dato ascolto ai preavvisi, Tu hai ricusato l’unica via per cui era possibile ordinare gli uomini alla felicità: senonché, per buona ventura, quando sei ripartito, hai affidato ogni cosa a noi. Tu ci hai promesso, Tu ci hai sanzionato colla tua parola, Tu ci hai concesso il diritto di legare e di sciogliere, e, certamente, non puoi neppur pensare di venire a toglierci questo diritto ora. Perché dunque sei venuto a darci impaccio?»

– Ma che cosa vuol dire: non hai avuto difetto di preavvisi e di ammonimenti? – domandò Alëša.

– Proprio qui sta la cosa piú importante che il vecchio abbia bisogno di esprimere.

– Il terribile e ingegnoso spirito, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, – continua il vecchio, – il grande spirito parlò con Te nel deserto, e ci è stato tramandato nelle scritture che egli Ti avrebbe «tentato». Fu proprio cosí? Ed era forse possibile dir qualche cosa di piú veritiero di ciò che egli Ti annunciò nelle tre domande, e che Tu rifiutasti, e che nelle scritture passa col nome di «tentazioni»? E pensare che se mai è avvenuto su questa terra un autentico, formidabile miracolo, fu proprio quel giorno, il giorno delle tre tentazioni! Appunto nel fatto che potessero aver luogo quelle tre domande, si realizzò un miracolo. Se ci si potesse immaginare, semplicemente per ipotesi e a mo’ d’esempio, che queste tre domande del terribile spirito fossero scancellate senza traccia di sui testi, e che bisognasse stabilirle di nuovo, di nuovo escogitarle e formularle, in modo da inserirle ancora una volta nelle scritture, e all’uopo si radunassero tutti i sapienti della terra, reggitori di stati, sommi sacerdoti, eruditi, filosofi, poeti, e si dicesse loro: escogitate, formulate tre domande, ma tali che non solo corrispondano alla grandezza dell’evento, ma esprimano per giunta, in tre parole, in tre sole frasi umane, tutta la storia avvenire del mondo e dell’umanità: che cosa pensi Tu, che tutta la sapienza della terra, riunita insieme, riuscirebbe a escogitare qualcosa di paragonabile, per forza e per profondità, a quelle tre domande che realmente furon proposte a Te, quel giorno, dal possente e penetrante spirito nel deserto? Già a queste stesse domande, già al miracolo stesso del loro manifestarsi, si può intendere che ci si trova di fronte, non già ad una labile intelligenza umana, ma a un’intelligenza eterna e assoluta. Giacché, in queste tre domande, è come riassunta in blocco e predetta tutta la futura storia umana, e son rivelate le tre forme tipiche in cui verranno a calarsi tutte le irriducibili contraddizioni storiche della natura umana sulla terra intera. Allora questo non poteva peranche riuscire cosí evidente, giacché l’avvenire era ignoto; ma ora, che quindici secoli sono passati, noi vediamo che tutto, in queste tre domande, è a tal segno indovinato e predetto, e a tal segno s’è avverato, che aggiungervi o togliervi alcunché non è piú possibile.

– Giudica dunque Tu stesso chi fosse nel giusto: Tu, o colui che allora Ti interrogò. Rammenta la prima domanda: seppure non proprio alla lettera, il suo significato è questo: «Tu vuoi andare nel mondo, e ci vai con le mani vuote, con non so quale promessa di libertà, che quelli, nella loro semplicità e nella loro ingenita sregolatezza, non possono neppur concepire, e ne hanno timore e spavento – giacché nulla mai fu per l’uomo e per la società umana piú insopportabile della libertà! Ma vedi codeste pietre, per questo nudo e rovente deserto? Convertile in pani, e dietro a Te l’umanità correrà come un branco di pecore, dignitosa e obbediente, se anche in continua trepidazione che Tu ritragga la mano Tua e vengan sospesi loro i Tuoi pani». Ma Tu non hai voluto privar l’uomo della libertà, e hai rifiutato la proposta: giacché, dove sarebbe la libertà (hai ragionato Tu), se il consenso fosse comperato col pane? Tu hai ribattuto che non di solo pane vive l’uomo: ma sai che in nome appunto di questo pane terreno insorgerà contro Te lo spirito della terra, e verrà a guerra con Te, e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno, gridando: «Chi può paragonarsi a questa fiera: essa ci ha dato il fuoco rapito al cielo!» Sai Tu che passeranno i secoli e l’umanità proclamerà, per bocca della sua sapienza e della sua scienza, che le male azioni non esistono, e quindi non esiste peccato, ma ci sono affamati e basta? «Prima sfamateli, e poi chiedete loro la virtú»: ecco che starà scritto sulla bandiera che brandiranno contro Te, e alla cui ombra sarà distrutto il tempio Tuo. Al posto del tempio Tuo sarà innalzato un nuovo edificio, sarà innalzata di nuovo una tremenda torre di Babele, e sebbene anche questa non verrà condotta a termine, come quella d’allora, ma purtuttavia Tu avresti potuto evitare questa nuova torre, e abbreviar di mill’anni le sofferenze degli uomini: giacché a noi per l’appunto torneranno costoro, quando si saranno tormentati per mill’anni intorno alla loro torre! Allora essi ci ricercheranno sotto terra, nelle catacombe dove ci saremo nascosti (giacché noi saremo di nuovo perseguitati e posti a tortura), ci ritroveranno e alzeranno a noi l’invocazione: «Dateci da mangiare, perché coloro che ci han promesso il fuoco del cielo, non ce l’hanno dato». E allora saremo noi che condurremo a termine la loro torre, giacché a termine la condurrà chi darà da mangiare, e da mangiare lo daremo noi soli, in nome Tuo, e mentiremo dicendo di farlo in Tuo nome. Oh, giammai, giammai, senza di noi, essi non riusciranno a sfamarsi! Nessuna scienza potrà dar loro il pane, finché rimarranno liberi; ma finirà che essi recheranno la libertà loro ai piedi nostri, e diranno a noi: «Magari fateci schiavi, ma dateci da mangiare». Capiranno, alla fine, loro stessi, che libertà e pane terreno a sufficienza per ciascuno non sono concepibili insieme, poiché giammai, giammai non sapranno farsi le giuste parti fra loro! Si persuaderanno pure che non potranno mai essere liberi, perché sono deboli, pieni di vizi, inconsistenti e sediziosi. Tu hai promesso loro il pane del cielo, ma ripeto ancora, che paragone può esserci mai, agli occhi della debole, eternamente viziosa, eternamente ignobile schiatta degli uomini, fra quello e il pane della terra? E se dietro a Te, in nome del pane celeste, verranno le migliaia e le decine di migliaia, che ne sarà dei milioni e delle decine di milioni di esseri, che non saranno capaci di trascurare il pane terreno per quello celeste? O forse Ti son care soltanto le decine di migliaia dei grandi e dei forti, e i rimanenti milioni, innumerevoli come la sabbia del mare, di quelli che sono deboli ma Ti amano, non debbono servire che di materiale pei grandi e pei forti? No, noi abbiamo cari anche i deboli. Essi sono viziosi e sediziosi, ma alla fine saranno proprio loro che diverranno obbedienti. Essi si stupiranno di noi, e ci terranno in conto di dèi in compenso del fatto che, trovandoci alla loro testa, noi avremo acconsentito ad abolire la libertà, che faceva loro paura, e a porli sotto il dominio nostro: tanto tremendo finirà col sembrar loro essere liberi! Ma noi diremo che obbediamo a Te, e che dominiamo nel nome Tuo. Noi li inganneremo di nuovo, giacché a Te non permetteremo piú di accostarti a noi. E in questo inganno consisterà la sofferenza nostra, giacché noi saremo costretti a mentire. Ecco che significava quella prima domanda nel deserto, ed ecco che cosa hai rifiutato Tu in nome d’una libertà, che ponesti al di sopra di tutto. Ma intanto, in quella domanda, stava racchiuso un grande segreto di questo mondo. Accettando i «pani», Tu avresti risposto a quella universale e perpetua angoscia umana, sia d’ogni uomo in particolare, sia dell’umanità nel suo insieme, che si esprime nella domanda: «A chi genufletterci?» Non c’è preoccupazione piú assillante e piú tormentosa per l’uomo, non appena rimanga libero, che quella di cercarsi al piú presto qualcuno innanzi al quale genuflettersi. Ma l’uomo pretende di genuflettersi dinanzi a ciò ch’è ormai indiscutibile, talmente indiscutibile che innanzi ad esso tutti gli uomini in coro acconsentano a una generale genuflessione. Giacché la preoccupazione di queste misere creature non consiste solo nel cercar qualche cosa di fronte alla quale io o un altro qualunque possiamo genufletterci, ma nel cercare una cosa tale, che anche tutti gli altri credano in essa e vi si genuflettano, e anzi, piú precisamente, tutti quanti insieme. Appunto questa esigenza d’una genuflessione in comune è il piú gran tormento d’ogni uomo preso a sé e dell’umanità nel suo insieme fin dal principio dei secoli. Per bisogno di questa generale genuflessione gli uomini si son massacrati l’un l’altro a colpi di spada. Si son creati degli dèi e si sono sfidati l’un l’altro: «Abbandonate i vostri dèi e venite a genuflettervi dinanzi ai nostri: altrimenti, morte a voi e agli dèi vostri!» E cosí avverrà fino alla fine del mondo, anche quando saranno scomparsi dal mondo gli stessi dèi: non importa, cadranno in ginocchio dinanzi agl’idoli. E Tu sapevi, Tu non potevi ignorare questo fondamentale segreto della natura umana: ma Tu hai rigettato l’unica, assoluta bandiera, che ti veniva proposta per costringere tutti a genuflettersi dinanzi a Te concordemente: la bandiera del pane terreno; e l’hai rigettata in nome della libertà e del pane celeste. Guarda ora, che altro hai fatto Tu. E sempre, di nuovo, in nome della libertà! Ti ripeto che non c’è per l’uomo preoccupazione piú ansiosa che di trovar qualcuno a cui affidare al piú presto quel dono della libertà, col quale quest’essere infelice viene al mondo. Ma s’impossessa della libertà degli uomini solo colui, che rende tranquille le loro coscienze. Col pane, Ti veniva offerta una bandiera superiore a ogni discordia: dàgli il pane, e l’uomo s’inginocchia, giacché non c’è nulla di piú incontestabile del pane: ma se, nello stesso tempo, uno s’impadronisce della sua coscienza indipendentemente da Te, oh, allora egli sarà pronto perfino a gettar via il Tuo pane, e andrà appresso a colui che seduce la sua coscienza. Qui Tu vedevi giusto. Infatti, il segreto dell’esistenza umana non sta nel vivere per vivere, ma nell’avere un fine per cui vivere. Se non si prospetta in modo sicuro un fine per cui debba vivere, l’uomo non si rassegnerà a vivere e preferirà annichilarsi piuttosto che rimaner sulla terra, anche se tutt’intorno gli stessero pani a perdita d’occhio. Questo è vero, ma che conseguenza n’è stata tratta! Invece di prender possesso della libertà degli uomini, Tu gliel’hai resa ancora piú grande! O dunque hai dimenticato che la pace e magari la morte sono all’uomo piú care della libera scelta nella conoscenza del bene e del male? Non c’è nulla di piú ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di piú tormentoso. Ed ecco che invece di solidi fondamenti capaci di tranquillare la coscienza dell’uomo una volta per sempre, Tu hai scelto tutto ciò che v’è di piú difforme, di piú misterioso e di piú indefinito: hai scelto tutto ciò che è superiore alle forze degli uomini: e perciò hai finito per agire come se addirittura non li amassi affatto: e questo, chi! Colui ch’è venuto a dare per essi la vita Sua! Invece di prender possesso della libertà umana, Tu l’hai accresciuta, e hai aggravato coi suoi tormenti il regno spirituale dell’uomo, per l’eternità. Tu hai voluto il libero amore dell’uomo, hai voluto che liberamente Ti seguisse, attratto e soggiogato da Te. Al posto della solida vecchia legge, con libero cuore l’uomo doveva d’ora innanzi decidere lui stesso che cosa fosse bene e che cosa male, senz’avere innanzi a sé altra guida che la Tua immagine: ma possibile mai che Tu non abbia pensato ch’egli avrebbe rigettato infine e addirittura contestato sia la Tua immagine sia la Tua verità, se si fosse trovato oppresso da un peso cosí tremendo, come il libero arbitrio? Essi avrebbero finito col proclamare che la verità non è in Te, giacché non sarebbe stato possibile abbandonarli a uno scompiglio e a un tormento peggiori di come hai fatto Tu, lasciando loro in retaggio tanti affanni e tanti insolubili problemi. In tal modo, Tu stesso hai posto i fondamenti per la distruzione del Tuo proprio regno, e non puoi darne la colpa a nessun altro. Ma ben altro che questo era ciò che Ti veniva proposto! Ci sono tre forze, soltanto tre forze sulla terra, capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienza di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato la prima e la seconda e la terza, e sei stato il primo a darne l’esempio. Allorché il tremendo e sapientissimo spirito Ti collocò sul pinnacolo del tempio e Ti disse: «Se vuoi sapere se sei il Figlio di Dio, gettati giú, poiché di Lui sta scritto che gli angeli lo afferreranno e lo sorreggeranno e non cadrà e non si farà alcun male, e cosí verrai a sapere se Tu sei il Figlio di Dio, e cosí darai a vedere qual è la Tua fede nel padre Tuo»; Tu, ascoltate queste parole, rifiutasti la proposta, e non Ti ci assoggettasti, e non Ti lanciasti giú. Oh, certamente, Tu in quel frangente agisti in modo superbo e splendido, degno d’un Dio: ma gli uomini, ma questa debole schiatta sediziosa, son essi forse degli dèi? Oh, Tu comprendesti in quel momento che, facendo sia pure un passo, sia pure il minimo movimento di lanciarti giú, immediatamente Tu avresti tentato il Signore, e avresti perduto tutta la fede che avevi in Lui, e ti saresti sfracellato contro quella terra che eri venuto a salvare, con gioia dell’ingegnoso spirito che Ti aveva tentato. Ma, ripeto, son tanti quelli come Te? E possibile che Tu abbia realmente potuto supporre, sia pure un istante, che anche gli uomini fossero in grado di sopportare una simile tentazione? È forse costituita in modo, la natura umana, che possa rifiutare il miracolo, e che nei momenti tremendi della vita, nei momenti dei piú tremendi, dei piú laceranti e fondamentali quesiti dell’anima, possa rimanersene sola con la libera decisione del cuore? Oh, Tu sapevi che il Tuo gesto sarebbe stato conservato nelle scritture, avrebbe raggiunto le profondità dei tempi e gli estremi limiti della terra, e concepisti la speranza che, imitando Te, anche l’uomo sarebbe rimasto con Dio, senza aver bisogno del miracolo. Ma Tu non sapevi che, non appena l’uomo rifiuti il miracolo, subito rifiuterà anche Dio, giacché l’uomo va in cerca, non tanto di Dio, quanto dei miracoli. E quindi, dato che rimanere senza miracoli eccede le capacità dell’uomo, questi si fabbricherà dei miracoli nuovi, a modo suo stavolta, e finirà col genuflettersi dinanzi al miracolo del ciarlatano, dinanzi al sortilegio della ciana, fosse pure le mille volte ribelle, eretico e ateo. Tu non sei disceso dalla croce quando Ti gridavano, pigliandosi beffe di Te: «Scendi dalla croce, e crederemo che sei Tu». Tu non sei disceso perché, ancora una volta, non volesti asservire l’uomo col miracolo, e bramavi una fede libera, e non una fede vincolata al miracolo. Bramavi un libero amore, e non già le servili effusioni dello schiavo al cospetto del potente, che una volta per sempre lo ha terrorizzato. Ma, anche qui, Tu hai giudicato troppo altamente degli uomini, giacché, in fin dei conti, costoro son degli schiavi, seppure con la costituzione del ribelle. Guardati attorno e giudica: ecco, son passati quindici secoli: va’, e osservali: chi hai sollevato fino a Te? In fede mia, l’uomo è costituzionalmente piú debole e piú vile che Tu non lo ritenessi! È mai possibile, è mai possibile che egli adempia ai Tuoi voleri? E allora anche Tu perché hai agito cosí? Facendo tanta stima di lui, Tu ti sei comportato come se cessassi di averne pietà, perché troppo, in conseguenza, hai preteso da lui: e questo, da parte di chi! da parte di Colui, che lo ha amato piú di Se stesso! Facendone minor stima, meno avresti pure preteso da lui, e avresti agito in un modo piú vicino all’amore, giacché piú leggero sarebbe stato il suo fardello. Egli è debole e vile. Che cosa si nasconde in tutto questo tumultuare che fa ora un po’ dovunque contro la nostra potestà, e in questo menar vanto del suo ribellarvisi? Si tratta d’un orgoglio da bambino e da scolaretto. Sono dei piccoli ragazzi, che fanno rivoluzione in classe e caccian fuori il maestro. Ma verrà la fine anche per l’ebbrezza dei ragazzetti, e questa costerà loro salata. Essi rovesceranno i templi e inonderanno di sangue la terra. Ma arriveranno a capire, alla fine, questi sciocchi bambini, che seppure sono dei ribelli, son però dei ribelli di fiato corto, incapaci di sostenere il peso della loro stessa ribellione. Grondanti delle proprie stupide lacrime, si confesseranno, alla fine, che chi li creò ribelli voleva senza dubbio beffarsi di loro. Diranno questo con disperazione, e le loro parole saranno una bestemmia, per cui diverranno ancora piú infelici: giacché la natura umana non tollera la bestemmia, e presto o tardi finisce sempre col vendicarsene su se stessa. Cosicché, irrequietezza, rivolta e infelicità: ecco qual è ora il destino degli uomini, dopo che Tu hai affrontato tanta sofferenza per dar loro la libertà! Il grande profeta Tuo, in visione e in allegoria, dice di aver veduto tutti i compartecipi della prima resurrezione, e che ce n’erano in ragione di dodicimila per ciascuna generazione. Ma se erano tanti, costoro erano pur sempre piú che uomini, erano iddii. Essi avevano sopportato la Tua croce, avevano sopportato decine d’anni di affamato e nudo deserto, nutrendosi di locuste e di radici: e sí, certamente, Tu puoi con orgoglio additarci questi figli della libertà, del libero amore, del libero e splendido sacrificio di se stessi in nome Tuo. Ma tieni a mente che costoro erano in tutto qualche migliaio, ed erano dèi: ma tutti gli altri? E che colpa hanno tutti gli altri, i deboli, se non sono stati capaci di sopportare quel che han sopportato i forti? Che colpa ha un’anima debole, se non è in grado di accogliere in sé doni tanto tremendi? O allora dunque Tu sei venuto senz’altro fra gli eletti e per gli eletti? Ma se è cosí, qui c’è un mistero, e non è da noi comprenderlo. E se un mistero c’è, allora anche noi abbiamo il diritto di predicare il mistero e d’insegnare agli uomini che non la libera decisione dei loro cuori è ciò che importa, e non l’amore, ma il mistero, al quale essi han l’obbligo di assoggettarsi ciecamente, e addirittura indipendentemente dalla loro coscienza. E appunto cosí abbiam fatto noi. Noi abbiamo emendato la Tua gesta, e le abbiam dato per fondamento il miracolo, il mistero e l’autorità. E gli uomini si son rallegrati che di nuovo li conducessero come un gregge, e che dai loro cuori fosse stato tolto, finalmente, un dono tanto tremendo, che aveva arrecato loro tanto tormento. Abbiamo avuto ragione di insegnare e di agire cosí, parla? Non abbiam forse amato, noialtri, l’umanità, tanto umilmente riconoscendo la sua impotenza, con tanto amore alleggerendo il suo fardello, e permettendo alla debole sua natura sia pur di peccare, ma col nostro permesso? A che dunque sei venuto ora qui a darci impaccio? E che vuoi Tu, che in silenzio e intensamente mi guardi coi dolci occhi Tuoi? Adirati pure: non voglio, io, l’amor Tuo, perché, dal canto mio, non Ti amo. E che ragione avrei di nasconder qualcosa a Te? O che forse non so con chi sto parlando? Ciò che ho da dirTi, già a Te è tutto noto: io lo leggo nei Tuoi occhi. E sarei io a nasconderTi il segreto nostro? Probabilmente, Tu vuoi appunto sentirlo dalle labbra mie! Ascoltalo dunque: noi non siamo con Te, siamo con lui: ecco il nostro segreto! Già da gran tempo noi non siamo con Te, ma con lui: sono ormai otto secoli. Sono precisamente otto secoli che noi abbiam preso da lui ciò che Tu sdegnosamente rifiutasti, quell’ultimo dono che lui Ti offrí mostrandoTi tutti i regni della terra: noi abbiamo preso da lui Roma e la spada di Cesare, e abbiamo proclamato di esser noi soli i sovrani della terra, i sovrani unici, seppure finora non siamo peranche riusciti a realizzare in pieno il nostro assunto. Ma di chi la colpa? Oh, il nostro assunto si trova ancora soltanto agl’inizi: ma l’inizio c’è stato. Ancora a lungo se ne dovrà aspettare il compimento, e ancora molte sofferenze patirà la terra: ma noi raggiungeremo la meta e diverremo Cesari, e allora sí che provvederemo all’universale felicità degli uomini. Ma pensare che Tu avresti potuto fin d’allora prender la spada di Cesare! Perché Tu rifiutasti quest’ultimo dono? Accettando questo terzo consiglio del possente spirito, Tu avresti realizzato in pieno tutto ciò che l’uomo cerca su questa terra, e cioè: dinanzi a chi genuflettersi, a chi affidare la propria coscienza, e in che modo, infine, riunirsi tutti in un indiscusso, comune e concorde formicaio, giacché l’esigenza d’una unione universale è il terzo e ultimo assillo degli uomini. Sempre l’umanità, nel suo insieme, ha sentito un’aspirazione precisa a darsi un assetto che fosse universale. Molti sono stati i popoli grandi, che hanno avuto una grande storia: ma quanto piú alto sono saliti codesti popoli, tanto piú sono stati infelici, giacché con piú forza che agli altri s’è rivelata loro l’esigenza d’un’unione universale fra gli uomini. I celebri conquistatori, i Timur e i Gengiskan, sono passati come un turbine sulla terra, aspirando a conquistare l’universo: ma anche loro, sempre in modo inconscio, esprimevano quella stessa profonda esigenza, propria dell’umanità, d’un’unione generale e universale. Accettando il mondo e la porpora di Cesare, Tu avresti fondato un reame universale, e avresti dato a tutto il mondo la pace. Giacché, chi mai può avere il dominio degli uomini meglio di coloro che hanno il dominio della loro coscienza, e che hanno in mano il pane loro? E noi abbiamo appunto preso la spada di Cesare, e senza dubbio, prendendola, abbiamo rifiutato Te e ci siamo messi al seguito di lui. Oh, ne passeranno ancora dei secoli nel bailamme della libera intelligenza, della scienza umana e dell’antropofagia, poiché, avendo cominciato a edificare la loro torre di Babele senza noi, andranno a finire coll’antropofagia! Ma verrà pure un giorno che la fiera s’appresserà a noi, e si metterà a leccare i nostri piedi, e ad annaffiarli con le lacrime sanguinolente dei suoi occhi. E noi monteremo sulla fiera e innalzeremo la coppa e su questa sarà scritto: «Mistero!» Ma allora e soltanto allora sopravverrà per gli uomini il regno della pace e della felicità. Tu sei orgoglioso dei Tuoi eletti, ma con Te ci son solo gli eletti, mentre noi diamo la pace a tutti. E non basta: quanti di questi eletti, quanti dei forti, che sarebbero potuti divenire eletti, si sono stancati, alla fine, di aspettarTi, e han portato e continuano a portare le loro forze in altri campi, e finiscono col levare proprio contro Te la loro libera bandiera! Ma sei stato Tu che hai innalzato codesta bandiera. Con noialtri, invece, tutti saranno felici, e non continueranno piú né a ribellarsi né a sterminarsi l’un l’altro, come nella libertà Tua, per tutta la terra. Oh, noi li convinceremo che soltanto allora diverranno liberi, quando rinunceranno alla loro libertà per noi, e a noi si sottometteranno. E di fatto, saremo nella verità o mentiremo? Loro stessi si convinceranno che avremo ragione noi, giacché si ricorderanno a quali orrori di schiavitú e di convulsioni sociali li aveva condotti la libertà Tua. La libertà, la libera intelligenza, e la scienza, li avranno condotti in tali forteti e li avran posti dinanzi a tali prodigi e a tali insolubili misteri, che alcuni di essi, insofferenti e violenti, si saran tolti da sé la vita, altri, insofferenti ma deboli, si saranno sterminati l’un l’altro, e i rimanenti, deboli e infelici, s’appresseranno ai nostri piedi, e inneggeranno a noi: «Sí, voi avevate ragione, voi soli eravate in possesso del mistero di Lui, e noi facciam ritorno a voi: salvateci da noi stessi». Naturalmente, ricevendo il pane da noi, vedranno con chiarezza che noi toglieremo loro il loro stesso pane, il frutto del loro stesso lavoro, al fine di ridistribuirlo appunto a loro, senza miracoli di sorta: si avvedranno che noi non abbiam tramutato le pietre in pani; ma saranno in verità, anche piú che del pane stesso, felici di riceverlo dalle mani nostre! Giacché si ricorderanno troppo bene che prima, quando noi non c’eravamo, il pane stesso, prodotto da loro, si tramutava, in mano a loro, in tante pietre: mentre, tornati noi, le pietre stesse, nelle loro mani, si saranno tramutate in pani. Troppo bene, troppo bene sapranno apprezzare che cosa significa sottomettersi una volta per sempre! E finché gli uomini non avran capito questo, saranno infelici. Chi è stato il principale artefice di questa incomprensione: parla? Chi ha scompigliato il gregge e lo ha sparpagliato per vie sconosciute? Ma il gregge di nuovo si radunerà, e di nuovo si sottometterà, e stavolta per sempre. Allora noi gli daremo una queta, umile felicità, una felicità da esseri deboli, quali costituzionalmente essi sono. Oh, noi li persuaderemo, alla fine, a non essere orgogliosi, giacché Tu li hai sollevati in alto, e cosí hai insegnato loro a inorgoglirsi: dimostreremo loro che son deboli, che non son altro che dei poveri bambini, ma che in compenso la felicità bambinesca è la piú soave di tutte. Essi si faranno timidi e s’avvezzeranno a girar gli occhi a noi e a stringersi a noi tutti spaventati, come pulcini alla chioccia. Ad ogni movimento che faranno, proveranno un terrore di noi e insieme un orgoglio della potenza e dell’intelligenza nostre, tanto grandi da aver saputo ammansire un cosí indocile gregge di migliaia di milioni. Una pusillanime trepidazione dell’ira nostra s’impadronirà di loro, le loro intelligenze s’intimidiranno, i loro occhi diverranno facili alle lacrime, come quelli dei bambini e delle donne: ma con altrettanta facilità, a un nostro cenno, passeranno all’allegria e al riso, alla piú limpida gioia, e alle beate canzoncine infantili. Sí, noi li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro daremo alla loro vita un assetto come di giuoco infantile, con canzoni da bambini, cori e danze innocenti. Oh, noi permetteremo loro anche il peccato: sono cosí fragili e impotenti; e loro ci vorranno bene come bambini, per il fatto che noi permetteremo loro di peccare. Noi diremo loro che ogni peccato sarà rimesso, se compiuto col permesso nostro: e il permesso di peccare noi glielo concederemo perché li amiamo, e il castigo di questi peccati, ebbene, lo assumeremo a carico nostro. Noi ce lo assumeremo a nostro carico, e loro ci adoreranno come benefattori che si sono accollati i peccati loro di fronte a Dio. Ed essi non ci terranno nascosto assolutamente nulla di loro stessi. Noi permetteremo loro, o proibiremo, di vivere con le lor mogli e amanti, di avere o non avere figli, sempre regolandoci sul loro grado di docilità, ed essi si sottometteranno a noi lietamente e con gioia. Perfino i piú torturanti segreti della loro coscienza, tutto, tutto porranno in mano a noi, e noi tutto risolveremo, ed essi si affideranno con gioia alla decisione nostra, perché questa li avrà liberati dal grave affanno e dai tremendi tormenti che accompagnano ora la decisione libera e personale. E tutti saranno felici, tutti gli esseri a milioni, eccettuate le centinaia di migliaia di quelli che ne avranno il governo. Giacché noi soli, noi che dovremo custodire il segreto, noi e nessun altro saremo infelici. Ci saranno migliaia di milioni di fanciulli felici, e centomila martiri, che avran presa su loro la maledizione della conoscenza del bene e del male. In silenzio essi morranno, in silenzio si estingueranno nel nome Tuo, e oltre tomba non troveranno che la morte. Ma noi manterremo il segreto, e per la loro stessa felicità li culleremo nell’illusione d’una ricompensa celeste ed eterna. Infatti, seppure ci fosse qualcosa nel mondo di là, non sarebbe davvero per della gente simile a loro. Dicono e profetizzano che Tu verrai, e di nuovo sarai vittorioso: verrai con i Tuoi eletti, coi Tuoi orgogliosi e forti; ma noi diremo che essi han salvato soltanto se stessi, mentre noi abbiam salvato tutti quanti. Dicono che sarà ricoperta d’obbrobrio la meretrice assisa sulla fiera, che regge fra le mani la coppa del mistero; che di nuovo si leveranno a tumulto i deboli, lacereranno la porpora di lei, e denuderanno il suo «sordido» corpo. Ma allora io mi leverò, e Ti additerò le migliaia di milioni di fanciulli felici, ignari del peccato. E noi, che ci saremo accollati i peccati loro per farli felici, noi ci pianteremo dinanzi a Te e diremo: «Condannaci se puoi e se osi». Sappi che io non Ti temo. Sappi che anch’io sono stato nel deserto, anch’io mi son nutrito di locuste e di radici, anch’io ho benedetto la libertà con la quale Tu avevi benedetto gli uomini, e anch’io m’ero preparato a entrar nel numero degli eletti Tuoi, nel numero dei capaci e dei forti, bramando di «compiere il numero». Ma io ho aperto gli occhi, e non ho voluto servir la follia. Ho virato di bordo, e mi sono aggregato alla schiera di quelli che hanno emendato la Tua gesta. Ho girato le spalle agli orgogliosi, e mi sono rivolto agli umili, per la felicità di codesti umili. Ciò che io sto dicendo a Te, si avvererà e il regno nostro sarà fondato. Ti ripeto: domani stesso, Tu vedrai questo docile gregge come al primo mio cenno si lancerà ad ammassare le braci ardenti al rogo Tuo, al rogo sul quale Ti farò bruciare per esser venuto qui a darci impaccio. Giacché, se mai c’è stato uno che piú d’ogni altro ha meritato il nostro rogo, questi sei Tu. Domani Ti farò bruciare. Dixi4.

Ivan tacque. S’era accalorato parlando, e aveva parlato con trasporto: ma, quando ebbe finito, di colpo sorrise.

Alëša, che lo aveva sempre ascoltato in silenzio, e verso la fine, in un’insolita agitazione, aveva piú volte accennato a interrompere il discorso del fratello, ma s’era visibilmente frenato, d’improvviso cominciò a parlare, come gli scattasse dentro una molla.

– Ma… è una cosa che non regge! – esclamò, arrossendo. – Il tuo poema è un’esaltazione di Gesú, e non già una detrazione… come tu avresti voluto. E chi persuaderai, per quanto tocca la libertà? Come se cosí, cosí bisognasse intenderla! Ben altra è la concezione della Chiesa ortodossa… È Roma questa, e non tutto di Roma, è la parte falsa: sono gli esponenti peggiori del cattolicesimo, gl’inquisitori, i gesuiti… Eppoi non può assolutamente esistere un personaggio fantastico della risma del tuo inquisitore! Che roba sono questi peccati degli uomini, presi su di sé? Che sono questi portatori del mistero, che prendono su di sé una specie di maledizione per la felicità degli uomini? Quando mai si son visti? Si sa dei gesuiti, se ne dicono tante brutte cose: ma essi son forse come nel tuo poema? Non sono davvero cosí, sono tutt’altra cosa… Sono, semplicemente, l’esercito che deve conquistare a Roma il futuro impero su tutta la terra, col romano pontefice alla testa… ecco l’ideale loro, ma senza tanti segreti né nobili tristezze… Il piú semplice desiderio di potenza, di crassi beni terrestri, di asservimento… una fattispecie di nuova servitú della gleba, in cui essi avrebbero il posto dei proprietari terrieri… ecco tutto quello che vogliono loro. Non credono neppure in Dio, probabilmente. Il tuo inquisitore-martire è una fantasia e nient’altro…

– Ma aspetta, aspetta un momento, – rise Ivan, – come ti sei riscaldato! Una fantasia, dici tu: e sia pure! Innegabilmente, è una fantasia. Ma permetti, però: davvero tu credi che tutto questo movimento cattolico degli ultimi secoli non si riduca realmente a nient’altro che a un desiderio di potenza, mirante unicamente ai beni piú crassi? Sarà forse padre Paisij che t’insegna cosí?

– No no, al contrario: padre Paisij mi ha parlato anzi, una volta, in modo non troppo dissimile da te… ma, beninteso, non era mica la stessa cosa, era tutt’altro, – si riprese bruscamente Alëša.

– Preziosa testimonianza, in ogni modo, a dispetto del tuo «era tutt’altro». Io ti domando, semplicemente, per qual ragione i tuoi gesuiti e inquisitori dovrebbero essersi congregati insieme senz’altra mira che di bassi beni materiali? Per qual ragione, fra essi, non potrebbe trovarsi neppure un martire, assillato da una nobile afflizione e pieno d’amore per gli uomini? Vedi: supponi che ce ne sia almeno uno, fra tutti quelli che bramano esclusivamente beni materiali e fangosi, ce ne sia almeno uno come il mio vecchio inquisitore, che abbia mangiato anche lui le radici nel deserto, e si sia accanito a domare la propria carne per farsi libero e perfetto, ma intanto non abbia cessato un istante di amare gli uomini, e d’improvviso si sia riscosso, e abbia capito che non è gran cosa, la beatitudine morale di toccar la perfezione del volere, se nello stesso tempo ci si debba persuadere che milioni di altre creature di Dio non rimangono al mondo che per esser beffate, che non mai saranno in grado di tenersi all’altezza della loro libertà, che da simili miserevoli ribelli non sarà mai che escano i giganti necessari al compimento della torre, e che non per questa razza d’oche il grande idealista aveva sognato la sua armonia. Una volta compreso questo, il nostro uomo ha fatto dietrofronte e s’è schierato… con le persone intelligenti. Forse che questo non è potuto accadere?

– Con chi s’è schierato, con quali persone intelligenti? – quasi con rabbia proruppe Alëša. – Non c’è neppur l’ombra, in quelli là, di questa grande intelligenza, e neppur l’ombra di tutti questi misteri e segreti… Non ci sarà altro, piuttosto, che della miscredenza: ecco in che consiste tutto il loro segreto. Il tuo inquisitore non crede in Dio: ecco in che consiste tutto il suo segreto!

– Fosse pure cosí! Finalmente, ci hai indovinato. E infatti, cosí è, infatti sta qui tutto il segreto: ma che forse non è pur questa una sofferenza, almeno per un uomo come il nostro, che ha immolato tutta la vita sua a una prova eroica nel deserto, e non è guarito dell’amore per l’umanità? Al tramonto dei suoi giorni egli acquista la chiara persuasione che soltanto i consigli del grande e tremendo spirito potrebbero alla meno peggio sistemare in un assetto decente i deboli rivoltosi, «incompiute creature sperimentali, create per beffa». Ed ecco che convintosi di questo, egli vede ch’è necessario andare nel senso indicato dal penetrante spirito, dal tremendo spirito della morte e della distruzione, e quindi accettare la menzogna e l’inganno, e condurre gli uomini scientemente alla morte e all’annientamento, e di pari passo ingannarli per tutto il cammino, di modo che essi non si accorgano affatto dove vengon condotti, e, per lo meno mentre sono in cammino, questi miseri ciechi si considerino felici. E tieni ben presente che l’inganno è fatto in nome di Colui, nell’ideale del quale il vecchio ha cosí appassionatamente creduto per tutta la vita! E poi questa non è infelicità? E posto che almeno un uomo siffatto si trovasse alla testa di tutta quest’armata «che brama il potere senz’altra mira che dei beni piú bassi», ebbene, non ne basterebbe uno solo, perché si avesse la tragedia? Non solo, ma basterebbe sia pure un uomo siffatto, che si trovasse ai posti di comando, perché si ravvisasse, finalmente, il vero pensiero conduttore di tutta l’organizzazione di Roma, con tutte le sue armate e i suoi gesuiti: il pensiero piú intimo di codesta organizzazione. Io ti dico francamente che ho la ferma convinzione che questo tipo d’uomo solitario non dev’essere mai venuto meno fra coloro che si trovano alla testa del movimento. Chissà, perfino tra i pontefici romani possono esser capitati di quest’uomini solitari. E chissà che questo vecchio maledetto, che con tanta caparbia e in maniera cosí singolare amava l’umanità, non sussista anche attualmente, sotto forma d’una numerosa congrega di simili vecchi solitari, e non già accidentalmente, ma come una setta determinata, come una lega occulta, già da gran tempo costituita per il mantenimento del segreto, da preservare nascosto agl’infelici e ai deboli, allo scopo di farli felici. C’è di sicuro, questo, e anzi bisogna che per forza ci sia. Mi fa capolino l’idea che perfino la massoneria abbia appunto a suo fondamento qualcosa di simile a questo segreto, e che sia questo il motivo per cui i cattolici hanno tanto in odio i massoni: perché vedono in essi dei concorrenti, un frantumarsi dell’unicità della loro idea, mentre unico dovrebbe essere il gregge e unico il pastore… Del resto poi, prendendo le difese del mio pensiero, io faccio la figura d’un autore che non sopporti la tua critica. Basti di questo.

– Tu, forse, non sei appunto che un massone! – sfuggí d’improvviso ad Alëša. – Tu non credi in Dio, – soggiunse quindi, ma già in tono d’infinita amarezza. Aveva, oltre tutto, l’impressione che il fratello lo guardasse con sarcasmo. – E in che modo finisce, il tuo poema? – domandò a un tratto, con lo sguardo a terra. – O forse è già finito cosí?

– Io volevo finirlo in questo modo: quando l’inquisitore ha terminato, rimane per un tratto di tempo in attesa che il Prigioniero gli risponda. Il silenzio di Lui gli riesce gravoso. Ha osservato come finora l’Incatenato sia restato in ascolto, col penetrante e pacato sguardo fisso negli occhi suoi, senza desiderare evidentemente di ribattergli nulla. Al vecchio piacerebbe che quello gli dicesse qualche cosa, foss’anche qualche cosa di amaro, di tremendo. Ma Egli, di colpo, in silenzio, si appressa al vecchio e lievemente lo bacia sulle esangui labbra di novantenne. Ecco tutta la risposta. Il vecchio sussulta. Un fremito contrae gli angoli delle sue labbra: si dirige alla porta, l’apre e Gli dice: «Va’, e non venire piú… non venire piú a nessun costo… mai, mai piú!» E lo fa scivolare verso gli «oscuri meandri della città». Il Prigioniero dilegua.

– E il vecchio?

– Quel bacio gli brucia in cuore, ma il vecchio rimane fisso nell’idea di prima.

– E tu con lui, tu egualmente? – con un accento di dolore esclamò Alëša. Ivan ruppe a ridere.

– Ma sai, non si tratta che d’una pappolata, Alëša mio, non si tratta che dell’insulso poema d’un insulso studente, che non ha mai messo in carta due versi! Perché tu la prendi tanto sul serio? Non penserai mica che adesso io voglia andarmene diritto diritto là dai gesuiti, per mettermi nella congrega di quelli intenti a emendare la gesta di Lui? Oh, Signore, m’importa tanto, di tutto questo! Te l’ho già detto, mi pare: m’accontento di tirar là fino ai trent’anni, e poi… giú la coppa al suolo!

– E le gemmette vischiose, e i cari sepolcri, e l’azzurro del cielo, e la donna amata? Come farai a vivere, che cosa ti darà la forza di amarli? – dolorosamente proruppe Alëša. – Con un simile inferno nel petto e nel cervello, ti pare una cosa possibile? No, senza dubbio tu parti per andare ad aggregarti a quelli… e se cosí non fosse, tu ti ucciderai, ché non potrai resistere!

– C’è una forza che resisterà a tutto! – già freddamente beffardo, esclamò Ivan.

– Quale forza?

– Quella dei Karamazov… la forza della bassezza karamazoviana.

– Ossia, affogare nella dissolutezza, soffocar l’anima nella corruzione: è questo, è questo?

– Magari anche questo… soltanto che, fino ai trent’anni, forse riuscirò a sfuggirvi, e quando poi sarò a quel punto…

– Ma come, riuscirai a sfuggirvi? Che cosa ti darà la forza di sfuggirvi? È una cosa impossibile, coi pensieri che hai.

– Daccapo, alla maniera dei Karamazov!

– Nel senso, allora, che «tutto è permesso»? Tutto è permesso, è questo che intendi, è questo?

Ivan s’accigliò, e d’improvviso, in modo un po’ strano, impallidí.

– Ah, tu vieni a ribadirmi la frasetta di ieri, che ha tanto ferito Miusov… e che tanto ingenuamente nostro fratello Dmitrij è saltato su a commentare? – contrasse le labbra in un risolino. – Sí, vada pure: «Tutto è permesso», giacché ormai la parola è stata detta. Non la ritratto. E anche la redazione del nostro Mitja non è mica male.

Alëša, in silenzio, lo fissava.

– Io, fratello, accingendomi a partire, pensavo che in tutto il mondo avessi almeno te, – con inattesa passionatezza esclamò a bruciapelo Ivan, – ma ora m’avvedo che anche nel tuo cuore per me non c’è posto, caro il mio anacoreta. La formula «Tutto è permesso» io non la rifiuto, e perciò ecco che tu rifiuti me; non è vero, non è vero che è cosí?

Alëša s’alzò, gli s’accostò, e senza dir nulla, lievemente lo baciò sulle labbra.

– Plagio letterario! – insorse Ivan, passando di colpo a una specie di esultanza. – È un furto, questo, che tu hai fatto al mio poema! Grazie, in ogni modo. Alzati, Alëša, andiamo: è tempo per me e per te.

Uscirono, ma si soffermarono presso l’entrata della trattoria.

– Sai, Alëša, – disse Ivan con voce ferma, – se avrò veramente la forza di guardare alle gemmette vischiose, potrò amarle soltanto ricordandomi di te. Mi sarà sufficiente che ecco, in un angolo del mondo, ci sia tu, e il vivere non riuscirà a venirmi a nausea. È sufficiente questo per te? Se ti pare, prendila pure per una dichiarazione d’amore. Ma adesso, tu a destra, io a sinistra, e basta cosí, m’intendi?, basta cosí. Voglio dire che seppure domani io non partissi (credo però che partirò senz’altro), e noi di nuovo avessimo in qualche modo a rincontrarci, ormai, di tutti questi argomenti, tu non mi farai piú parola. Te ne prego vivamente. E sul conto di Dmitrij egualmente, te ne prego in modo particolare, non farmi mai piú il minimo cenno! – incalzò bruscamente, esasperato. – Tutto, ormai, è esaurito, tutto è stato detto e ridetto, non è vero? E a te, dal canto mio, io pure farò in compenso una promessa: quando, a trent’anni, mi assalirà la voglia di «frantumar la coppa al suolo», allora, dovunque tu ti trovassi, io verrò ancora una volta a discorrere con te… dovessi anche venir dall’America, sappilo bene. Proprio apposta, verrò! Sarà assai interessante vedere un po’ anche di te, come sarai diventato a quell’epoca! Come vedi, è una promessa abbastanza solenne. E realmente, chissà, è per sett’anni, per dieci, che noi ora ci stiamo accomiatando. Bah, adesso avviati dal tuo Pater Seraphicus5, giacché quello sta per morire: morrà mentre tu non ci sei, e allora peggio che mai, caro mio: te la prenderai con me, che t’ho trattenuto qui. Arrivederci, baciami ancora una volta, ecco, cosí: e va’…

Bruscamente Ivan voltò le spalle e se n’andò per la strada sua, senza rigirarsi piú. Fu qualche cosa di simile a quando Dmitrij, iersera, aveva lasciato Alëša, benché iersera le circostanze fossero molto diverse. Questo strano accostamento traversò come una freccia nella mente afflitta di Alëša, afflitta e dolorante in quegli istanti. Un pochino s’attardò lí, seguendo con lo sguardo il fratello. E a un tratto gli venne fatto d’accorgersi che Ivan camminava con un’andatura ondeggiante, e che la spalla destra di lui, a guardarla cosí di dietro, sembrava piú bassa della sinistra. Mai, prima d’oggi, s’era accorto d’una cosa simile. Ma, di colpo, voltò anche lui le spalle, e quasi di corsa s’avviò al convento. Il crepuscolo era già inoltrato, e lui sentiva una specie di terrore: qualcosa gli cresceva nell’intimo, diverso dal solito, di cui non avrebbe saputo rendersi conto. S’era levato di nuovo, come iersera, il vento, e i pini centenari cupamente gli stormivano intorno, quando entrò nel boschetto dell’asceterio. Andava quasi di corsa. «Pater Seraphicus: è un nome che ha preso da qualche libro: di dove mai? – balenò ad Alëša. – Ivan, povero Ivan, e quando, ora, ti rivedrò?… Ecco l’eremo, Signore! Sí, sí, c’è egli qui, c’è il Pater Seraphicus, ed egli mi salverà… da lui, e per sempre!»

In seguito Alëša ebbe a ripensare piú volte, con grande stupore, come avesse potuto tutt’a un tratto, dopo essersi separato da Ivan, dimenticare cosí totalmente il fratello Dmitrij, che pure al mattino, poche ore fa, s’era proposto di trovare a ogni costo, a rischio magari di non tornare per stanotte al convento.

NOTE

1 Le citazioni evangeliche (Giovanni XVI 16, e Marco XIII 32) sono in slavonico nel testo, che le fonde insieme.

2 Apocalisse VIII 10.

3 Cosí nel testo.

4 In latino nel testo.

5 In latino nel testo.

Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Traduzione di Agostino Villa, Einaudi

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