di Gianrico Carofiglio
Quando avevo otto anni mi regalarono un libro in cui erano raccolti i primi fumetti di Paperon de’ Paperoni. L’introduzione spiegava che il nome originale di zio Paperone era Uncle Scrooge. E che questo nome bizzarro alludeva al personaggio di Ebenezer Scrooge, protagonista di un romanzo di Charles Dickens: Canto di Natale.
Una coincidenza mi colpì: quel libro di Dickens io l’avevo già visto solo un paio di giorni prima, nella biblioteca di classe. Ero stato anche sul punto di prenderlo in prestito, ma alla fine avevo scelto un romanzo di avventure: forse Salgari, forse qualcos’altro che non ricordo. Adesso però volevo saperne di più: zio Paperone era uno dei miei personaggi preferiti e il suo collegamento con quel libro mi aveva incuriosito molto. Così il giorno dopo mi presentai dalla maestra, restituii il romanzo di avventure e chiesi in prestito il Canto di Natale.
Lo lessi in due pomeriggi. Era l’inizio di dicembre, le strade cominciavano a riempirsi di luci e decorazioni, le case di alberi e presepi, e noi bambini cominciavamo il nostro conto alla rovescia per il Natale e i regali.
Piansi parecchio durante la lettura, naturalmente dopo essermi assicurato che non ci fosse nelle vicinanze nessuno dei miei familiari, e in particolare mio fratello minore. E dopo aver restituito il libro feci una cosa non usuale, per un bambino di otto anni. Raccolsi i miei risparmi, andai in libreria e comprai una copia in brossura del Canto di Natale, identica a quella che avevo preso dalla biblioteca di classe: volevo possederlo, e poterlo rileggere quando mi andava.
Ed effettivamente lo rilessi diverse volte, per quattro o cinque anni, fino alla soglia dell’adolescenza; sempre nello stesso periodo, all’inizio di dicembre. Quella lettura diventò il mio rituale privato per evocare lo spirito del Natale.
Dopo aver accettato di scrivere queste pagine, ho pensato che avrei dovuto rileggere il libro, e che sarebbe stata un’esperienza un po’ malinconica. Come tornare in un posto in cui sei stato felice da bambino, e scoprire che è molto più piccolo, più ordinario di come lo ricordavi.
Mi sbagliavo. Adesso, il romanzo è uguale a quello custodito nei ricordi. La lettura ha funzionato come un congegno di precisione, scatenando nello stesso modo, e direi negli stessi passaggi, il suo micidiale meccanismo di coinvolgimento e di commozione. Lo stesso da cui fu colpito, a quarantanni dalla pubblicazione del Canto, Robert Louis Stevenson (dunque non propriamente un lettore naïf), che confessò di aver pianto come un bambino, a lungo e senza riuscire a smettere, leggendo i Racconti di Natale di Dickens.
Il Canto produce sul lettore — di ogni età, di ogni formazione, di ogni provenienza — una commozione inevitabile e universale. È in questo meccanismo a orologeria, sofisticato e infallibile, che sembra nascondersi il segreto del libro, ad onta di un plot e soprattutto di personaggi non formalmente impeccabili. Sul piano della struttura la storia è risolta con una variante non troppo originale del deus ex machina e Scrooge è certamente un carattere a due dimensioni. Manca di spessore e profondità, e la sua conversione — come è stato osservato da più parti — è troppo brusca e radicale per essere psicologicamente plausibile.
Ciò che è importante in questo libro non è però la coerenza psicologica dei personaggi o la complessità dell’impianto narrativo. Il Canto, costruito con gli stilemi della fiaba ed esplicitamente orientato alla critica sociale, commuove, sempre e fatalmente, grazie alla scrittura, alle modalità di scrittura di Dickens: al suo gioco magistrale con i sensi. La narrazione prende avvio da una dimensione visiva e quasi pittorica, con i suoi contrasti di luci e ombre, esplora il territorio delle consistenze materiali — gli oggetti talvolta sembrano balzare fuori dalla pagina come in un film in 3D — e giunge nel regno impalpabile, evocativo e misterioso degli odori.
Vediamo — percepiamo, tocchiamo, annusiamo — un esempio di questa scrittura piena di sensi in una descrizione semplice e apparentemente ovvia: l’arrivo di un dolce sulla tavola di Natale. «Un buon odore, come di giorno di bucato, emanava dalla salvietta; un odore come se ci fossero un ristorante e una pasticceria a porta a porta con una lavanderia. Che pudding! Dopo mezzo minuto la signora Cratchit entrò, rossa in viso ma sorridente e trionfante, con il pudding simile a una palla di cannone, tanto si presentava duro e compatto. Era tutto macchiettato d’uvetta, navigava in un mezzo quarto di cognac fiammeggiante, e aveva un rametto di agrifoglio natalizio infilato proprio sulla cima.»
Eccolo, il segreto della scrittura. Un congegno di fascinazione fatto di colori, immagini, luci, consistenze, odori.
Soprattutto odori. Dickens è uno dei rari scrittori a collocare l’olfatto al centro dell’attenzione narrativa, consapevolmente. Vi è traccia di questa consapevolezza nel passaggio in cui lo spirito dei Natali passati, con un tocco leggero, risveglia la sensibilità di Scrooge, dandogli «coscienza di mille odori fluttuanti nell’aria, ognuno connesso a centinaia di pensieri, di speranze, di gioie e di inquietudini da tempo, da molto tempo dimenticate».
Il fantasma dei Natali passati restituisce al vecchio Scrooge la consapevolezza degli odori: e per questa via lo conduce a un inatteso e sorprendente recupero dei ricordi. L’olfatto è, più di ogni altro, il senso della memoria e, come scrisse Nabokov (un altro dei pochi scrittori capaci di raccontare attraverso gli odori), «niente fa rivivere il passato in modo tanto completo, quanto un odore che vi era associato».
La memoria è sconfitta dell’oblio, recupero del tempo e dei suoi significati. E forse un’altra parte del segreto, della magia ineludibile di questo romanzo è proprio qui: nella ricomposizione dei ricordi, nella restituzione di senso al tempo, e soprattutto nella ridefinizione del posto dell’uomo nel tempo.
Lo spiega Dickens stesso in una lettera a un amico: «Ho convertito il signor Scrooge facendogli capire che un uomo non può vivere chiuso in se stesso, ma deve vivere nel passato, nel presente e nel futuro, diventando un anello della grande catena dell’umanità».
Nel riferimento alla grande catena dell’umanità, non echeggia solo il motivo del tempo. In questa immagine emerge anche, e con forza, il tema della solidarietà. Il Canto è anche un romanzo di denuncia sociale: questione a cui Dickens era particolarmente sensibile anche per ragioni autobiografiche. Suo padre aveva infatti conosciuto il tracollo economico e la prigione per debiti. Lui stesso, ancora bambino, aveva conosciuto lo sfruttamento in fabbrica e i luoghi spaventosi in cui si annidava la miseria della grande Londra vittoriana. Quella in cui «le vie erano sporche e strette, le botteghe e le case miserabili, la gente seminuda, ubriaca, scalcagnata, ignobile. Vicoli e passaggi vomitavano sulle strade come tanti pozzi neri gli odori più pestiferi, immondizie e umanità vagabonda; tutto il quartiere trasudava delitto, sudiciume e miseria».
Il Canto di Natale è, insieme, romanzo sociale, racconto gotico, favola commovente, caricaturale e poetica al tempo stesso. Ma la parabola del vecchio Ebenezer Scrooge e della sua conversione è anche, soprattutto, una grande, intatta storia morale — quasi un’allegoria — sulla possibilità di cambiare il proprio destino. E una riflessione sul posto dell’uomo nel tempo, sull’equilibrio difficile fra il presente, il passato e i futuri possibili
I libri ti cambiano la vita. Cento scrittori raccontano cento capolavori. I cura di Romano Montroni, Longanesi, 2012