“Il New Deal e lo stato dell’economia”.
L’espressione New Deal, nuovo sistema, ha origine da una dichiarazione di Franklin Delano Roosevelt, durante la sua campagna elettorale per la presidenza: «… Io impegno voi, e impegno me stesso, a un nuovo sistema per il popolo americano.» Nel suo primo messaggio da presidente, disse ancora: «Lasciatemi proclamare la mia ferma convinzione che la sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa. I mercanti sono fuggiti dal tempio della nostra civiltà. Possiamo adesso restituirlo alle antiche verità.»
La paura aveva tutti i motivi di regnare sugli Stati Uniti. Il giorno in cui Roosevelt si insediò alla presidenza, il 4 marzo 1933, si trovò di fronte una crisi disastrosa. Quella mattina le banche di Chicago e di New York, i centri gemelli del capitalismo americano, chiusero i battenti, seguendo l’esempio dato il mese prima da tutte le altre banche del paese. Il sistema bancario era completamente crollato sotto il peso del ritiro dei depositi da parte dei clienti presi dal panico. I disoccupati erano tra i 12 e i 15 milioni, un quarto dei lavoratori di tutta la nazione. Il commercio con l’estero era ridotto di un terzo. L’industria lavorava al 40% soltanto del suo potenziale. Le già gravi sperequazioni della società americana s’erano aggravate: il 60% delle famiglie aveva redditi inferiori ai 2000 dollari annui, un livello di stenta sopravvivenza; il 5% della popolazione, che godeva dei redditi più alti, incassava un terzo di tutto il reddito individuale. In tutte le regioni agricole stava per scoppiare la rivolta: in tre anni i contadini avevano visto il prezzo di mercato dei loro prodotti ridotto della metà e i loro redditi ridotti di due terzi, mentre le banche, cercando disperatamente di salvare qualcosa dall’incalzante naufragio, ostacolavano il riscatto delle ipoteche sulle terre. Le comunità agricole del West, già tormentate dalla siccità che aveva del tutto inaridito le Grandi Pianure, erano investite da gennaio da un fortissimo vento che, partito dal Texas occidentale e attraversando poi il Kansas, soffocava le regioni sotto un mare di sabbia. Nuvole di polvere bloccavano trasporti ferroviari e aerei, rendevano impraticabili le strade, annegavano le fattorie, si insinuavano in elettrodomestici, mobili e polmoni umani: nel 1935 avrebbero ridotto la zona a una deserta desolazione lunare. L’apparato dell’assistenza (dello Stato, delle città e dei privati) era venuto meno. Herbert Hoover, il presidente uscente, repubblicano come Coolidge e Harding che avevano per dieci anni governato l’America negli anni Venti logorandosi nel lungo esercizio del potere, s’era dimostrato incapace anche soltanto di affrontare i problemi. Lo spettro della fame si faceva concreto, Molti erano convinti che la rivoluzione fosse imminente.
«Il paese», aveva dichiarato Roosevelt, «ha bisogno e, se non mi inganno sui suoi umori, chiede una coraggiosa e tenace sperimentazione». Eletto presidente, iniziò a dargliela. Il Congresso venne convocato in una sessione speciale che durò cento giorni, e con grande rapidità trasformò in leggi tredici importanti provvedimenti tra cui una legge d’emergenza per le banche, un’altra legge di emergenza per i soccorsi federali, una legge per la ripresa dell’industria nazionale, una legge per il risanamento dell’agricoltura, una legge sulle ipoteche per la terra, e la ratifica della fine del proibizionismo («Penso sia arrivato il momento di bersi una birra», fu la battuta di Roosevelt). Usando appieno i poteri conferitigli in base a queste leggi, il presidente procedette a creare numerosi enti esecutivi per l’attuazione del programma d’emergenza. C’erano la National Recovery Administration, l’Agricoltural Adjustement Administration, la Public Work Administration, il Civilian Conservation Corps (che avrebbe provveduto a togliere due milioni e mezzo di ragazzi senza lavoro dalle strade delle città per realizzare un vasto programma di rimboschimento) e la Tennessee Valley Authority (che costruì e gestì per conto del governo federale numerose dighe, risanando un’area immensa di campi in rovina e generando energia elettrica a buon mercato). L’opera di salvataggio ebbe successo, e offrì l’occasione per realizzare riforme da tempo necessarie.
Il sistema bancario fu riorganizzato e il controllo della finanza nazionale passò da Wall Street a Washington. Nel 1936 fu instaurato un sistema di assicurazioni contro la disoccupazione e di pensioni per la vecchiaia garantito dal governo federale. Venne preparata la legge che nel 1938 avrebbe stabilito i minimi salariali e i massimi di ore lavorative. Fu sancito il diritto dei lavoratori ad avere organizzazioni proprie e contratti collettivi: diritto che i lavoratori si conquistarono a prezzo di lotte sindacali durissime e scioperi violenti. Una Securities and Exchange Commission tentò di risanare il mercato borsistico. La disoccupazione diminuì, ma non scese mai al di sotto del 10% della forza-lavoro (toccando anzi nel 1938 livelli del 19%) e mai al di sotto dei 10 milioni di unità. Le spese del programma governativo contribuirono a far uscire il paese dalla depressione, ma nel 1937 la paura dell’inflazione suggerì provvedimenti deflazionistici e provocò una nuova recessione nel 1938: fu soltanto il livello delle spese imposte dal riarmo a riportare dopo il 1940 una certa base di prosperità. Dall’esperienza del primo periodo del New Deal, Roosevelt avrebbe potuto ricavare una linea politica. Non lo fece. Profondamente conservatore, egli aveva inteso come suo compito la salvezza del sistema americano, la lotta contro le sinistre portatrici di altri sistemi. Roosevelt cambiò e rafforzò assai notevolmente la funzione e il ruolo del Presidente, accentrando in quella figura la soluzione di tutti i problemi politici. L’attività torrenziale del primo periodo del New Deal e del suo primo mandato presidenziale gli giovò moltissimo in questo senso, ed egli la sfruttò con infinita ingegnosità. Il presidente faceva sempre notizia, era sempre sulla prima pagina dei giornali: e Roosevelt seppe tenersi amici i giornalisti alle conferenze stampa informali che si svolgevano due volte la settimana. Con le «chiacchierate accanto al caminetto», alla radio, portò se stesso e il suo messaggio in milioni di case. Quasi ogni anno, fino alla guerra, viaggiò in lungo e in largo attraverso l’America; centinaia di migliaia di persone videro coi propri occhi il suo gran sorriso, il bocchino tenuto elegantemente tra le dita, il pince-nez, il naso forte, la mascella sporgente che fotografie e vignette avevano già reso familiari. Nel 1936 venne rieletto da quella che era fino a quel momento la più alta maggioranza popolare nella storia americana (27.476.673 voti contro i 16.679.583 dell’avversario), assicurandosi tutti gli Stati tranne il Vermont e il Maine. La sua maggioranza al Congresso arrivò ad altezze record. La sua lotta accanita contro la Corte Suprema (che, baluardo dei conservatori della nazione, aveva in quegli anni annullato alcune tra le più importanti leggi emesse nell’ambito del New Deal) conobbe sconfitte cocenti, ma riaffermò la convenzione costituzionale secondo cui essa Corte Suprema doveva mostrare moderazione e non invalidare con disinvoltura le leggi approvate dal Congresso e dal Presidente. Il New Deal, ricordato oggi come una saga paragonabile soltanto a quella dei pionieri, salvò il sistema capitalistico americano e stabilì quel potere autocratico del Presidente, che soltanto nel caso di Nixon è stato rimesso in discussione.
“Letteratura della crisi”.
Gli effetti disastrosi della crisi colpirono naturalmente anche la letteratura. Fu come un terremoto che sancisse la fine di un lungo tirocinio. Dal terremoto emerse la generazione della depressione convinta di avere ristabilito il senso della realtà e che tutta l’esperienza precedente, alla fosca luce dei terrori e dei doveri di quegli anni, fosse da giudicare insignificante. Il fatto stesso di scrivere, nel 1930 pareva imporre dei nuovi obblighi ed elargire dei nuovi diritti nei riguardi della storia. Il nuovo romanziere sociale si arrese incondizionatamente al naturalismo e, attraverso il naturalismo, arrivò spesso al comunismo.
«Fino al 1930, anno in cui gli scrittori cominciarono ad affluire verso il partito comunista e verso le sue numerose filiali con un ardore così impetuoso e insieme così sottomesso da stupire gli stessi dirigenti, la letteratura proletaria fu un’astrazione che aveva un significato solo in quanto era un’arma politica,» scrive Alfred Kazin ne La Nuova Terra, storia della letteratura americana (Longanesi editore). «La letteratura della classe lavoratrice, che in America era stata rappresentata un tempo dai canti dei “wobblies” composti da Joe Hill e dalle poesie di Arturo Giovannitti, nonché dai romanzi di Jack London e di Upton Sinclair, negli anni dopo il 1920 si era ridotta alla critica marxista di Michael Gold, di V. F. Calverton e di Joseph Freeman, divenendo apertamente un metodo dottrinario, piuttosto che un movimento letterario. Durante quegli anni, che in Russia corrisposero al periodo intercorso fra la morte di Lenin e il definitivo insediamento di Stalin al potere, anche in America lo stesso partito comunista fu alternativamente dominato da gruppi di tendenze opposte in lotta per il potere e in breve il nostalgico socialismo letterario del periodo di Greenwich Village non fu più che una dolce memoria. Nel 1918 era morta la rivista The Masses, nel 1924 The Liberator, e quando nel 1926 fu fondata The New Masses, essa annoverò fra i suoi redattori ufficiali e collaboratori un gruppo di persone così disparate da comprendere Mickael Gold, Louis Untermeyer, Freda Kirchwey, John Dos Passos ed Edmund Wilson…»
«… Furono troppi gli scrittori felici di sottomettersi, specialmente se, fino al momento della loro conversione, avevano pensato a Karl Marx come a un tedesco dell’Ottocento barbuto e noioso. Erano rimasti così storditi dalla crisi, erano così lamentosamente desiderosi d’un nuovo e solido concetto di cambiamento, che la povertà manifesta o la disperazione degli altri credi li conduceva direttamente al comunismo. Il bolscevismo era ferreo, aggressivo, energico, e aveva un programma, e la letteratura proletaria, anche se i proletari ben di rado ne sentivano parlare, né certo l’avrebbero mai gustata, conteneva la promessa di una nuova società, per non dire di una nuova letteratura, che avrebbe offuscato qualsiasi altro periodo della storia letteraria americana. Di fronte al crollo mondiale del capitalismo, perfino nell’ardore letterario del socialista della classe media risuonava potente il diapason della salvezza e le linee nette e profetiche della teoria marxista, che così inoppugnabilmente si applicavano a tutti i campi della demoralizzazione contemporanea, davano un inesauribile senso di certezza della vittoria. Una filosofia della classe lavoratrice stuzzicava tutti gli istinti democratici locali degli scrittori americani, rinforzandoli entro uno schema di idee che appariva logico e che aveva urgente importanza internazionale. Che cosa importava se H. L. Mencken sogghignava e se ben pochi buoni scrittori rimanevano a lungo nel campo comunista? In quegli anni subito dopo il 1930, il fatto che un autore fosse marxista conferiva alla sua opera una dignità nuova e una serietà che la nobilitava…»
«… Per tanti scrittori di quel periodo, l’attrattiva dell’avventura letteraria comunista derivava dalla confusione di due distinte entità: la speranza di una maggiore democrazia economica e sociale in patria, e l’influenza di un paese che non aveva mai conosciuto democrazia. Questo fatto che divenne tragico dopo il patto nazi-sovietico e la ‘grande illusione’, apparve chiaro dopo il 1935, quando il partito comunista, cercando di formare un fronte unico contro il fascismo, lasciò deperire la letteratura proletaria, interessandosi (come aveva fatto osservare Philip Rahv) piuttosto degli autori che dei libri. Ma chi fra questi scrittori avrebbe potuto prevederlo subito dopo il 1930, allorché i comunisti profetizzavano la rivoluzione imminente e lavoravano in suo favore, e lo zelo informe dei convertiti trovava la sua espressione in una letteratura a base di declamazione, di satira slacciata, d’intensa fiducia nell’avvenire e di copertine di New Masses? Allora non aveva importanza che il loro radicalismo consistesse soltanto in un populismo letterario; una sensibilità nuova e più calda era all’ordine del giorno, Lincoln Steffens aveva visto il futuro, ed era un futuro che ‘lavorava’. La Russia, nel periodo del grande ottimismo, appariva qualcosa di più che un grande esperimento sociale: era una forma di terapia letteraria. Quando Ella Winter era in Russia, Steffens le scrisse: ‘Prendi tutto: tutto fuorché i particolari. Lascia che la Russia ti elevi lo spirito e te lo purifichi. E’ meglio essere una rivoluzione che vederla, e la Russia può farti avanzare di secoli nella civiltà. Può farti arrivare d’un balzo fin dove è arrivata lei, e poi mostrarti il futuro… La Russia è tutto quello di cui mancano Dorothy Parker, Hem, Dos Passos e tutta la scuola dei giovani. Loro lo cercano nell’alcool e lo trovano nel cinismo. Tu puoi trovarlo com’è nella forma viva di un popolo al lavoro, in una religione. Fede, speranza, libertà di che vivere: la Russia non ha bisogno dell’alcool…’ Dos Passos, scrivendo in New Masses nel 1930, lanciò un appello commovente agli scrittori esortandoli a destarsi, a prender coscienza delle condizioni in cui si trovava l’umanità e a spogliarsi di quell’irresponsabilità cinica, che era stata così di moda nel decennio precedente…» È indubbio che John Steinbeck accolse nel modo più convinto l’invito di Dos Passos, che non era un convertito dell’ultima ora e aveva un senso scrupoloso e passionale dei valori umani, per cui vedeva una letteratura sociale militante come conseguenza inevitabile e irrimandabile della depressione.
“Nelle campagne”.
Leggiamo in Roosevelt e il New Deal 1932-1940 di William E. Leuchtenburg (Laterza editore): «Roosevelt rivelò assai maggior entusiasmo per i piani chimerici miranti a trasferire in campagna gli abitanti dei quartieri malsani, che non per i progetti di risanamento urbano.» «Il presidente,» ha scritto Tugwell nel 1954 sulla rivista Ethics, «era sempre stato convinto, e sempre lo sarebbe rimasto, che la gente stesse meglio in campagna, e che la situazione delle città fosse quasi senza speranza…» Roosevelt, che da governatore dello stato di New York aveva fatto esperimenti per associare l’agricoltura all’industria fondando un «gruppo agricolo-industriale», incaricò il senatore Bankhead di approntare una proposta di stanziamento di fondi, in base al NIRA, per la creazione di villaggi autosufficienti. Secondo il capo della “Subsistence Homestead Division”, M. L. Wilson, questi programmi erano «un movimento di classe media, per gente selezionata, non per la crema e neppure per la feccia», e cioè per americani che non fossero dei «patiti della luce elettrica», e che si sentissero degli «isolati nell’èra dell’industria e del jazz». Il New Deal costruì circa un centinaio di comunità, per lo più colonie esclusivamente agricole come Penderlea Homesteads nella North Carolina, oppure villaggi operai autosufficienti come Austin Homesteads nel Minnesota. L’esperimento che più colpì l’opinione pubblica fu quello di Arthurdale presso Reedsville, nella zona depressa dei bacini carboniferi montani della West Virginia. Arthurdale fu una mania personale di L. Howe e della signora Roosevelt, la quale vi spese migliaia di dollari di tasca propria, e si risolse in un costoso fallimento. «Abbiamo gettato via il denaro laggiù come marinai ubriachi,» si lamentò Ickes. Sebbene i dirigenti del movimento fossero convinti di offrire alla gente l’agognata possibilità di fuggire i mali di una volgare società industriale, i villaggi che riuscirono meglio furono proprio quelli che – come El Monte presso Angeles e Longview nella valle del fiume Columbia – assunsero presto il carattere di una qualsiasi comunità suburbana. Appena scomparsa all’orizzonte la nube minacciosa dei primi anni della depressione, la gente si affrettò a tornare al suo «vero» mondo, all’animazione delle vie cittadine. Palesemente sperimentale e utopistico, il movimento dei villaggi autosufficienti si presentò ben presto come ricerca di un’arca in cui rifugiarsi, e cioè proprio come un residuo della disperazione dei primi anni ’30.
«Ironia della sorte, proprio nel momento in cui il New Deal stava celebrando il suo idillio rurale, il paese cominciava a rendersi conto dello squallore della vita dei campi,» racconta Leuchtenburg nel volume già citato. «I romanzi di Erskine Caldwell (specialmente Tobacco Road, che divenne, nella versione teatrale, uno dei grandi successi di Broadway), libri come You Have Seen Their Faces, dello stesso Caldwell e di Margaret Bourke White, che mostrava le immagini del contadino con i suoi figli rachitici, i suoi cani rognosi, la moglie precocemente invecchiata, l’umano Let Us Now Praise Famous Men di James Agee, illustrato con fotografie di Walker Evans, e corrispondenze giornalistiche come quelle del 1935 di Frazier Hunt sul World-Telegram di New York, contribuirono ad aprire gli occhi della nazione sulle miserie dei lavoratori della terra. Hunt scrisse che i braccianti del Sud gli rammentavano i coolies cinesi da lui visti al lavoro lungo la ferrovia della Manciuria meridionale, con la differenza che in Cina non si vedevano bambini nei campi. Erano gente che ‘sembrava appartenere a un paese diverso dall’America che conoscevo ed amavo’. Il New Deal non poteva essere biasimato per il sistema sociale che aveva ereditato, ma la sua politica peggiorò le cose. La riduzione delle colture di cotone promossa dall’A.A.A. cacciò dalla terra i fittavoli e i braccianti, mentre i proprietari, con la connivenza dei comitati locali dell’A.A.A., in cui dominavano, defraudavano i fittavoli della loro giusta quota di profitto. Quando Norman Thomas e altri richiamarono l’attenzione di Roosevelt su questi abusi, il presidente raccomandò di avere pazienza. Aveva già abbastanza da fare per dirigere quel vasto processo di mobilitazione con cui sperava di riportare la prosperità nelle campagne, e non aveva nessuna intenzione di rivoluzionare i rapporti sociali nel Sud. Persino gli spiriti più audaci del New Deal temevano di compromettere il resto del programma irritando potenti senatori conservatori come Joe Robinson dell’Arkansas. Fu nell’Arkansas che mezzadri e braccianti, esasperati dai metodi brutali dei proprietari e dei comitati dell’A.A.A., fondarono, nel luglio 1934, la “Southern Tenant Farmers’ Union”. Diretti da socialisti, i contadini, negri e bianchi (alcuni dei bianchi erano stati membri del Ku Klux Klan) si organizzarono sindacalmente nella regione intorno a Tyronza. I proprietari reagirono col terrorismo. ‘Capoccia a cavallo’ diedero la caccia ai sindacalisti come a schiavi fuggitivi; membri del sindacato vennero frustati, gettati in prigione, presi a fucilate, ed alcuni anche assassinati. La moglie di un mezzadro di Marked Tree scrisse: ‘Abbiamo fatto la guardia alla casa e siamo stati all’erta fino all’esaurimento; non c’è una legge che ci protegga. Loro e i proprietari si sono tutti dati alle cavalcate notturne… hanno sparato contro alcune case e hanno minacciato il nostro sindacato e vogliono impedirci di riunirci nel municipio.’ Interrogato da un giornalista sugli episodi di violenza, un tale rispose: ‘Abbiamo avuto una situazione piuttosto seria, qui nell’Arkansas, per questa mania di dar del <signore> ai negri e di fargli credere che il governo gli darà quaranta acri di terra a testa.’ Ancor più tragica era l’esperienza dei contadini costretti a emigrare. Abbandonando sui trattori, le loro terre, molti ‘Arkies’ e soprattutto ‘Okies’, le cui fattorie erano state spazzate via da tempeste di sabbia, si dirigevano ad Ovest verso gli aranceti e i campi d’insalata della costa del Pacifico. Alla fine del decennio, un milione di questi emigranti, nomadi senza un centesimo, in carovane interminabili di vecchie automobili zeppe fino a scoppiare di biondi bambini seminudi, erano dilagati nelle piccole città dell’Oregon e del Washington e si spingevano ora nelle vallate della California. Con le loro Hudson impolverate che procedevano traballando verso occidente lungo la Highway 66, i Joads descritti da John Steinbeck in The Grapes of Wrath simboleggiavano migliaia di americani sradicati dalle loro fattorie, in marcia verso le terre dei fiori di loto dell’Ovest dove una volta giunti al termine della loro sfibrante odissea, sarebbero affogati in un mare di manodopera a buon mercato, sfruttati dai grandi proprietari di frutteti, braccati dagli sceriffi, portandosi dietro la loro miseria come un marchio d’infamia.»
Negli uffici del dipartimento dell’Agricoltura Jerome Frank e i suoi alleati difesero la causa dei mezzadri e dei fittavoli privi di rappresentanza politica. Il direttore dell’A.A.A., Chester Davis, si dimostrò sensibile alle loro idee, anche se, come il suo predecessore Peek, era convinto che il principale scopo dell’ente fosse quello di rimettere in sesto l’agricoltura e non di rivoluzionare la struttura sociale delle campagne. Davis sostenne persino, nonostante le proteste dei piantatori, che il contratto del 1934-35 per l’industria del cotone dovesse fare obbligo al proprietario di tenere sui suoi terreni lo stesso numero di fittavoli che c’erano nel 1933. Ma per il gruppo di Frank non era ancora abbastanza. Lager Miss, dell’ufficio legale, stese una memoria, approvata da Frana, che imponeva ai piantatori di tenere i medesimi individui come fittavoli per tutta la durata del contratto, e Frana fece circolare la nuova direttiva mentre D’AVIS si trovava fuori città. Al suo ritorno, D’AVIS l’abrogò, e, inferocito contro i riformatori, chiese una resa dei conti. Con l’appoggio di Roosevelt e di Fallace, egli fece piazza pulita nell’ufficio legale ed estromise Frana, Garrendo Jackson, Lee Pressman, Frank Shea e Frederic Howe. Hiss, che stranamente non figurava sulla lista nera di Davis, si dimise. I liberali considerarono la «purga» della fazione di Frank come la fine di un’èra, il trionfo dei piantatori e delle industrie di trasformazione su coloro che auspicavano una l’apertura sociale nella politica agricola».
Nell’aprile 1935, poco dopo la cacciata del gruppo di Frank, il presidente Roosevelt creò la “Resettlement Administration” per rimediare alla miseria delle campagne, e chiamò a dirigerla il capo dei fautori di riforme agrarie, Rexford Tugwell. La R.A. riprese i programmi di risanamento agricolo che Harry Hopkins aveva iniziato con la FERA, come pure i programmi per la creazione di comunità agricole autosufficienti. Tugwell aveva scarsa simpatia per queste colonie, considerandole un anacronismo: il suo ideale erano le città lasciate da una «cintura verde». Ne costruì tre – presso Washington, D.C., Cincinnati e Milwaukee – interamente nuove, situate presso le fonti di occupazione e circondate da alberi e prati. Queste comunità cinte di verde, che rispecchiavano la concezione della città-giardino propugnata dall’inglese Ebenezer Howard, e l’esperimento compiuto dagli urbanisti americani a Radburn, nel New Jersey, fecero più colpo sui visitatori stranieri di qualsiasi altra realizzazione del New Deal, se si eccettua la T.V.A. Il principale compito di Tugwell non era quello di fondare comunità, ma di reinsediare la popolazione agricola; egli cercò di togliere gli agricoltori impoveriti dalle zone submarginali e di farli ricominciare daccapo su terra buona, con attrezzature adeguate e sotto la guida di esperti. Ma non poté mai disporre del denaro sufficiente per fare cose di un certo rilievo. La R.A., che progettava di trasferire 500 mila famiglie, in effetti ne reinsediò soltanto 4441. Procedendo su scala così esigua, era escluso che si potesse risolvere il problema dei mezzadri e dei fittavoli. Alcuni dirigenti del Sud, preoccupati anche dalla minaccia costituita da Huey Long, avevano cominciato a capire che occorreva un’azione più energica. Un gruppo di riformatori umanitari del Rosenwald Fund avanzò a un certo punto una proposta (redatta dal professor Frank Tannenbaum) che andava incontro ai fittavoli del Sud, e di cui il senatore Bankhead dell’Alabama si fece patrono. Il disegno di legge Bankhead, presentato per la prima volta nel 1935, si prefiggeva di aiutare fittavoli e braccianti a diventare proprietari; esso rifletteva la fede nel sogno jeffersoniano del piccolo coltivatore diretto e insieme la simpatia di Tannenbaum, uno specialista dell’America Latina, per l’esperimento messicano di trasformare i “peones” in contadini proprietari. I conservatori del Sud protestarono che la proposta era rivoluzionaria, e i radicali dissero che sarebbe servita soltanto a creare una casta contadina simile a quella dei “nobel Bauern” di Hitler. Ma quando nel 1937 essa ricevette la benedizione dello “Special Committee on Farm Tenancy” nominato dal presidente, il Congresso diede rapidamente la sua approvazione.
In base al “Farm Tenancy Act del 1937”, un nuovo ente, la “Farm Security Administration”, sostituì la R.A. e concesse agli agricoltori prestiti per il risanamento agricolo, accordò mutui a lunga scadenza e a basso interesse a famiglie scelte di fittavoli perché acquistassero poderi di congrue dimensioni, e venne in aiuto ai lavoratori stagionali creando una catena di accampamenti, igienici e bene amministrati, dove trovavano sistemazione le correnti migratorie. La F.S.A. fu il primo ente a fare qualcosa di concreto per i contadini: alla fine del 1941 aveva speso più di un miliardo di dollari, buona parte dei quali, tuttavia, in forma di mutui che dovevano essere restituiti. Dischiuse nuovi orizzonti contribuendo al lancio di cooperative per l’assistenza medica e attirò su di sé l’ira dei commercianti cerealicoli delle «città gemelle» prestando denaro a cooperative per l’acquisto di silos. Rischiando continuamente di rovinarsi sul piano politico, fu di un’equità scrupolosa nei confronti dei negri. Eppure, nonostante tutto, non fu all’altezza dei suoi compiti. A ben guardare, il principale vanto della F.S.A., e cioè la percentuale estremamente alta di mutui che le venivano restituiti, conferma che essa non intervenne veramente a fondo nel problema della miseria agricola. La F.S.A. non aveva un elettorato politico – braccianti e lavoratori stagionali erano spesso privi del diritto di voto o politicamente amorfi – mentre i suoi nemici (specialmente le grandi società agricole affamate di manodopera a buon mercato, i proprietari terrieri del Sud ostili agli aiuti forniti ai fittavoli) avevano una rappresentanza potente al Congresso. Gli avversari mantennero gli stanziamenti in favore della F.S.A. a un livello talmente basso, che essa non fu mai in grado di attuare un programma su vasta scala. «Nell’inverno 1939, sebbene le grandi peregrinazioni avessero già superato il loro momento culminante, si vedevano ancora famiglie che si stringevano intorno ai falò lungo le carrozzabili dell’Ovest. La stazione di servizio, punto d’incontro fra gente stabile e gente errabonda, faceva da palcoscenico all’epopea della depressione», scrive sempre Leuchtenburg in Roosevelt e il New Deal. «Qui si fermavano i Joads nel loro cammino verso Occidente sulla Highway 66; qui facevano rifornimento i pullman transcontinentali in tutto un ciclo di film di solitari vagabondaggi. Se nel romanzo tipico degli anni ’20 l’eroe va alla stazione ferroviaria della cittadina di provincia per salire sul treno che dovrà portarlo alla metropoli piena di promesse, nel romanzo tipico degli anni ’30 egli è lasciato solo su una strada di grande comunicazione a chiedere un passaggio per una destinazione sconosciuta. Alla fine di “U.S.A.”, di Dos Passos, il giovane Vag se ne sta, affamato e con i piedi doloranti, sul ciglio di una strada, senza speranza o meta alcuna salvo quella di andare ‘un centinaio di miglia più avanti’. Man mano che gli anni della depressione passavano, il disoccupato si abituava ad una sorta di moto perpetuo senza scopo, come la musica ossessiva della più popolare canzone di quegli anni, come i ballerini delle gare di resistenza che si agitavano come automi sulla pedana, esausti e appena capaci di muovere le membra, come i ciclisti delle ‘sei giorni’ che pedalavano senza posa sulla pista ovale, ipnotizzando gli spettatori con la monotonia dei loro giri…»
“Tutto quello che vive è sacro”.
«John Steinbeck è nato anche lui in California, e si è occupato della California più di ogni altro scrittore del gruppo. I suoi romanzi ci offrono della Salinas Valley una rappresentazione approfondita e rigorosa, che non ha l’uguale nella nostra letteratura recente, se si eccettua la vasta esauriente indagine dello stato del Mississippi compiuta da Faulkner. E che cosa ha trovato Steinbeck in questa regione che conosce così bene?» si domanda Edmund Wilson nel saggio «I californiani» (Saggi letterari 1920-1950″, Garzanti, Milano 1967) e si risponde. «Secondo me il suo virtuosismo tecnico mette un po’ in ombra i suoi temi. Steinbeck ha pubblicato otto romanzi che, per il loro diverso impianto, danno come l’illusione d’essere stati scritti da vari punti di vista. Tortilla Flat è un idillio comico, con una semplicità quasi da racconto popolare; In Dubious Battle è un romanzo di lotte sindacali, che si svolge intorno a degli organizzatori comunisti secondo uno schema piuttosto tradizionale; Of Mice and Men è un piccolo intenso dramma, congegnato con fin troppa abilità, e una parabola che pone sotto accusa l’umanità da un angolo visuale non politico; “The Long Valley” è una serie di racconti, per la maggior parte su animali, nei quali i simboli poetici sono presentati in ambienti realistici ricostruiti con concretezza di particolari; The Grapes of Wrath è un romanzo di propaganda politica, pieno di prediche e interludi sociologici, condotto in chiave epica. Sicché ogni volta l’attenzione viene distratta dal contenuto dell’opera, perché ad ogni alzar di sipario Steinbeck presenta un genere nuovo di spettacolo. Eppure c’è nell’opera narrativa di questo scrittore un sostrato che rimane costante e che le conferisce un certo peso: in Steinbeck c’è una costante preoccupazione per l’aspetto biologico delle cose. Egli è un biologo nel senso letterale di uno che s’interessa di ricerche biologiche…»
«Steinbeck si occupa quasi sempre di animali inferiori o di esseri umani così primitivi da risultare quasi a un livello animalesco. In The Grapes of Wrath, il viaggio dei Joad è paragonato all’inizio alla marcia di una tartaruga, ed è continuamente accompagnato e parodiato da animali, insetti e uccelli. Quando i mezzadri espropriati dell’Oklahoma sono costretti ad abbandonare la loro fattoria, l’autore descrive ampiamente l’invasione della casa ad opera di pipistrelli, donnole, civette, topi e gatti ridiventati selvatici…»
«Tema di fondo dell’opera di Steinbeck, non sono dunque gli aspetti dell’uomo nei quali più si rispecchiano capacità speculativa, immaginazione e spirito costruttivo, né gli aspetti delle bestie che attirano maggiormente l’uomo, ma piuttosto i processi della vita. Nella normale condizione della natura, organismi viventi subiscono una continua distruzione, e tra i principali fattori di distruzione si annoverano l’avidità di preda e l’istinto di competizione, che per le creature che mangiano e si riproducono sono condizioni necessarie di sopravvivenza…»
«I problemi morali di cui si occupa Steinbeck non vanno solitamente al di là di questo stadio primitivo: le virtù, e così i crimini, per lui non sono che una parte di questi processi quasi inconsci, senza programma né scopo. Il predicatore di The Grapes of Wrath non si fa più illusioni sulla morale degli uomini e il suo sermone sulla tomba di Nonno Joad, che era stato per tutta la vita un uomo lascivo e triviale, esprime chiaramente il punto di vista di Steinbeck: ‘Questo vecchio qui ha vissuto la sua vita ed è morto. Non so se è stato buono o cattivo, ma questo ha poca importanza. Era vivo, ed è questo che conta. E adesso è morto, e questo non conta. Una volta ho sentito uno che recitava una poesia e diceva: <Tutto quello che vive è sacro>’.» È significativo che questo appello alla sacralità della vita risuoni in America nell’anno 1939, proprio mentre in Europa si inaugura la guerra.
Fonte: John Steinbeck, Furore, 1940, Bombiani