Controcorrente – Joris-Karl Huysmans

Controcorrente (À rebours) è un romanzo di Joris-Karl Huysmans, pubblicato nel 1884. La particolarità di questo romanzo è che vi accade ben poco: la narrazione si concentra quasi interamente sul protagonista, Jean des Esseintes, un anti-eroe malato, esteta ed eccentrico, e si configura come una sorta di catalogo dei suoi gusti e disgusti.

À rebours (tradotto come Controcorrente o A ritroso) è un romanzo del 1884 dello scrittore francese Joris-Karl Huysmans. La narrazione ruota attorno a un unico personaggio: Jean des Esseintes, un esteta eccentrico, solitario e malato. Ultimo discendente di una famiglia aristocratica, Des Esseintes detesta la società borghese del XIX secolo e cerca di ritirarsi in un mondo artistico ideale, frutto della propria immaginazione. Il romanzo è quasi interamente un catalogo dei gusti estetici nevrotici di Des Esseintes, delle sue riflessioni sulla letteratura, la pittura e la religione, nonché delle sue esperienze sensoriali iperestetiche.

À rebours contiene molti dei temi che sarebbero poi stati associati all’estetica simbolista. In questo modo, si distaccò dal Naturalismo, diventando l’esempio per eccellenza della letteratura “decadente” e ispirando opere come Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde. Nella prefazione all’edizione del 1903, Huysmans scrisse di aver concepito il romanzo con l’idea di ritrarre un uomo “che si innalza verso il sogno, cercando rifugio nelle illusioni di una fantasia sfrenata, vivendo da solo, lontano dal suo secolo, tra i ricordi di epoche più affini e ambienti meno vili… ogni capitolo divenne la sublimazione di uno specialismo, il raffinamento di una diversa arte; si condensò in un’essenza di gioielli, profumi, letteratura religiosa e profana, di musica profana e canto gregoriano.”

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L’epigrafe è una citazione di Jan van Ruysbroeck (“Ruysbroeck l’Ammirevole”), mistico fiammingo del XIV secolo:

“Devo gioire al di là dei confini del tempo… anche se il mondo può rabbrividire davanti alla mia gioia, e nella sua grossolanità non comprendere ciò che intendo.”

Jean des Esseintes è l’ultimo discendente di una potente e un tempo orgogliosa famiglia nobile. Ha vissuto un’esistenza estremamente decadente a Parigi, esperienza che lo ha lasciato disgustato dalla società umana. Senza avvisare nessuno, si ritira in una casa di campagna nei pressi di Fontenay, deciso a trascorrere il resto della sua vita nella contemplazione intellettuale ed estetica. In questo senso, À rebours richiama Bouvard e Pécuchet di Gustave Flaubert (pubblicato postumo nel 1881), in cui due impiegati parigini decidono di ritirarsi in campagna, per poi fallire nei loro sforzi di approfondimento scientifico e accademico.

Il romanzo di Huysmans è essenzialmente privo di trama. Il protagonista riempie la propria casa con un’eclettica collezione d’arte, che include in particolare riproduzioni dei dipinti di Gustave Moreau (come Salomè danza davanti a Erode e L’Apparizione), disegni di Odilon Redon e incisioni di Jan Luyken. Nel corso dei suoi esperimenti intellettuali, Des Esseintes rievoca vari episodi di dissolutezza e le sue passate relazioni amorose a Parigi. Si dedica alla creazione di profumi e realizza un giardino di fiori tropicali velenosi. Illustrando la sua predilezione per l’artificio rispetto alla natura (tema tipico del Decadentismo), Des Esseintes seleziona fiori veri che imitano l’aspetto di quelli artificiali. In uno degli episodi più surreali del libro, incastona pietre preziose nel guscio di una tartaruga. “[I]ncapace di sopportare lo splendore abbagliante che le era stato imposto,” la tartaruga muore. In un altro episodio, decide di visitare Londra dopo aver letto i romanzi di Charles Dickens. Cena in un ristorante inglese a Parigi nell’attesa del treno e si compiace della somiglianza tra le persone intorno a lui e l’immagine che si era fatto attraverso la letteratura. Alla fine, annulla il viaggio e torna a casa, convinto che la realtà non potrebbe che deluderlo.

Des Esseintes conduce un’indagine sulla letteratura francese e latina, rifiutando le opere approvate dalla critica ufficiale del suo tempo. Disprezza gli autori latini della cosiddetta “Età dell’Oro”, come Virgilio e Cicerone, preferendo quelli della successiva “Età d’Argento”, tra cui Petronio (elogia il decadente Satyricon) e Apuleio (Metamorfosi, noto anche come L’asino d’oro), oltre alle opere della letteratura cristiana primitiva, il cui stile era generalmente considerato “barbaro” e frutto dell’oscurità del Medioevo. Tra gli autori francesi, prova un totale disprezzo per i romantici, mentre adora la poesia di Baudelaire.

Des Esseintes non ha alcun interesse per i classici della letteratura francese come Rabelais, Molière, Voltaire, Rousseau e Diderot, preferendo piuttosto autori come Bourdaloue, Bossuet, Nicole e Pascal. Riguardo al filosofo tedesco del XIX secolo Arthur Schopenhauer, esclama che “solo lui aveva ragione” con la sua filosofia del pessimismo, e associa la visione schopenhaueriana alla rassegnazione espressa in L’imitazione di Cristo, opera devozionale cristiana del XV secolo scritta da Tommaso da Kempis. La biblioteca di Des Esseintes include anche autori del nascente movimento simbolista, tra cui Paul Verlaine, Tristan Corbière e Stéphane Mallarmé, nonché la narrativa decadente degli scrittori cattolici anticonformisti Auguste Villiers de l’Isle-Adam e Barbey d’Aurevilly. Tra la letteratura cattolica, Des Esseintes mostra attrazione per l’opera di Ernest Hello.

Alla fine, le notti insonni e la sua dieta stravagante compromettono irrimediabilmente la sua salute, costringendolo a tornare a Parigi, pena la morte. Nelle ultime righe del libro, paragona il suo ritorno alla società umana a quello di un non credente che tenta di abbracciare la fede.

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Controcorrente

Titolo originale: À rebours

Joris-Karl Huysmans

PREFAZIONE SCRITTA DALL’AUTORE VENT’ANNI DOPO

Suppongo che gli scrittori siano come me: che una volta pubblicate, non rileggano più le loro opere.

Niente infatti è più disincantante, più penoso che rimettere, a distanza di anni, l’occhio su ciò che si è scritto. Le frasi si sono in qualche modo decantate, depositano sul fondo. Di rado, i libri sono come il vino che invecchiando migliora: spogliati dal tempo, essi invece svaporano e la loro fragranza svanisce.

Questa è certo l’impressione che ho avuto a sturare alcune delle fiale incasellate in A Rebours. E con grande malinconia, nello sfogliare queste pagine, cerco di riportarmi allo stato d’animo in cui dovevo trovarmi al momento che le scrivevo.

S’era allora in pieno naturalismo; ma, questa scuola, cui va riconosciuto l’indimenticabile merito d’aver situato personaggi reali in ambienti precisi, era condannata a ripetersi senza muovere un passo avanti.

In teoria almeno, essa ammetteva a malincuore l’eccezione e si limitava perciò a ritrarre la vita di tutti i giorni sforzandosi, col pretesto di riprodurre il vero, di creare personaggi quanto possibile somiglianti al tipo medio dell’umanità.

Questa aspirazione s’era, a modo suo, realizzata in un capolavoro che, più dell’Assommoir, è stato il modello del naturalismo: l’Education sentimentale di Gustave Flaubert. Questo romanzo era per tutti noi delle «serate di Médan» una vera bibbia; senonché esso non soffriva che poche varianti.

Perfetto, era irricominciabile anche per Flaubert; per cui tutti in quel tempo eravamo costretti a costeggiarlo, a girargli per vie più o meno nostre tutto attorno.

Il fatto che la virtù è su questa terra, bisogna confessarlo, un’eccezione, bastava perché il naturalismo la scartasse da sé. Estranei alla concezione cattolica della Caduta e della Tentazione, ignoravamo di quali sforzi, di quali prove la virtù è frutto: l’eroismo d’un’anima vittoriosa delle insidie ad essa tese, ci sfuggiva.

Descrivere la lotta ch’essa dura, le vicende di quella lotta, gli scaltri attacchi e le finte che il Maligno adopera ai suoi danni, e del pari il valido aiuto che lontanissimo dal tentato si appresta in fondo a un chiostro, non ci sarebbe passato per la mente.

La virtù ci pareva appannaggio di esseri incapaci di curiosità o frigidi di sensi: poco interessante comunque, dal punto di vista dell’arte, il toglierla a soggetto.

Restavano i vizi: ma questo campo era troppo ristretto per prestarsi a coltivarlo. Si compendiava nei vigneti dei sette Peccati Mortali; ed ancora, dei sette, uno solo, quello contro il sesto Comandamento era pressappoco accessibile. Gli altri erano stati vendemmiati a fondo: da piluccare non vi rimanevano che pochi grappoli.

L’Avarizia, ad esempio, era stata spremuta sino al graspo da Balzac e da Hello. La Superbia, l’Ira, l’Invidia avevano fatto le spese di tutte le pubblicazioni romantiche; e di questi motivi di dramma il teatro aveva fatto un tale abuso e scempio che sarebbe occorso davvero del genio per ringiovanirli in un libro.

Quanto alla Gola e all’Accidia, esse parevano meglio adatte ad incarnarsi in personaggi episodici, in comparse, che non nel protagonista o nella prima attrice d’un romanzo di costumi.

Ben è vero che la Superbia sarebbe stato il peccato più ricco di risorse, se studiato nelle sue propaggini infernali, la crudeltà verso il prossimo e la finta umiltà; che la Gola, madre della Lussuria e dell’Accidia, ed il Furto avrebbero offerto materia a sorprendenti scavi ad un credente che li avesse scrutati con la lampa e il cannello ossidrico della Chiesa.

Ma nessuno di noi era preparato a tale compito. Eravamo quindi ridotti a rimasticare sotto tutti i suoi aspetti il peccato più facile a scortecciare, quello della Lussuria; e Dio sa se lo rimasticammo; ma in questa specie di carosello non c’era da andar lontano.

Per varianti che vi si apportassero, il romanzo così inteso si poteva riassumere in ben poco: sapere perché il signor Tal dei Tali commetteva o non commetteva adulterio con la signora Tal dei Tali. A volersi distinguere, e passare per un autore di buon gusto, ad attori del fattaccio si sceglievano una marchesa ed un conte; se ci si contentava d’essere uno scrittore popolare, un prosatore alla mano, si affidava la parte ad una pedina qual si sia e ad un galante di sobborgo. La cornice solo differiva.

L’ambiente distinto mi pare ora aver prevalso nel favore del pubblico, che schifa per adesso gli amori plebei o borghesi, mentre seguita a gustare le esitazioni della marchesa che va a raggiungere il tentatore in un mezzanino il cui arredamento varia col variar della moda.

Cederà? non cederà? Ecco ciò che si chiama studio psicologico. E, per me, nulla da ridire.

Confesso tuttavia che quando aprendo un libro vedo apparire in scena il solito seduttore e prospettarsi il non meno solito adulterio, m’affretto a chiuderlo, non pungendomi la benché minima curiosità d’apprendere come l’andrà a finire. Il libro che non mi offre documenti concreti, il libro che non mi insegna nulla non mi interessa più.

Quando A Rebours comparve, nel 1884, la situazione era dunque questa: il naturalismo s’affannava a girar la macina sempre nello stesso cerchio. Il corredo d’osservazioni, colte sugli altri o su se stesso, che ciascun aveva immagazzinato, cominciava ad esaurirsi.

Zola, da quell’eccellente scenografo che era, si cavava d’impiccio spennellando scenari più o meno rispondenti al vero; egli dava egregiamente l’illusione del movimento e della vita; i suoi personaggi, governati unicamente da impulsi e da istinti, facevano a meno d’anima: ciò che semplificava il lavoro d’analisi. S’agitavano, compivano atti sommari, popolavano di figure assai evidenti degli sfondi; i quali finivano per prevalere, diventar essi i protagonisti.

Celebrava così i mercati, gli empori di mode, le strade ferrate, le miniere; e gli esseri umani che su quegli sfondi si perdevano, si riducevano a sostenere parti secondarie, scadevano a comparse. Ma Zola era Zola: vale a dire un artista un po’ massiccio ma fornito di gagliardi polmoni e di grossi pugni.

Noialtri, di spalle meno quadrate, e desiderosi di un’arte più sottile e più vera, dovevamo chiederci se il naturalismo non metteva capo in un vicolo chiuso e se, seguitando in quella direzione, non ci saremmo presto trovati a battere della fronte contro un muro.

Per dire la verità, queste preoccupazioni non sorsero in me che molto più tardi. Per allora cercavo a tentoni d’evadere da una strettoia dove mi sentivo soffocare; ma non avevo alcun piano definito; e A Rebours che mi liberò da una letteratura senza uscita, spalancando per me una finestra, è un’opera affatto istintiva, immaginata senza programmi, senza segrete prospettive d’avvenire, in sé e basta.

In un primo tempo A Rebours l’avevo concepito come un breve capriccio, sotto forma di bizzarro racconto; trasferito in un nuovo ambiente avrebbe fatto in certo modo riscontro a A vau l’eau. Vagheggiavo un Folantin più letterato, più raffinato, di maggiori mezzi che scopriva nell’artifizio un rimedio al disgusto che gli ispirava il trambusto della vita e l’americaneggiare del suo tempo. Lo vedevo scampare impaziente nel sogno, rifugiarsi nel miraggio di stravaganti fantasmagorie, vivere solitario lontano dal secolo, nella rievocazione di epoche più cordiali, di ambienti meno vili.

E via via che ci pensavo, il soggetto s’allargava ed esigeva pazienti ricerche. Ogni capitolo diventava il compendio d’un particolare argomento, per essere l’estratto quintessenziato dell’arte delle gemme, dei profumi, dei fiori; un breviario di letteratura religiosa o laica, di musica profana o di cantofermo.

Singolare il fatto che, senza essermelo minimamente proposto, fui dalla natura stessa delle ricerche condotto a studiare la Chiesa sotto parecchi aspetti. Era infatti impossibile risalire alla sola era ben caratterizzata che l’Umanità ha conosciuto, al Medio Evo, senza constatare che la Chiesa era tutto, che l’arte esisteva solo in Lei e grazie a Lei.

Incredulo com’ero, io la guardavo con una certa diffidenza, sorpreso della sua vastità e della sua gloria; chiedendomi come mai una religione che mi pareva fatta per bambini avesse potuto suggerire opere così meravigliose.

A tentoni m’aggiravo intorno ad Essa. Indovinavo più di quello che non vedevo; con le reliquie ammirate nei musei e scoperte nei libri, ricomponevo un’unità. Ed oggi che, armato di più lunghe e sicure indagini, scorro le pagine di A Rebours concernenti il cattolicesimo e l’arte sacra, scopro che il piccolo panorama che della Chiesa avevo schizzato su appunti presi, è esatto. Ciò che allora ne dicevo era sommario, rudimentale; ma rispondeva a verità. In seguito non ho dovuto far altro che sviluppare quegli abbozzi, metterli a fuoco. Oggi potrei senza esitazione firmare le pagine di A Rebours sulla Chiesa: esse si direbbero scritte da un cattolico.

E dire che allora dalla religione mi credevo così lontano! Non vedevo che dal troppo ammirato Schopenhauer all’Ecclesiaste ed al Libro di Giobbe non c’era che un passo. Identiche sono le premesse da cui parte il Pessimismo; solo che al momento di concludere, il filosofo si sottrae.

Amavo le sue considerazioni sull’orrore del vivere, sulla stupidità del mondo, sull’inclemenza del destino; le stesse idee che amo nei Libri Santi. Ma le osservazioni di Schopenhauer non metton capo a nulla; egli vi pianta, per così dire, in tronco; i suoi aforismi non sono insomma che piante disseccate in un erbario.

La Chiesa, lei, spiega di quel male le origini e le cause; ne segnala gli scopi, presenta i rimedi. Essa non si contenta di diagnosticare il male; lo cura e lo guarisce; mentre il medicastro alemanno, dopo averti dimostrato che l’infermità di cui soffri è incurabile, ti volta sghignazzando le spalle.

Il suo pessimismo, identico a quello della Sacra Scrittura, è da questa che lo ha preso. Egli non ha detto nulla di più di quello che dissero Salomone e Giobbe; anzi neanche di più di quello che dice l’Imitazione, che tanti anni prima di lui, ha compendiato tutta la filosofia del tedesco nella frase: «È veramente un’infelicità vivere sulla terra».

A distanza, queste somiglianze e diversità saltano agli occhi; ma allora, se le percepivo, non mi ci soffermavo. Non sentivo il bisogno di concludere. La via aperta da Schopenhauer era carrozzabile, varia di panorama; vi passeggiavo tranquillamente, senza provare il desiderio di sapere dove menava.

In quel tempo non mi preoccupavo granché delle scadenze, non avevo alcun timore degli scioglimenti. I misteri del Cattolicesimo mi parevano puerili; come tutti i cattolici, del resto, ero completamente all’oscuro della mia religione. Non mi rendevo conto che tutto è mistero, che non si vive che nel mistero; che, se il Caso esistesse, esso sarebbe anche più misterioso della Provvidenza.

Non ammettevo il dolore inflitto da un Dio; e m’illudevo che il pessimismo potesse essere il consolatore degli spiriti eletti.

Quale sciocchezza! com’era poco sperimentale, codesta persuasione! com’era «poco documento umano», per servirmi d’un termine caro al Naturalismo!

Né gli ammalati di corpo né gli infermi d’anima han mai ricevuto conforto dal pessimismo.

Ora, a rileggere dopo tanti anni le pagine dove sostengo teorie così false, mi viene di sorridere.

Ma ciò che in questa lettura mi colpisce maggiormente si è che tutti i romanzi che in seguito ho scritto sono già virtualmente in questo libro.

I capitoli che lo compongono non sono infatti che gli spunti dei volumi che seguirono.

Quello sulla letteratura latina della Decadenza, l’ho, se non sviluppato, certo approfondito, trattando della liturgia in En Route e in L’Oblat. Lo stamperei oggi tal quale, salvo per quel che concerne Sant’Ambrogio. La sua scrittura acquosa e la sua gonfia retorica non ha cessato di dispiacermi; e confermo in questo senso l’epiteto che gli ho affibbiato di «tedioso Cicerone cristiano». Ma in compenso il poeta è delizioso; i suoi inni e quelli della sua scuola che figurano nel Breviario, contano fra i più belli che la Chiesa ci ha conservato. Aggiungerò che la letteratura, un po’ sui generis, è vero, dell’innario, avrebbe potuto trovar posto nella parte che le è riservata di questo capitolo.

Né oggi più che nell’ottantaquattro, vado matto pel latino classico di Marone e del Cece; preferisco, come al tempo di A Rebours, il latino della Volgata alla lingua del secolo d’Augusto; fors’anche a quella della decadenza, che pure è più interessante pel suo sentore di selvaggina e per la corruzione che già la macula di verde.

La Chiesa che, dopo aver disinfettato e ringiovanito il latino, ha creato, per affrontare un genere di idee che esso non aveva mai espresso, vocaboli magniloquenti e diminutivi d’una squisita grazia, mi pare dunque essersi foggiato un linguaggio di gran lunga superiore al dialetto del Paganesimo. E su questo punto Durtal la pensa ancora come Des Esseintes.

Il capitolo sulle pietre preziose l’ho ripreso in La Cathédrale, occupandomi questa volta delle gemme dal punto di vista dei loro simboli. In questo modo ho dato un’anima alle pietre morte di A Rebours.

Non nego certo che uno smeraldo bello si possa ammirare per le faville che crepitano nel fuoco verde della sua acqua. Ma se si ignora il gergo dei simboli, non resta questa pietra una sconosciuta, una straniera con la quale è impossibile intrattenersi e che anch’essa s’ammutolisce, perché ciò che direbbe ci sarebbe incomprensibile? Ora, un bello smeraldo è più e meglio di questo.

Senza arrivar ad ammettere con un vecchio autore del sedicesimo secolo, Estienne de Clave, che le pietre preziose si generano come gli esseri viventi da un seme sparso nella matrice del suolo, si può benissimo dire ch’esse sono minerali pregni di significato, sostanze loquaci; che sono in una parola dei simboli.

Come tali sono state considerate dalla più remota antichità; e la tropologia delle gemme è uno dei rami di quella simbolica cristiana che preti e secolari del nostro tempo hanno così completamente scordato e che io tentai di tracciar di nuovo nelle sue grandi linee nel mio libro sulla basilica di Chartres.

Il capitolo di A Rebours è dunque superficiale, non fa che sfiorare l’argomento. Non è ciò che dovrebbe essere: una gioielleria metafisica. Si compone di scrigni più o meno ben descritti, più o meno artisticamente disposti in una bacheca; ma è tutto e non basta.

La pittura di Gustave Moreau, le incisioni di Luyken, le litografie di Bresdin e di Redon, sono tuttora quali le vedevo in quel tempo. Nulla toccherei nella disposizione della piccola pinacoteca.

Per il terribile sesto capitolo, il cui numero corrisponde, senza ch’io l’abbia minimamente cercato, a quello del Comandamento ch’esso offende, e per alcune parti del nono che ad esso si possono aggiungere, superfluo dire che non li scriverei più oggi come li scrissi allora.

Avrei per lo meno dovuto spiegarli più sottilmente con la perversità diabolica che s’insinua, specialmente quando si tratti di lussuria, nei cervelli esauriti. Pare infatti che le malattie dei nervi, che le nevrosi aprano nell’anima delle falle per le quali penetra lo Spirito del Male. È questo un enimma che resta tuttora insoluto. La parola isteria non spiega nulla; essa può servire a determinare uno stato fisico, a segnalare il sorgere di irresistibili voci dei sensi; non deduce affatto le conseguenze spirituali che vi si riattaccano ed in particolare i peccati di dissimulazione e di menzogna che quasi immancabilmente vi si innestano.

Quali sono le particolarità e le circostanze di questa peccaminosa infermità? in che misura s’attenua la responsabilità dell’essere affetto nell’anima da una specie di possessione demoniaca che viene ad aggravare il dissesto fisico dello sventurato? Nessuno lo sa; su questo punto la medicina sragiona e la teologia tace.

In mancanza d’una soluzione che non poteva evidentemente recare, Des Esseintes avrebbe dovuto considerare la questione dal punto di vista della colpa; ed esprimere almeno un po’ di rincrescimento. Egli s’astenne dal biasimarsi ed ebbe torto. Ma per quanto educato dai gesuiti – dei quali, più di Durtal, tesse l’elogio – egli era in seguito diventato così ribelle ai divieti divini, così pervicace nello sguazzare nel brago della carnalità!

Comunque, questi capitoli sembrano posti lì, senza volerlo, a mo’ di biffe, ad indicare la strada che condurrà l’autore a scrivere Là-bas. Si noti d’altronde che la biblioteca di Des Esseintes conteneva un certo numero di libri di magia; e che le idee sul sacrilegio che si leggono nel settimo capitolo di A Rebours offrono lo spunto ad un futuro volume che tratterà l’argomento più a fondo.

Neppure Là-bas, che spaventò tanta gente, lo scriverei più nel modo che l’ho scritto, ora che sono ridiventato cattolico. Il filone infatti di scelleratezza e di sensualità ch’esso riprende e sviluppa è, non occorre dirlo, riprovevole. Eppure, lo affermo, io ho velato, non ho detto nulla: i documenti che in esso sciorino sono, a confronto di quelli che ho ommesso e che posseggo in archivio, scipite bagatelle, innocenti zuccherini!

Credo, tuttavia, che a dispetto delle demenze cerebrali e delle follie alvine di cui il libro spesseggia, esso non sia stato, nel soggetto stesso che tratta, senza benefico effetto.

Là-bas ha richiamato l’attenzione sulle astuzie del Maligno il quale era arrivato a farsi negare; esso è stato il punto di partenza di tutti gli studi che ripresero in esame l’eterno processo del Satanismo; ha concorso, svelandole, a stroncare le odiose pratiche delle goezie; ha insomma preso parte e coraggiosamente combattuto per la Chiesa contro il Diavolo.

Tornando a A Rebours – del quale Là-bas non è che un surrogato – posso ripetere a proposito dei fiori quanto già ho detto per le gemme.

A Rebours non li considera che dal punto di vista dell’aspetto e dei colori; per niente dal punto di vista dei significati ch’essi tradiscono. Des Esseintes ha scelto solo orchidee sorprendenti ma taciturne.

Conviene aggiungere che sarebbe stato arduo far parlare in questo libro una flora affetta da alalia, una flora mutola; perché il linguaggio simbolico delle piante è perito col Medio Evo; e le creole vegetali che Des Esseintes predilige erano sconosciute agli allegoristi del tempo.

La controparte di quella botanica l’ho scritta in seguito, in La Cathédrale, trattando di quella floricultura liturgica che a Santa Ildegarda, a San Melitone, a Sant’Euchero ispirò pagine così curiose.

Altra è la questione degli odori di cui, nel medesimo libro, ho svelato gli emblemi mistici.

Des Esseintes non si è occupato che di profumi laici, semplici ossia estratti, e di profumi profani, composti ossia «bouquets».

Egli avrebbe potuto esperimentare anche i profumi della Chiesa: l’incenso, la mirra e quel misterioso Timiama che la Bibbia cita e che il rituale segnala ancora come l’aroma che va bruciato, in una coll’incenso, nell’interno delle campane al momento che si battezzano, dopo che il Vescovo le ha lavate con l’acqua benedetta ed unte del Sacro Crisma e dell’Olio Santo.

Senonché la stessa Chiesa sembra aver dimenticato questo profumo e temo forte che un parroco trasecolerebbe se gli si chiedesse del Timiama.

Eppure la sua ricetta è consegnata nell’Esodo. Il Timiama si componeva di storace, di galbano, d’incenso e d’onica. Quest’ultimo ingrediente altro non sarebbe che l’opercolo di certa conchiglia del genere delle «porpore» che si raccoglie con la draga nelle paludi delle Indie.

Ora, è difficile per non dire impossibile, nulla di più dettagliato conoscendosi su questa conchiglia e sul suo luogo d’origine, preparare al giorno d’oggi un autentico Timiama. Ed è peccato, perché, se così non fosse, questo profumo perduto avrebbe senza dubbio evocato in Des Esseintes i sontuosi fasti delle cerimonie, dei riti liturgici dell’Oriente.

Quanto ai capitoli sulla letteratura laica e religiosa del tempo essi restano per me non meno esatti di quello sulla letteratura latina.

Il capitolo dedicato all’arte profana ha concorso a mettere in luce dei poeti allora quasi ignoti al pubblico: Corbière, Mallarmé, Verlaine. Nulla ho da togliere a ciò che in proposito scrivevo diciannove anni or sono: la mia ammirazione per questi scrittori è rimasta intatta; quella che manifestavo per Verlaine s’è anzi accresciuta.

Arthur Rimbaud e Jules Laforgue avrebbero meritato di figurare nel florilegio di Des Esseintes; ma al tempo che scrivevo nulla ancora avevano pubblicato; fu molto più tardi che le loro opere vennero in luce.

Non prevedevo viceversa d’arrivar mai a gustare gli autori religiosi moderni che A Rebours bistratta. Non mi si toglierà mai dal capo che la critica del defunto Nettement è imbecille e che la signora Augustina Craven e madamigella Eugénie de Guérin sono delle linfatiche laureate in lettere e delle zitellone ben bigotte. I loro rosoli al mio palato son sciapi. Durtal ha ereditato da Des Esseintes il gusto per le droghe e credo che fra loro si intenderebbero ancora molto bene per preparare, in sostituzione di quegli sciroppi, un’essenza d’arte scottante di zenzero.

Neanche ho mutato avviso sulla letteratura della confraternita dei Poujoulat e dei Genoude. Ma oggi sarei meno brusco con padre Chocarne, citato alla rinfusa con altri pii cacografi; lui almeno ha scritto, nell’introduzione all’opera di San Giovanni della Croce, alcune pagine sulla mistica. E meno severo sarei pure per Montalambert che, non potendoci dare opere di talento, ci ha dato sui monaci un’opera incoerente e scompagnata ma, insomma, commossa.

Soprattutto non mi scapperebbe più dalla penna che le visioni di Angela da Foligno sono insulse ed acquose: è vero il contrario. A mia discolpa debbo dire che le avevo lette solo nella versione che ne fece Hello. Ora, Hello era ossessionato dalla mania di sfrondare, di edulcorare, di ingrigire i mistici; temeva, se non lo avesse fatto, di offendere l’epidermica pudibonderia dei cattolici.

Nel caso di Angela da Foligno, egli ha messo sotto torchio un’opera ardente, traboccante di linfa, per tirarne un succo gelido ed incolore, intiepidito alla meglio a bagnomaria alla grama fiammella del suo stile.

Ma se come traduttore Hello si rivela un pedante e un baciapile, va detto forte che, come scrittore in proprio, egli era un manipolatore di idee originali, un esegeta perspicace, un analista veramente acuto. Tra gli scrittori della sua famiglia era anzi l’unico che pensasse.

Io ho aggiunto la mia voce a quella d’Aurevilly nell’esaltare l’opera di quest’uomo, incompleto ma quanto mai interessante; ed A Rebours ha avuto, mi lusingo, la sua parte nel modesto successo che il libro migliore di lui, L’Homme, ha riscosso dopo la morte del suo autore.

Concludevo quel capitolo sulla letteratura ecclesiastica d’oggi affermando che tra i castrati dell’arte religiosa non vedevo che uno stallone: Barbey d’Aurevilly; e di questo avviso resto assolutamente.

Barbey fu l’unico artista degno di questo nome che il cattolicesimo abbia prodotto in questi tempi. Fu un grande prosatore, un romanziere ammirevole, d’un’audacia che faceva ragliare gli scaccini, sgomentati dalla veemenza esplosiva delle sue frasi.

Infine, che un capitolo può servire di partenza ad altri, ne è prova più d’ogni altro quello sul canto gregoriano che ho svolto in tutta l’opera successiva, in En Route e specialmente in L’Oblat.

Adesso che ho passato in esame di volata tutti gli argomenti esposti nelle vetrine di A Rebours, ho ben diritto di concludere che questo libro fu un anticipo di tutta la mia successiva attività di scrittore cattolico; attività che in embrione vi si trova già tutta quanta.

Sicché, per quanto mi sforzi, ancora una volta non riesco a capire l’incomprensione e la stupidità di certi baccucchi e di certi ossessi del sacerdozio, i quali non cessarono per anni di chiedere la distruzione di questo libro – del quale non ho io, del resto, la proprietà – senza neppure rendersi conto che i libri mistici che gli seguirono sono inintelligibili senza di quello, che è, ripeto, la matrice dalla quale gli altri uscirono.

Come d’altra parte giudicare nel suo complesso l’opera d’uno scrittore, se non la si prende a considerare dai suoi esordi, se non la si segue passo passo? Come soprattutto rendersi conto del cammino della Grazia in un’anima, se si sopprimono le tracce del suo passaggio, se si cancellano le prime impronte che ha lasciato?

Quel che in ogni caso è certo, si è che A Rebours rompeva con le opere precedenti, con Le soeurs Vatard, En ménage, A vau l’eau; che A Rebours m’impegnava in una nuova strada della quale ignoravo la meta.

Ben altrimenti perspicace dei cattolici, Zola lo capì alla prima. Ricordo che, dopo la comparsa di A Rebours andai a passare qualche giorno a Médan. Un pomeriggio si passeggiava insieme per la campagna quando lui si fermò netto, e, accigliandosi, mi rinfacciò il libro. Mi disse che esso assestava un tremendo colpo al Naturalismo; che tradivo con esso la scuola; che d’altronde con un simile romanzo mi sbarravo la strada perché nessuna letteratura era possibile in un genere che s’esauriva in un solo volume. E amichevolmente – perché era un gran bravo uomo – mi esortò a rientrare nella strada percorsa sin allora insieme, a sobbarcarmi ad uno studio di costumi.

Ascoltandolo pensavo ch’egli aveva ragione e torto al tempo stesso: ragione, quando m’accusava di scalzare il naturalismo e di chiudermi ogni via; torto, nel senso che il romanzo quale egli lo concepiva era, ai miei occhi, agonizzante, logorato dal suo ripetersi, privo per me, volesse o no, d’interesse.

C’erano molte cose che Zola non poteva capire; anzitutto, il bisogno ch’io sentivo di spalancare le finestre, d’uscire da un’aria cui soffocavo; poi il desiderio che diventava in me imperioso, di scuotere i pregiudizi, di infrangere le barriere del romanzo, di farvi entrare l’arte, la scienza, la storia; di non valermi più insomma di questo genere letterario se non come d’una cornice dove inquadrare lavori più seri.

L’ambizione che mi spronava, soprattutto in quel tempo, era di sopprimere nel romanzo l’intreccio tradizionale, anzi addirittura la passione, la donna; di concentrare tutta la luce su un unico personaggio, di fare ad ogni costo del nuovo.

A questi argomenti coi quali cercavo di convincerlo, Zola non rispondeva; testardo, egli ripeteva il suo assioma: «Non ammetto che si cambi di opinione e di metodo; non ammetto che si bruci ciò che prima si è adorato».

E via! non ha fatto anche lui come il buon Sicambro? Non ha appunto, se non modificato la sua maniera di comporre e di scrivere, ritoccato almeno il suo modo di concepire l’umanità e di spiegare la vita? Al nero pessimismo dei primi libri non ha tenuto dietro, inverniciato di socialismo, l’ottimismo beato degli ultimi?

È giocoforza confessarlo: nessuno capiva l’anima meno dei naturalisti che pure si arrogavano il compito di studiarla.

Essi vedevano l’esistenza come qualche cosa di uniforme; non l’accettavano che quando apparisse in ogni suo elemento verosimile; mentre a me l’esperienza ha in seguito insegnato che non sempre l’inverosimile rappresenta nella vita l’eccezione; che le avventure di Rocambole sono a volte altrettanto probabili di quelle di Gervasin e di Coupeau.

Ma l’idea che Des Esseintes potesse essere non meno reale dei suoi personaggi, sconcertava Zola, lo mandava quasi in bestia.

Ho considerato sin qui A Rebours soprattutto dal punto di vista della letteratura e dell’arte. Mi resta di parlarne dal punto di vista della Grazia; di mostrare quanta parte di subcosciente un libro può spesso contenere, quanto dell’anima dell’autore può proiettarsi a sua insaputa nella pagina.

L’orientarsi così chiaro, così netto di A Rebours verso il cattolicesimo, mi resta, confesso, incomprensibile.

Io ho fatto i miei studi non in istituti religiosi, sì in un liceo. Mai fui religioso in gioventù. I ricordi dell’infanzia, della prima comunione, dell’educazione ricevuta – quei ricordi che han di solito tanto peso in una conversione – non n’ebbero alcuno nella mia.

E ciò che complica ancora le difficoltà e svia ogni analisi, si è che quando scrivevo A Rebours, non mettevo mai piede in una chiesa, non conoscevo un solo cattolico militante, non un prete. Nulla mi spingeva verso la Chiesa; vivevo in pace nel mio cantuccio; mi pareva quanto mai naturale soddisfare i ghiribizzi dei miei sensi e nemmeno il sospetto mi s’affacciava che fosse illecito un tal genere di svago.

A Rebours era uscito nell’ottantaquattro ed io andai a convertirmi in una Trappa nel novantadue. Quasi otto anni trascorsero prima che le sementi di questo libro germogliassero. Mettiamo che di questi otto due, tre al più, ne impiegasse la Grazia nel suo lavoro sordo ostinato, solo a volte avvertibile. Resterebbero sempre cinque anni almeno, durante i quali non ricordo d’aver sentito alcuna velleità di buttarmi nelle braccia del cattolicesimo, alcun rimorso della vita che menavo, alcun desiderio di mutarla.

Perché, come sono stato spinto su una strada persa allora per me nella notte? Sono assolutamente incapace di dirlo.

Nulla, se non è l’esserci stati fra i miei antenati, dei monaci e delle monache, se non sono le preghiere di parenti olandesi ferventissimi e che del resto appena conobbi, varrà a spiegare la totale istintività dell’ultimo grido, dell’invocazione a Dio che chiude A Rebours.

Sì, lo so bene: esistono caratteri forti che si tracciano programmi, combinano in anticipo itinerari di vita e vi si attengono. È pure inteso, se non erro, che con la volontà s’arriva a tutto. Mi piace crederlo; ma io, lo confesso, non sono stato mai né un uomo di ferrei propositi né un autore che fa quel che vuole.

C’è innegabilmente nella mia vita come nella mia opera di scrittore qualche cosa di passivo; qualche cosa di cui non ho coscienza. C’è al di fuori di me qualche cosa che mi guida.

La Provvidenza mi fu misericordiosa, la Vergine benigna. Io mi sono limitato a non recalcitrare alle loro sollecitazioni; ho semplicemente obbedito; le vie per cui fui condotto furon quelle che la Chiesa chiama «straordinarie». Se uno può avere la certezza che niente egli sarebbe senza l’aiuto di Dio, quel tale son ben io.

Chi non possiede la Fede, mi obbietterà che con queste idee si è ad un passo dal cadere nel fatalismo e dal negare ogni psicologia.

No, perché la Fede in Nostro Signore non è fatalismo. Il libero arbitrio riman salvo. Potevo, se così mi piaceva, seguitare a cedere ai lussuriosi impulsi, restarmene a Parigi, fare a meno d’andare a dolorare in una Trappa.

Dio certo non avrebbe insistito. Ma, fermo restando che la volontà riman libera, è d’uopo confessare che il Salvatore ci mette molto del suo, ch’Egli non vi dà pace, vi circuisce, vi «cucina», per servirmi d’un’energica espressione da questurini. Senonché, ancora lo ripeto, si resta liberi, a proprio rischio e pericolo, di mandarLo a spasso.

Quanto alla psicologia, il discorso è un altro. Se la interroghiamo, com’io la interrogo, dal punto di vista d’una conversione, nei suoi inizii essa resta inestricabile. Ha forse delle parti in luce, ma tutte le altre restano in ombra. Il lavoro sotterraneo dell’anima ci sfugge.

Ci fu indubbiamente, mentre scrivevo A Rebours, un dissodarsi del terreno, degli scavi nel suolo per far posto alle fondamenta; di questo lavoro non ebbi sentore. Dio scavava per collocare i suoi fili; ma lo faceva nel buio dell’anima, nella notte. Nulla s’avvertiva. Anni ed anni dovettero trascorrere prima che la scintilla cominciasse a propagarsi pei fili. Alle sue scosse, sentivo allora l’anima trasalire: sensazione che non era ancora né granché dolorosa né ben chiara. La liturgia, la mistica, l’arte n’erano i veicoli o i mezzi. Mi capitava di solito nelle chiese, in ispecie in quella di Saint Severin, dove entravo per curiosità, per non aver di meglio da fare.

Assistendo ai riti non provavo che un’intima trepidazione, quel lieve tremore che ci dà il vedere, l’ascoltare o il leggere un’opera bella. Ma l’aggressione restava vaga, non poneva un aut aut, non metteva nella necessità di pronunciarsi.

Soltanto mi staccavo a poco a poco dal mio guscio di impurità; cominciavo a sentir disgusto di me stesso. Ma ciò non m’impediva di rivoltarmi contro gli articoli della Fede. Le obbiezioni che movevo loro mi parevano senza possibilità di replica; ed ecco che un bel mattino, svegliandomi, senza che abbia mai capito come, le trovai quelle obbiezioni risolte.

Pregai per la prima volta: la conversione era avvenuta.

Tutto ciò sembrerà pazzo a chi non crede nella Grazia. Per chi ne ha provato gli effetti, nessun stupore è possibile. Se qualche sorpresa gli resta, essa concerne solo il periodo d’incubazione: il periodo in cui non si vede o nota alcunché; quello, di cui neppure s’è avuto sospetto: del dissodamento del terreno e della posa delle fondamenta.

Capisco insomma sino ad un certo punto ciò che è avvenuto in me tra il novantuno e il novantacinque, tra Là-bas e En Route; il buio resta invece fitto tra A Rebours e Là-bas, tra l’ottantaquattro e il novantuno.

Se io non ho capito me stesso, è ben naturale che incomprensibili siano rimasti per gli altri gli impulsi di Des Esseintes.

A Rebours piombava nel mercato letterario come un areolito, suscitando stupore e risentimenti. La stampa ne restò sconcertata; mai essa delirò in sì gran numero d’articoli. Dopo avermi trattato di misantropo impressionista ed aver qualificato Des Esseintes di maniaco e d’imbecille complicato, i Normalisti, come Lemaître, s’indignarono che non facessi punto l’elogio di Virgilio ed in tono perentorio dichiararono che i decadenti latini del Medio Evo non erano che «dei rimbambiti e dei cretini».

Altri impresari della critica si degnarono avvertirmi che farei bene a sottopormi in una prigione termale alla sferza delle docce. A lor volta i conferenzieri se ne immischiarono: nella Salle des Capucins l’arconte Sarcey gridava nel suo sbalordimento «Ch’io sia impiccato se capisco una parola in questo romanzo!»

Infine, perché nulla mancasse al concerto, le riviste gravi come «La Rêvue des Deux Mondes» incaricarono d’urgenza il loro rappresentante, signor Brunetière, di paragonare A Rebours alle vaudevilles di Waflard e Fulgence.

In tutto questo caos, un solo scrittore vide chiaramente: Barbey d’Aurevilly, ch’io del resto non conoscevo neanche. In un articolo comparso sul «Constitutionnel» in data 28 luglio 1884 (articolo che l’autore accolse poi nel suo volume Le Roman Contemporain) egli scriveva:

«Dopo un libro come questo, al suo autore non resta più che scegliere tra la bocca d’una pistola e i piedi della croce».

Così è stato.

J.K. HUYSMANS

(1903)

* * *

NOTIZIA DELL’AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE (1884)

A giudicare dai pochi ritratti di famiglia conservati nel castello di Lourps, i Floressas des Esseintes discendevano nei tempi da atletici soldatacci, da arcigni masticamustacchi. Stretti, pigiati nelle vecchie cornici che sbarravano con le gagliarde spalle, essi intimidivano con la fissità dello sguardo, coi baffoni a scimitarra, con la possanza del petto che s’avanzava a riempire l’enorme guscio della corazza.

Questi, gli antenati. Mancavano i ritratti dei loro discendenti; c’era una lacuna nell’iconografia della famiglia. Solo una tela serviva di ponte tra il passato ed il presente: un viso astuto ed enigmatico, dai tratti scialbi e sbattuti, dai pomelli avvivati da un tocco di belletto, i capelli intrecciati di perle, il collo che colorito si protendeva dalle pieghe d’un rigido collaretto.

Già in quell’immagine d’uno dei più intimi amici di casa del duca d’Epernon e del marchese d’O. le tare d’un sangue impoverito, in predominanza linfatico, erano palesi.

La decadenza di quell’antica famiglia aveva evidentemente seguìto il suo corso fatale; l’infemminirsi della linea maschile s’era andato via via accentuando. Quasi a precipitare l’opera del tempo, durante dei secoli i Des Esseintes avevano accoppiato i figli fra loro, consumando quel po’ di forza di cui ancora disponevano in unioni fra consanguinei.

D’una famiglia ancora poco prima così numerosa da avere rappresentanti in quasi tutte le terre dell’Ile-de-France e della Brie, un solo rampollo ormai sopravviveva, il duca Giovanni: un gracile trentenne, gli occhi d’un freddo azzurro metallico, il naso dilatato eppure diritto, le mani esili ed aride.

Per un interessante caso di atavismo, l’ultimo discendente somigliava all’antico avo, a quello gentile; di quello aveva la moschetta d’un biondo slavatissimo e l’espressione ambigua, al tempo stesso stanca e astuta.

Tetra era stata la sua infanzia. Minacciato da scrofole, insidiato da febbri ostinate, era riuscito tuttavia, a forza di cure e di vita all’aperto, a superare le secche della pubertà; allora i nervi avevano preso il sopravvento, avuto ragione dei languori e delle prostrazioni dell’anemia e condotto a buon esito la crescenza.

La madre, un’alta donna bianca e taciturna, morì d’esaurimento; ed a sua volta il padre soccombette ad una malattia non bene precisata, mentre il figlio toccava i diciassett’anni.

Dei genitori, egli non conservava che un ricordo spaurito, nel quale non entrava né affetto né gratitudine. Il padre ch’era sempre via, a Parigi, l’aveva conosciuto appena; la madre, la ricordava coricata immobile in una stanza semibuia del castello di Lourps. Di rado i due si trovavano insieme; e di quei giorni il figlio rammentava gli squallidi incontri fra i genitori, rivedeva padre e madre seduti uno in faccia all’altro, davanti ad un tavolino rischiarato esso solo da una lampada accecata da un grande paralume – la luce viva ed il rumore davano infatti alla duchessa crisi di nervi -; ed in quel semibuio, era tanto se i coniugi si scambiavano due parole. Dopodiché, freddo freddo lui rinfilava l’uscio, diretto alla stazione dove saltava sul primo treno.

Una vita meno triste e maggiore benevolenza Giovanni trovò nel collegio di gesuiti dove fu spedito a fare gli studi. I Padri fecero festa a quel ragazzo che li stupiva per la sua intelligenza: ma per quanto facessero non riuscirono ad ottenere che seguisse con regolarità gli studi; ad alcuni prendeva gusto, anzi del latino acquistava in breve una conoscenza sorprendente per la sua età; ma per contro non riusciva a cavar senso da due parole di greco e non faceva un passo nelle lingue vive; quando poi si trattò di affrontare lo studio delle scienze, la sua inettitudine si palesò completa.

La famiglia poco si dava pensiero di lui; ogni tanto il padre veniva a trovarlo: «Bongiorno, bonasera, sta buono e studia». D’estate, il ragazzo tornava al castello per le vacanze; la presenza del figlio non bastava a tirar la madre dal suo trasognamento; era molto se si accorgeva di lui; e se gli fermava qualche secondo l’occhio sopra, sulle labbra le compariva un sorriso quasi doloroso; quindi si risprofondava nella notte fittizia che le spesse tendine mantenevano nella stanza.

I domestici erano vecchi ed annoiati. Abbandonato a se stesso, il ragazzo, nei giorni di pioggia, frugava tra i libri. Col bel tempo vagava per la campagna interi pomeriggi.

Il suo svago maggiore era scendere nella valle, raggiungere Jutigny, una borgata a pie’ delle colline, un mucchietto di casupole incappucciate di stoppia donde spuntava qua e là un ciuffo di rosalelia e lustravano cuscinetti di borraccina. Si sdraiava sul prato, all’ombra dei fienili, l’orecchio al sordo strepito dei mulini ad acqua, bevendo la frescura che veniva su dalla Voulzie.

A volte si spingeva sino alle torbiere, sino alla borgata verdenera di Longueville, oppure s’arrampicava sulle colline spazzate dal vento, di dove si godeva un immenso panorama. Di lassù dominava da una parte la vallata della Senna che fuggiva a perdita d’occhio sino a confondersi con l’azzurro dell’ultimo orizzonte; vedeva profilarsi sul cielo le chiese e la torre di Provins che parevano, col sole, tremolare nel pulviscolo dorato dell’aria.

Leggeva o s’abbandonava alle sue fantasticherie, abbeverandosi sino a scuro di solitudine.

A forza di rimuginare sempre gli stessi pensieri, la sua mente si concentrò, le sue idee, sin allora indecise, maturarono.

Dopo ogni periodo di vacanze, tornava ai suoi insegnanti più sicuro di sé e più caparbio; mutamenti che non sfuggivano ai Padri. Perspicaci ed astuti, abituati dal loro mestiere a sondare in profondità le anime, essi non si illusero sul conto di quella intelligenza sveglia ma indocile; capirono che mai quell’allievo contribuirebbe alla gloria del loro Ordine, e, siccome la famiglia era ricca e pareva disinteressarsi dell’avvenire del figlio rinunziarono dal principio ad avviarlo alla proficua carriera dell’insegnamento. Sebbene il giovane discutesse volentieri sulle dottrine teologiche che per la loro sottigliezza e cavillosità lo attiravano, i Padri non pensarono neanche a destinarlo agli ordini, perché nonostante i loro sforzi la sua fede restava tiepida. Finché per prudenza, per timore dell’ignoto, lasciarono che s’applicasse agli studi che gli piacevano e trascurasse gli altri; non volevano alienarsi quello spirito indipendente, importunandolo con osservazioni da prefetto di collegio laico.

Visse così completamente felice, avvertendo appena il giogo paterno dei frati; proseguì a modo suo nello studio del latino e del francese; e, sebbene la teologia non figurasse tra le materie d’insegnamento, ne completò lo studio, iniziato al castello, nella biblioteca lasciata in eredità dal prozio, il reverendo Padre Prospero, già priore dei canonici regolari di Saint-Ruf.

Il giorno venne tuttavia che dovette lasciare l’istituto dei gesuiti; maggiorenne, entrava in possesso della sua fortuna; il cugino e tutore Di Montchevrel gli rese i conti.

Le relazioni che corsero fra i due furono di corta durata: tra quel tutore vecchio ed il giovane pupillo non poteva nascere vera intesa. Per curiosità, per non aver di meglio da fare, per educazione, Des Esseintes frequentò quella famiglia; e parecchie volte in casa propria, in via della Chaise, si sobbarcò ad opprimenti serate, durante le quali dovette sorbirsi da parte di quella incartapecorita parentela interminabili discorsi di quarti di nobiltà, di lune araldiche, di cerimoniali desueti.

Più ancora di questi parenti, i tipi che una partita di whist raccoglieva, si rivelavano fossilizzati e nulli. In quelle riunioni i discendenti degli antichi prodi, gli ultimi rampolli delle grandi famiglie feudali, apparvero a Des Esseintes sotto l’aspetto di vecchiardi catarrosi e maniaci, occupati a rimasticare insipide ciance, frasi centenarie. Come nel gambo reciso di certa felce, nella polpa rammollita di quei vecchi crani, non doveva trovarsi che l’impronta d’un fiordaligi.

Il giovane sentì un’immensa pietà per quelle mummie già composte nei loro ipogei pompadour, rivestiti di legno scolpito a rocciame, per quei tetri e stizzosi dorminpiedi che tiravano avanti nella perpetua attesa non avrebbero saputo dire di quale terra di Canaan, di quale fantastica Palestina. Gli bastò partecipare qualche volta a quelle sedute per giurarsi, nonostante le insistenze e i rimprocci, di non rimetterci piede.

Prese allora a frequentare giovani della sua età e del suo ceto.

Gli uni, allevati come lui in istituti religiosi, dell’educazione ricevuta serbavano qualche cosa che li distingueva. Andavano a messa, si comunicavano a Pasqua, frequentavano i circoli cattolici; e, abbassando gli occhi, negavano, come si trattasse d’un delitto, di insidiare la virtù delle donzelle. Erano per la maggior parte dei bellimbusti di scarsa intelligenza e privi di carattere, dei Pessimi scolari irreducibili che avevano stancato la pazienza dei maestri e che pure dei maestri avevano esaudito il voto che è quello di restituire alla società degli esseri passivi e bigotti.

Gli altri, allevati nei collegi laici o nei licei, erano meno ipocriti e più indipendenti; ma non erano né più interessanti né di vedute più larghe. Si davano alla bella vita, s’appassionavano per l’operetta e per le corse, giocavano a lanzichenecco e a baccarà, rischiavano delle fortune su un cavallo, a carte, in tutti i passatempi cari alla gente vuota.

In capo ad un anno, lo prese una grande sazietà di quella compagnia: le loro orgie le trovò meschine e a portata di mano, fatte senza discernimento, non già nella sovreccitazione dei nervi e nell’accecamento del sangue, senza insomma vera febbre.

Poco a poco li piantò per accostarsi agli uomini di lettere; in essi sperava di trovare maggiore affinità di idee, una compagnia che lo mettesse più a suo agio.

Fu una nuova delusione: li udì trinciare giudizi gretti e dettati da livore che lo rivoltarono. La loro conversazione era la più piatta che si potesse immaginare; le loro discussioni, in cui il valore d’un libro veniva giudicato dalla tiratura e dalle rese del libraio, disgustose. Con essi conobbe dei liberi pensatori, dei dottrinari della borghesia; individui che reclamavano per sé tutte le libertà di cui si sarebbero valsi per turare la bocca a chi la pensasse diversamente; avidi e impudenti puritani che giudicò per educazione dammeno del ciabattino di faccia.

Il suo disprezzo per l’umanità s’accrebbe; capì finalmente che il mondo è costituito in maggioranza di imbecilli e di farabutti. Nessuna speranza più dunque di poter trovare chi dividesse i suoi odi ed amori; nessuna speranza di accoppiarsi ad un’anima cui sorridesse, come a lui, una vecchiaia dedita allo studio; nessuna speranza d’accompagnarsi, lui, uno spirito così acuto e disincantato, con uno scrittore o un uomo di lettere.

Abbattuto, scontento di tutto, sdegnato dell’insulsaggine delle idee scambiate e ricevute, diventava come quelli di cui parla Nicole che si sentono doler dappertutto. Arrivava a torturarsi continuamente da sé; a soffrire delle baie patriottiche e sociali, ammanite ogni mattina dai giornalisti; ad irritarsi, più che non ne valesse la pena, del successo che il pubblico onnipotente riserva sempre ad ogni costo alle opere senza idee e senza stile.

Già vagheggiava una tebaide da raffinato, un deserto non privo di comodi, un’arca senza traballii e riscaldata dove rifugiarsi lontano dal diluvio senza schiarita della umana stupidità.

Una sola passione, la donna, avrebbe potuto fargli accettare il disgusto che lo soffocava, di tutto; ma quella passione era anch’essa venuta a fine.

Ai banchetti della carne egli s’era accostato con l’appetito d’un uomo soggetto a subitanee nausee ed a bizzarri capricci, d’uno affetto da malacia, aggredito da fami disordinate ed improvvise; d’un uomo dal palato facile ad ottundersi ed a stuccarsi di tutto.

Al tempo che frequentava i nobilucci aveva preso parte a quei cenoni dove, alla frutta, donne alticcie si mettono in libertà e, ribaltate, urtano del capo la tavola. Così pure aveva corso le quinte, palpeggiato attrici e cantanti; scontato la delirante vanità delle cattive attrici, venuta ad aggiungersi, come non bastasse, all’innata stupidità delle donne; aveva mantenuto donnine già celebri e contribuito alla fortuna di quelle agenzie che procacciano a chi li paga piaceri suscettibili da parte del cliente di contestazione.

Infine, satollo, stanco di quel lusso stereotipo, di quelle carezze sempre eguali, s’era tuffato nei bassifondi, nella speranza che il contrasto gli ridesse l’appetito, che la scarsa pulizia agisse da cantaride sui suoi sensi assopiti. Ma checché tentasse, un opprimente tedio lo accompagnava. Si accanì; ricorse alle pericolose carezze delle virtuose dell’erotismo; ma allora la sua salute se ne risentì, il sistema nervoso s’esasperò; già si sentiva la nuca e la mano tremava: ferma ancora quando stringeva un oggetto pesante, sussultava e si inclinava quando l’oggetto era leggero, ad esempio un bicchierino.

I medici che consultò lo spaventarono. Era tempo di arrestarsi sulla china, di rinunciare ai maneggi che gli minavano le forze. Per qualche tempo si mantenne saggio; ma presto il cervelletto s’infiammò, suonò la sveglia. Come quelle monelle che la pubertà affama di cibi corrotti o abbietti, si trovò a sognare, a praticare gli amori anormali, i piaceri deviati. Allora, fu la fine; quasi paghi d’aver tutto provato, quasi paralizzati dalla fatica, i suoi sensi caddero in letargo; fu ad un passo dall’impotenza.

Si ritrovò in istrada, a sbornia smaltita, solo, tremendamente spossato, a implorare una fine che solo la viltà della carne gli impediva di darsi.

L’idea si rafforzò in lui di rintanarsi lontano dal mondo, di chiudersi in un eremo, dove non sentisse più che affievolito – come per certi infermi si ottiene lastricando di paglia la strada – l’incessante frastuono dell’implacabile vita.

Era del resto tempo di decidersi; il conto che fece di quanto gli restava lo allarmò; in follie, in bagordi aveva dato fondo alla maggior parte del patrimonio; la parte investita in terreni non fruttava che una rendita irrisoria.

Deliberò di vendere il castello di Lourps dove non andava più e dove non lasciava alcun ricordo cui tenesse, alcun rimpianto. Liquidò pure tutti gli altri suoi beni, investì il ricavo in titoli di Stato, mettendo insieme in tal modo una rendita annua di cinquantamila lire e trattenendosi in più una somma rotonda che destinò all’acquisto ed all’arredamento della casetta dove si proponeva di immergersi in una pace definitiva.

Frugò i dintorni della capitale e sopra Fontenay-aux-Roses scoprì ch’era in vendita una bicocca in un punto fuori mano, senza soggezione di vicini, in prossimità del forte.

Il suo sogno si realizzava. In quel paese, poco infestato dai parigini, si sentiva al sicuro. La difficoltà delle comunicazioni, garantite sì e no da una buffa ferrovia facente capo ad un’estremità del paese e da tramvaietti che partivano e compivano il tragitto quando e come potevano, lo rassicurava.

Alla prospettiva della nuova vita che si sarebbe formato, provava una grande esultanza; si vedeva abbastanza al di qua dalla sponda perché la fiumana di Parigi non lo raggiungesse più con i suoi flutti; e nello stesso tempo abbastanza vicino per non sentire il desiderio di rituffarvisi. Visto infatti che basta trovarsi nella impossibilità di recarsi in un dato sito, perché subito ci colga la smania di corrervi, col non sbarrarsi del tutto la via, egli aveva qualche probabilità di non essere assalito da alcuna nostalgia della società, da alcun rimpianto.

Affidò ai muratori la casa acquistata; ed un giorno, di punto in bianco, senza mettere alcuno al corrente dei suoi progetti, si sbarazzò del vecchio mobilio, congedò la servitù e sparì senza lasciare indirizzo.

* * *

I

Dovevano passare più di due mesi prima che Des Esseintes potesse immergersi nel silenzio e nella quiete della sua casa di Fontenay; più di due mesi che consumò ad andare su e giù per Parigi, a battere da un capo all’altro la città, in acquisti di ogni genere.

Eppure non si poteva dire che non avesse preso le sue misure; a quante elucubrazioni non s’era abbandonato prima di affidare l’alloggio ai tappezzieri che glielo arredassero!

Egli conosceva per lunga esperienza i colori che non mentiscono all’attesa e quelli che la eludono.

Un tempo, quando riceveva donne in casa, s’era fatto fare un’alcova dove, tra mobiletti intagliati nel pallido legno del laurocanfora del Giappone, sotto una specie di padiglione rosa di raso indiano, le carni si coloravano dolcemente alla luce ammaestrata che setacciava la stoffa. Quella stanza dove specchi si facevano riscontro e si rimandavano a perdita d’occhio sfilze di alcove color rosa, era stata celebre nel mondo delle sue frequentatrici; le quali prendevano gusto a immergere la loro nudità in quel bagno di tiepido incarnato che profumava l’odor di menta sprigionato dal legno del mobilio.

Ma a parte i vantaggi di quell’aria truccata che si sarebbe detto facesse scorrere nuovo sangue sotto le pelli appassite e sciupate dall’uso dei lisci e dall’abuso delle notti, egli gustava per proprio conto, in quell’ambiente pieno di languore, gioie sue, piaceri che acuiva e sino a un certo punto creava il ricordo dei mali passati, della amarezza d’un tempo.

Così, in odio e spregio dell’infanzia, aveva appeso alla volta di quella camera, in una gabbiuzza d’argento, un grillo che cantava come già nelle ceneri del focolare al castello di Lourps. Quando ascoltava quel verso tante volte udito, tutte le mortificate sere trascorse in silenzio presso la madre nella casa materna, tutta la solitaria giovinezza sofferente e impedita d’espandersi, riaggallava tumultuosamente alla memoria; ed allora, ai sussulti della femmina che accarezzava macchinalmente e che col suo ridere o le sue parole lo richiamava bruscamente in terra, alla realtà di quell’alcova, una frenesia si scatenava in lui, una sete di vendicarsi delle tristezze patite, una smania d’insozzare con atti turpi ricordi di famiglia; un furibondo desiderio di spasimare su guanciali di carne, d’esaurire sino in fondo le più acute e cocenti follie della carne.

Altre volte ancora, quand’era prigioniero di una malinconia senza causa, nelle giornate di pioggia, quando lo assaliva tedio della strada, della casa, del cielo di giallo fango, del plumbeo materasso delle nubi, si rifugiava là; imprimeva una lieve oscillazione alla gabbia e la guardava riflettersi all’infinito nel gioco degli specchi, sino a che gli occhi abbarbagliati vedevano la gabbia ferma ed oscillare invece e rotearle intorno la stanza, riempiendo la casa d’un rosa danzante.

Così – quando ancora riteneva necessario distinguersi dagli altri – Des Esseintes aveva progettato e fatto eseguire degli arredamenti d’una fastosa stravaganza, dividendo, ad esempio, il salotto in tante nicchie variamente tappezzate, ognuna delle quali per sottili analogie, vaghe rispondenze di tinte festose o cupe, delicate o barbariche, s’accordava con questo o quel genere di opere – latine o francesi – che amava. A seconda dell’opera alla quale il capriccio del momento gli guidava la mano, sceglieva per leggerla la nicchia che meglio a suo avviso rispondeva, per il modo ch’era decorata, al carattere dell’opera.

Infine, una grande sala, fatta preparare a questo scopo, l’aveva destinata a ricevere i fornitori; e, come questi avevano ordinatamente preso posto in stalli di chiesa, egli saliva su una cattedra donde teneva un sermone sulla perfetta eleganza; intimando ai sarti ed ai calzolai d’attenersi, in materia di taglio, ai suoi «brevi» nel modo più rigoroso; e minacciandoli di scomunica pecuniaria se non eseguivano alla lettera le norme illustrate nei suoi monitorii e nelle sue bolle.

La reputazione che s’acquistò di eccentrico, la corroborò vestendosi di velluto bianco, sfoggiando panciotti ricamati come piviali, inserendo a mo’ di cravatta nello scollo della camicia un mazzo di violette di Parma, imbandendo ai letterati pranzi che suscitavano larga eco. Rinnovando tra l’altro una stramberia registrata nelle cronache del diciottesimo secolo, inscenò un pranzo a lutto per commemorare il più futile degli infortuni.

Nella sala da pranzo addobbata di nero, che dava sul giardino trasformato per l’occasione – polvere di carbone cospargeva ora i viali; la piccola vasca, chiusa adesso da un orlo di basalto, ondeggiava di inchiostro; pini e cipressi mascheravano i boschetti – il pranzo era stato imbandito su una tovaglia nera, guarnita di cestelli di viole e di scabbiose, rischiarata da candelabri lingueggianti di fiamme verdi e da lucerne in cui ardevano ceri.

Mentre un’orchestra invisibile faceva udire marce funebri, servivano in tavola negre ignude coi piedi in babbucce di foggia sacra, calzate di tessuto d’argento cosparso di lagrime.

In piatti orlati di nero, era stata servita zuppa di testuggine; con pane di segala russa, olive mature di Turchia, caviale, bottarga di muggine, s’eran poi avvicendate salsicce affumicate di Francoforte, caccia in salsa color tra di liquorizia e di lucido da scarpe; un passata di tartufi; quindi creme ambrate di cioccolato, bodino all’inglese, pesche, noci, sapa, more e ciliege acquaiole. In bicchieri scuri s’eran bevuti vini della Limagne e del Roussillon; del Tenedo, del Val di Peñas e del Porto; gustato, dopo il caffè e l’acquavite di mallo, del kwas, del porter e dello stout.

La cerimonia commemorava una panna di virilità; e le lettere d’invito somigliavano tipograficamente a partecipazioni di morte.

Ma di queste stravaganze, di cui un tempo menava vanto, s’era presto stuccato. Adesso disprezzava quelle ostentazioni puerili e sorpassate, quegli scarti nel vestire, quel momentaneo compiacersi in cornici stravaganti.

Ormai aspirava semplicemente a crearsi – pel proprio piacere, non più per sbalordire altrui – un interno provvisto d’ogni comodità, eppure messo in modo non comune; a formarsi un nido singolare e tranquillo, adatto ai bisogni della futura solitudine.

Quando l’architetto cui l’aveva affidata, gli consegnò la casa allestita di tutto punto in conformità dei suoi piani e desideri; quando non restò più che fissarne l’arredamento e la decorazione, daccapo egli riprese a suo agio in esame tutti i possibili colori e le loro gradazioni.

Voleva dei colori che si affermassero alla luce fittizia delle lampade; poco gli importava che a quella del giorno risultassero sfacciati o scialbi.

Quasi solo di notte viveva, stimando che di notte in nessun luogo si stava bene come in casa, in nessun luogo era più solo e che l’anima non spiccava il volo e non fiammeggiava che nell’immediata vicinanza dell’ombra. Trovava pure un particolare godimento a restare in una camera bene illuminata, desta e all’erta essa sola, tra tante case piene di buio e di sonno; godimento in cui entrava forse una punta di vanità; compiacimento affatto egoistico, che conosce chi lavora sin tardi, quando, alzando le tendine della finestra, constata che tutto intorno a lui è spento, tutto è muto, tutto è morto.

A suo agio, scelse a una a una le tinte.

L’azzurro, alla luce delle candele, dà in un verde posticcio; se è carico, come l’indaco e il cobalto, diventa nero; se è chiaro, volge al grigio; se è limpido e tenero come la turchese, s’offusca e si ghiaccia. A meno dunque di associarlo come complementare ad un altro colore, non c’era da pensare di farne la nota dominante d’un ambiente.

D’altra parte, i grigi ferro, alla luce artificiale, s’imbronciano di più e s’appesantiscono; i grigi perla perdono l’azzurro e si mutano in bianco sporco; i bruni, s’addormentano e si raffreddano; quanto ai verdi carichi, come sarebbe il verde-imperatore ed il verde-mirto, si comportano nello stesso modo dei verdi densi e si fondono coi neri.

Restavano dunque i verdi più chiari, come il verde-pavone, i cinabri e le lacche; ma allora la luce artificiale esilia il loro azzurro, per non serbare che il giallo, il quale non conserva a sua volta che un tono falso, un sapore equivoco.

Neanche c’era da pensare ai colori salmone, granoturco; né ai rosa: l’effeminatezza di queste tinte contraria i propositi d’isolamento. Non c’era infine da prendere in considerazione i violetti, i quali si spogliano: solo il rosso che contengono viene a galla la sera; e che rosso! un rosso vischioso, la feccia d’un vino ignobile. Giudicava d’altronde affatto inutile ricorrere a questo colore quando, ingerendo una certa dose di santonina, si vede violetto: ciò che rende agevole mutare, lasciandole al loro posto, la tinta delle tappezzerie.

Scartati questi colori, non ne rimanevano che tre: il rosso, l’arancione, il giallo.

A tutti preferiva l’arancione. Trovava così in se stesso conferma ad una teoria ch’egli dichiarava pressoché matematicamente esatta: che una armonia, una rispondenza esiste tra la natura sensuale d’un vero artista ed il colore che i suoi occhi apprezzano meglio e cui sono più sensibili.

Trascurando infatti la grande maggioranza degli uomini che han la retina così grossolana da non apprezzare né la cadenza propria a ogni colore né l’arcano fascino delle gradazioni e delle sfumature; trascurando del pari l’occhio del borghese, insensibile alla pompa e al vittorioso squillo dei toni alti e vibranti; non prendendo in considerazione che gli individui dalla pupilla squisita, educata dalla letteratura e dall’arte, gli pareva fuori dubbio che l’occhio di quello fra di essi che sogna l’ideale, che reclama delle illusioni, che implora dei veli nei tramonti, è di solito accarezzato dall’azzurro e dai colori che ne derivano, quale il malva, il lilla, il grigio perla: purché tuttavia essi restino tenui e non varchino il limite oltre il quale divengon altri, si trasformano in violetti puri, in meri grigi.

Quelli invece che procedono a passo di carica, i pletorici, i bei sanguigni, i solidi maschi che disdegnano i preludi e gli intermezzi e s’avventano perdendo subito la testa, per la maggior parte costoro applaudono ai luccichii sfacciati dei gialli e dei rossi, ai colpi di tamburo dei cinabri e dei cromi che li accecano e li sborniano.

Insomma, l’occhio delle persone deboli e nervose che han bisogno, per risvegliare l’appetito, di cibi affumicati o piccanti; l’occhio di chi è sovreccitato ed estenuato predilige, quasi sempre, l’arancione: questo colore dagli splendori fittizi, dalle febbri acide.

La scelta di Des Esseintes non lasciava dunque adito a dubbi; ma innegabili difficoltà si presentavano ancora. Se il rosso e il giallo s’esaltano alla luce, lo stesso non sempre si può dire del loro composto, l’arancione: che si tramuta ben spesso in rosso-nasturzio, in rosso-fuoco.

Alla luce delle candele studiò tutte le sue gradazioni e ne scoperse una che gli parve non dovesse subire squilibri ed eludere la sua attesa.

Ottenuto questo primo risultato, si propose di scartare, per quanto possibile – nell’addobbo almeno dello studio – stoffe e tappeti orientali, diventati, oggidì che i mercanti arricchiti se li procurano con poca spesa negli empori di novità, così stucchevoli e così ordinari. Tutto considerato, decise di far fasciare le pareti come si rilegano i libri: di marocchino a grana grossa schiacciata, con pelle del Capo resa lustra da robuste lastre di acciaio sotto un torchio pesante.

Quando le pareti furono addobbate, fece dipingere i tondini e la cimasa in indaco carico, in un indaco laccato simile a quello che si adopera per i pannelli delle carrozze; e la volta, un po’ arrotondata, rivestita del pari di marocchino, schiuse, come un’immensa finestra tonda incastonata nella sua buccia d’arancio, un cerchio di cielo in seta azzurro-del-re, nel quale si libravano ad ali spiegate serafini d’argento, recentemente ricamati dalla Confraternita dei Tessitori di Colonia per un antico piviale.

La sera, quando ogni cosa fu a posto, tutto si conciliò, s’affatò, prese unità. Lo zoccolo immobilizzò il suo azzurro, sostenuto per così dire, riscaldato dagli arancioni: che, a loro volta, si mantennero schietti, appoggiati e in certo modo attizzati che furono dall’incalzare dei blu.

Quanto a mobilio, Des Esseintes fece presto a trovare quel che gli occorreva, l’unico lusso dell’ambiente dovendo consistere in libri e fiori rari. Rimandando a poi d’animare di qualche disegno o di qualche quadro le pareti rimaste nude, si limitò a coprirne il maggior spazio con palchetti e scansìe di biblioteca in legno d’ebano; a tappezzare il pavimento di pelli di belva e di volpi azzurre; ad allogare, presso una massiccia tavola di cambiavalute del quindicesimo secolo, comodi seggioloni ad appoggia-tempia; ed un vecchio leggio di cappella, di ferro battuto, uno di quegli antichi leggii sul quale il diacono squadernava un tempo l’antifonario e che ora reggeva uno dei pesanti in-folio del Glossarium medioe et infimoe latinitatis di Du Cange.

Le finestre dai vetri crepati, azzurrognoli, seminati di fondi di bottiglia dalle prominenze picchiettate d’oro, che intercettavano la vista della campagna e lasciavano filtrare una luce fittizia, si rivestirono alla loro volta di tendine ricavate da vecchie stole, dove l’oro opaco e quasi affumicato si spegneva nella trama d’un rosso moribondo.

Finalmente, sul camino – parato anch’esso della sontuosa stoffa d’una dalmatica fiorentina – tra due ostensori bizantini di rame dorato, provenienti dall’antica Abbaye-au-Bois de Bièvre, una magnifica cartagloria di chiesa, a tre scomparti lavorati come un pizzo, accolse sotto il vetro della sua cornice, copiati su autentico velino in ammirevoli caratteri da messale e con splendida alluminatura, tre composizioni di Baudelaire: a dritta e a manca, i sonetti: La Mort des Amants, L’Ennemi; in mezzo il poemetto intitolato: «any where out the world»: «non importa dove, fuori del mondo».

II

Terminata la vendita dei beni, Des Esseintes conservò i due vecchi domestici che avevano assistita sua madre e fatto da amministratori e al tempo stesso da portieri al castello di Lourps per tutto il tempo ch’era rimasto disabitato.

La coppia aveva fatto l’abitudine ad assistere ammalati, a propinare con regolarità d’infermieri ogni ora cucchiai di pozioni e decotti, a mantenere l’assoluto silenzio dei frati di clausura, a non comunicare coll’esterno, a vivere in camere con porte e finestre sbarrate.

A Fontenay, l’uomo ebbe l’incarico della pulizia e della spesa; la donna, quello della cucina. Des Esseintes cedette ai due il primo piano; li obbligò a portare spesse scarpe di feltro senza suola; alle porte ben lubrificate fece adattare delle bussole e stendere sul pavimento alti tappeti che spegnessero sul suo capo ogni rumore. Combinò con loro il linguaggio di certe sonerie, il significato, variante col numero e la durata, degli squilli di campanello; fissò sulla scrivania il punto preciso dove ogni fin di mese, dovevano mettergli, mentre dormiva, il libro dei conti; non trascurò misura, insomma, per dover loro parlare e vederli il meno possibile.

Nondimeno, poiché la donna doveva, per recarsi al ripostiglio della legna, passar davanti alla casa, per evitare d’essere offeso dalla sua apparizione quando veniva ad inquadrarsi nel vano della finestra, le fece fare un abito di taglia fiamminga con cuffia bianca e largo cappuccio nero calato, come ne portano ancora a Gand le beghine. L’ombra di quel copricapo riflettendosi nel crepuscolo sui vetri, gli dava la sensazione di trovarsi in un chiostro; gli evocava quei devoti e taciturni villaggi, quei morti quartieri, chiusi e celati in un angolo della città animata e in faccende.

Stabilì pure l’ora, che non doveva mutare, dei pasti. Erano del resto pasti semplici e quanto mai frugali; il suo stomaco era troppo malandato per consentirgli piatti grevi o variati.

D’inverno, alle cinque, appena giù il sole, sorbiva per colazione due ova e una tazza di tè con crostini: verso le undici pranzava; lungo la notte beveva caffè, a volte tè o vino; e prima di coricarsi, verso le cinque del mattino, piluccava qualcosetta.

Prendeva i suoi pasti – che ad ogni inizio di stagione venivano fissati una volta per sempre in tutti i loro particolari – ad un tavolo al centro di una stanzetta, separata dallo studio da un corridoio imbottito, a chiusura ermetica, che non lasciava filtrare né rumori né odori in nessuno dei due ambienti cui serviva di passaggio.

Questa stanza da pranzo aveva l’aspetto d’una cabina di nave, col suo soffitto a volta munito di travi a semicerchio, con gli assiti e il pavimento d’abete d’America, la finestrella che si apriva nel rivestimento di legno come un oblò in un sabordo.

A somiglianza di quelle scatole giapponesi che rientrano le une nelle altre, questa stanza era compresa in una più grande: la stanza da pranzo propriamente detta, nel progetto dell’architetto. In questa, due finestre s’aprivano; una – ora invisibile – nascosta da un assito ribaltabile a volontà per dar aria all’una come all’altra stanza da pranzo; l’altra, visibile (trovandosi giusto in faccia all’oblò aperto nel legno), ma condannata; infatti il grande aquarium occupava tutto lo spazio compreso tra questo oblò e la vera finestra aperta nel vero muro. La luce traversava quindi, per arrivare alla cabina, la finestra – i cui vetri erano stati sostituiti da uno specchio senza stagnola – l’acqua e finalmente il vetro fisso del sabordo.

D’autunno, quando il bricco del tè fumava sulla tavola, nel momento che il sole stava per sparire, l’acqua dell’acquario, lungo tutta la mattina vitrea e torbida, s’arrossava e filtrava sulle bionde paratie riflessi di brace.

A volte, nel pomeriggio, se per caso era sveglio e in piedi, Des Esseintes faceva agire il congegno di condotti e tubi di scarico che vuotavano l’acquario e vi rinnovava l’acqua. Nell’acqua limpida faceva versare una, due gocce d’essenze colorate; si godeva così, senza scomodarsi, i toni verdi o salmastri, opalini od argentati che assumono i fiumi in natura a seconda del colore del cielo, del sole più o meno vivo, della minaccia di pioggia più o meno imminente; a seconda insomma della stagione e dello stato dell’aria.

S’immaginava allora d’essere su un brigantino, sottocoperta; e incuriosito osservava dei meravigliosi pesci meccanici, caricati come orologi, passare davanti al vetro del sabordo, impigliarsi in finte erbe; oppure, respirare l’odor di catrame immesso nella stanza prima che lui entrasse, esaminava delle stampe a colori appese al muro, quali se ne vedono nelle agenzie dei piroscafi e dei Lloyd, rappresentanti dei vapori in rotta per Valparaiso o per la Plata; e delle tabelle incorniciate, recanti l’itinerario della linea del Royal mail steam Packet, delle compagnie Lopez e Valéry, i noli e gli scali dei servizi postali dell’Atlantico.

Quand’era stanco di questo passatempo, riposava gli occhi sui cronometri e le bussole, i sestanti ed i compassi, i binoccoli e le carte sparpagliate su un tavolo. Sopra il tavolo, un solo libro, rilegato in pelle di foca: le Avventure d’Arthur Gordon Pym, in esemplare stampato appositamente per lui, su carta vergata puro filo, scelta foglio per foglio, con un gabbiano in filigrana.

Né mancavano canne da pesca, reti scurite dalla concia, rotoli di vele rosse, una minuscola ancora di sughero, intonacata di nero: il tutto gettato alla rinfusa presso la porta che comunicava con la cucina per un corridoio, imbottito anche questo e che come l’altro smaltiva in sé odori e rumori.

Così, senza muoversi di dov’era, senza fare un passo, Des Esseintes compendiava in un minuto, in meno ancora, le sensazioni che gli avrebbe dato un lungo viaggio di mare. Il piacere di spostarsi, questo piacere che non esiste insomma che grazie al ricordo e quasi mai nel presente, nell’atto del viaggio, egli lo godeva in pieno, a suo agio, senza fatica, senza arrabattamenti, in quella cabina dal disordine voluto, dall’arredamento provvisorio, posticcio quasi, che s’accordava benissimo col poco tempo che vi restava, il tempo dei pasti; e che era invece in contrasto con lo studio: un ambiente, questo, definitivo, ordinato, stabile, fornito del necessario per vivervi a lungo in pantofole.

Muoversi gli pareva del resto inutile se la fantasia può, come stimava, facilmente supplire alla plebea realtà dei fatti.

A suo avviso, era possibile appagare i desideri ritenuti nella vita normale più difficili ad esaudire; e ciò grazie ad un piccolo sotterfugio: falsificando d’un niente l’oggetto del desiderio.

Nei ristoranti rinomati per le loro cantine il buongustaio, ad esempio, non si estasia centellinandosi vini di marca, ottenuti con vinelli qualunque trattati col procedimento di Pasteur? Ora, questo vino sofisticato ha lo stesso aroma, lo stesso colore, la stessa fragranza dell’autentico; e di conseguenza il piacere che si prova gustandolo, nulla ha da invidiare a quello che si proverebbe bevendo il vino ch’esso imita e che neanche a prezzo d’oro sarebbe possibile procurarsi.

Applichiamo questo capzioso scarto, questa sottile menzogna alle cose dell’intelletto. Nessun dubbio che si possa altrettanto facilmente godere chimeriche gioie, simili in tutto alle vere; nessun dubbio, ad esempio, che si possano compiere lunghissimi viaggi standosene nel cantuccio del fuoco: basterà, occorrendo, stimolare la fantasia pigra o restìa con la suggestiva lettura di lontani viaggi. Come non v’ha dubbio che si può, senza allontanarsi da Parigi, procurarsi la ristorante sensazione d’un bagno di mare: non c’è che recarsi al bagno Vigier, sito su un battello in piena Senna.

Ivi, salando l’acqua della propria vasca e mescendovi, come insegna il ricettario, solfato di soda, idroclorato di magnesia e calcio; aspirando l’odor di mare d’un pezzetto di gomena o d’un gomitolo di lenza come se ne possono trovare, impregnati ancora di salino (che s’avrà avuto cura di non lasciar svaporare) nei magazzeni e nei sottosuoli, odoranti di porto e di marea, delle ben fornite corderie; concentrandosi nella contemplazione d’una riuscita fotografia dello stabilimento balneare dove si vorrebbe essere, e commentandosela con l’avida lettura della guida Joanne, laddove descrive gli incanti di quella spiaggia; lasciandosi quindi cullare dalle onde che suscita, nell’acqua in cui si è immersi, il risucchio dei vaporetti che rasentano il pontone; tenendo infine l’orecchio ai lagni del vento che a due passi da voi, sul vostro capo, s’ingolfa sotto le arcate del Pont Royal ed al sordo traino degli omnibus che lo scuotono, l’illusione che s’ha del mare è innegabile, prepotente, da giurarvi su.

Tutto sta saper fare, saper concentrare l’attenzione su un unico punto; sapersi astrarre abbastanza da produrre l’allucinazione e da sostituire alla realtà reale la realtà fantasticata.

L’artifizio del resto Des Esseintes lo considerava il segno distintivo del genio. Per dirla con le sue parole, la natura ha fatto il suo tempo: essa ha per sempre stancato con la stucchevole monotonia dei suoi paesaggi e cieli la pazienza e l’aspettativa dei raffinati.

A ben pensarci, che trivialità d’operaia specializzata, la sua! d’operaia che non vede al di là di ciò che sa fare! che grettezza di piccola bottegaia, che tiene un solo articolo ad esclusione di tutti gli altri! Il suo, che monotono emporio di alberi e prati! che banale spaccio di mari e montagne!

Non c’è d’altronde una sola delle sue trovate – e prendi pure la più sottile o la più imponente – che il genio dell’uomo non possa emulare; nessuna foresta di Fontainebleau, nessun chiaro di luna che scenari inondati da fasci di luce elettrica non creino; nessuna cascata che l’idraulica non sappia imitare da farla scambiare per vera; nessuna roccia che la cartapesta non rifaccia; nessun fiore che un po’ di cartavelina a colori e la delicatezza di certi taffetà non imitino alla perfezione.

Non c’è dubbio: questa sempiterna barbogia ha ormai stancato la sempliciotta ammirazione dei veri artisti; e il tempo è venuto di soppiantarla, sin dove si potrà, con l’artifizio.

E poi, a ben considerare, quella fra le sue opere che è stimata la più squisita, quella delle sue creazioni che, per universale consenso, è la più perfetta e originale, la donna, non ha forse l’uomo, a sua volta, messo al mondo da sé solo una creatura viva e fittizia che come bellezza plastica, nulla ha da invidiare alla donna?

Esiste forse quaggiù un essere concepito nelle gioie della fornicazione ed uscito dalle doglie di una matrice, il cui modello sia più abbagliante, più perfetto delle due locomotive in servizio sulle ferrovie del Nord?

L’una, la Crampton, un’adorabile bionda dalla voce squillante, dalla taglia imponente e delicata imprigionata in uno scintillante busto di rame, dalle mosse elastiche e nervose di gatta; una bionda azzimata e dorata, d’una straordinaria grazia, d’una grazia che incute spavento allorché, irrigidendo i muscoli d’acciaio, grondando dai caldi fianchi sudore, mette in moto l’immenso rosone della snella ruota e, prepotente di vita, s’avventa in testa alle rapide e alle maree.

L’altra, la Engerth, una maestosa e fosca bruna, dal grido sordo e rauco, dalle reni possenti prese in una corazza di ghisa; mostruoso animale dalla criniera scarmigliata di negro fumo, che poggia su sei tozze coppie di ruote, quale tremenda forza sviluppa, allorché, facendo tremare la terra, rimorchia, greve e massiccia, il pesante codazzo delle sue mercanzie!

Indarno cerchereste tra le fragili beltà bionde e le maestose beltà brune, tipi di delicata sveltezza e di terrificante forza che reggano al confronto. Senza tema di smentita, lo si può proclamare: nel suo genere l’uomo non è riuscito men bene del Dio nel quale crede.

A Des Esseintes veniva di fare questa riflessione quando la brezza recava sino a lui il fischio sfiatato della minuscola ferrovia che gioca a trottola tra Sceaux e Parigi. La sua casa distava una ventina di minuti dalla stazione di Fontenay; ma s’inerpicava così in alto ed era così isolata che non le giungeva il chiasso della sconcia folla che immancabilmente richiama alla domenica la vicinanza d’una stazione.

Quanto al villaggio, appena lo conosceva. Una notte aveva contemplato dalla finestra il silenzioso paesaggio che si spalanca in discesa sino al piede d’una collina, sulla cui sommità si rizzano le batterie del bosco di Verrières.

Nell’oscurità, a dritta e a manca, masse confuse digradavano, dominate in lontananza da altre batterie e da altri forti; sotto la cupezza del cielo, le loro alte scarpate, parevano, al chiar di luna, scialbate a guazzo d’argento.

Accorciata dall’ombra che proiettavano le colline, la pianura si sarebbe detta, al centro, infarinata d’amido e spalmata di cold-cream. Nell’aria tiepida, che ventilava l’erba stinta e diffondeva un dozzinale odor di spezie, gli alberi, ingessati di luna, arruffavano il pallido fogliame e si sdoppiavano, sbarrando di neri solchi con l’ombra dei loro tronchi il suolo di biacca, dove strati di ghiaia mettevano un lucore di stoviglie in frantumi.

Così artefatto e truccato, il paesaggio non dispiaceva a Des Esseintes. Ma di giorno nelle strade dell’abitato egli non aveva più messo piede, dal pomeriggio che vi aveva passato in cerca di casa.

La vegetazione del luogo non presentava del resto ai suoi occhi alcun interesse, non offrendo neppure la dolente, delicata attrattiva che esercita la vegetazione malaticcia dei dintorni di Parigi, quando spunta a fatica tra le macerie all’ombra dei bastioni.

Senza dire che, quel pomeriggio, nel villaggio aveva fatto a tempo a vedere dei borghesi con pancia e fedine e dei personaggi in uniforme con tanto di mustacchi, i quali portavano a spasso, con la compunzione con cui si reca il Santissimo, grinte di funzionari e di militari: ciò che aveva accresciuto ancora, se possibile, il suo orrore per la faccia umana.

Negli ultimi giorni del suo soggiorno parigino, quando, disgustato di tutto, torturato dall’ipocondria, in preda al più nero pessimismo, era giunto a tale eccitabilità di nervi che la vista di un oggetto o d’un essere che lo urtasse gli si stampava profondamente nel cervello ed occorrevano parecchi giorni perché la spiacevole impressione si attenuasse – rasentare il suo simile per via era diventato uno dei peggiori supplizi.

Soffriva fisicamente alla vista di certe fisionomie; prendeva quasi per un insulto personale l’espressione arcigna o paterna di certi visi; sentiva la voglia di schiaffeggiare il signore a spasso che socchiudeva gli occhi con aria saputa, quell’altro che si dondolava sorridendo alla sua immagine nella vetrina; quell’altro che pareva curvare il capo sotto il pondo di chi sa quali cognizioni e, così corrucciato, divorava pasticcini e cronaca spicciola di giornali.

Fiutava in essi una stupidità così inveterata, una tale avversione per le sue idee, un così massiccio disprezzo per la letteratura, l’arte, per tutto ciò ch’egli adorava – avversione e sprezzo radicati nei loro angusti cervelli di mercanti, unicamente preoccupati di carpire e d’ammucchiar denaro, curiosi solo di politica, questo basso svago dei mediocri – che rincasava furente e si chiudeva a chiave coi suoi libri.

Infine e con tutte le forze odiava le generazioni che venivano su; questi vivai di cialtroni che in trattoria ed al caffè sentono il bisogno di parlare e rider forte, sui marciapiedi ti spintonano senza chieder scusa; che senza chieder scusa e senza salutare ti cacciano tra i piedi la carrozzella con dentro il marmocchio.

III

Parte delle scansie che rivestivano le pareti dello studio blu e arancio, erano riservate a quella letteratura latina che i cervelli mortificati dalle Sorbone, pappagallescamente designano sotto il nome generico: «la decadenza».

Ché il latino, come lo si scrisse nel secolo che i professori si ostinano tuttora a chiamare il secolo d’oro, non lo attirava granché. Quella lingua ristretta, dai giri di frasi contati, pressoché invariabili; irrigidita nella sua sintassi, senza colore né sfumature; quella lingua lisa in ogni costura, accuratamente potata delle espressioni meno corrette ma a volte quanto mai efficaci delle età precedenti; poteva a rigore enunciare le pompose banalità, i vaghi luoghi comuni che rimasticavano retori e poeti; ma emanava un tale disinteresse, un tale tedio che per trovare un’altra lingua altrettanto mortificata di proposito, altrettanto solennemente grigia e massacrante, il filologo doveva scendere sino allo stile francese del secolo di Luigi XIV.

Fra tutti, l’ineffabile Virgilio, colui che i prefetti di camerata chiamano il cigno di Mantova – evidentemente perché non è nato in tale città – gli appariva non solo uno dei più esosi pedanti, ma anche uno dei più sinistri rompiscatole che l’antichità abbia mai prodotto. I suoi pastori, usciti pur mo’ dal bagno ed azzimati di tutto punto, che si scaricano a vicenda sul capo filastrocche di versi sentenziosi e gelati; il suo Orfeo ch’egli paragona a un usignolo in lagrime; il suo Aristeo che piagnucola per delle api; il suo Enea, questo personaggio indeciso e ondeggiante che si muove come un’ombra cinese, con mosse di marionetta, dietro il trasparente malfermo e male oliato del poema, lo mettevano fuori dei gangheri.

E ancora, egli sarebbe passato sopra alle noiose scemenze che quei burattini si scambiano a vuoto; avrebbe chiuso un occhio sugli impudenti plagi di cui fan le spese Omero, Teocrito, Ennio, Lucrezio; sul furto bell’e buono, di cui ci informa Macrobio, costituito dal secondo libro dell’Eneide, copiato si può dire parola per parola da un poema di Pisandro; su tutta insomma la indicibile vuotaggine di quel centone di canti; ma ciò cui non poteva passar sopra era la fattura di quegli esametri che rendon suono di latta, di fiasca di latta vuota; che alternano le lunghe e le brevi di parole pesate a chilo secondo l’immutabile schema d’una prosodia arida e pedante; l’ordito di quei versi rasposi e burbanzosi, nella loro tenuta ufficiale, nella loro bassa soggezione alla grammatica; di quei versi meccanicamente spezzati da un’impassibile cesura, turati in coda sempre allo stesso modo dall’inciampare d’un dattilo in uno spondeo.

Tolta in prestito alla perfezionata officina di Catullo, quella invariabile metrica, senza fantasia, senza discrezione, impinzata di parole inutili, di zeppe, di appigli sempre eguali e previsti; quella miseria dell’epiteto omerico che torna ogni momento e non dice nulla, non evoca nulla; tutto quell’indigente vocabolario sordo e piatto, lo mettevano alla tortura.

Ma se la sua ammirazione per Virgilio era delle meno calorose e dei più modesti e sordi il fascino che esercitavano su lui le evidenti cacate di Ovidio, una sconfinata avversione provava per le grazie elefantesche di Orazio, per il balbettìo di questo insopportabile centochili che fa lo smorfioso con lazzi di vecchio saltimbanco infarinato.

Nella prosa la verbosità, le ridondanti metafore, le gratuite disgressioni del Cece, non lo allettavano di più. La jattanza delle sue apostrofi, l’alluvione di luoghi comuni patriottici, l’enfasi delle sue concioni, la greve compattezza del suo stile carnoso, ben nutrito ma degenerato in grasso, privo d’osso e di midolla; le intollerabili scorie degli avverbi sesquipedali coi quali apre le frasi, l’inalterabile schema su cui son calcati i suoi adiposi periodi, mal cuciti insieme dal filo delle congiunzioni; infine il tedioso vezzo della tautologia, lo seducevano mediocremente. Né molto di più di Cicerone lo entusiasmava Cesare, famoso pel suo laconismo; perché l’eccesso contrario diventava in questo aridità da caporalmaggiore, secchezza da appunto, stitichezza incredibile e sconveniente.

Tirate le somme, non trovava di che pascersi né in questi né in quegli altri scrittori che pure fan la delizia dei falsi letterati: Sallustio, ancorché meno sbiadito degli altri; Tito Livio, patetico e pomposo; Seneca, turgido e scialbo; Svetonio, linfatico ed embrionale; Tacito, il più nerboruto tuttavia nella sua voluta concisione, il più aspro, il più muscoloso di tutti costoro.

In poesia, lo lasciavano freddo Giovenale, nonostante qualche verso ben battuto; quanto Persio, nonostante le sue oscure allusioni. Trascurando Tibullo e Properzio, Quintiliano e i due Plinio, Stazio, Marziale di Bilbili, lo stesso Terenzio e Plauto (di Plauto gli sarebbe piaciuto il gergo pieno di neologismi, di parole composte, di diminutivi; ma lo torturava la sua comicità plebea, il suo sale grosso di cucina); Des Esseintes cominciava ad interessarsi con Lucano. Con Lucano il latino si liberava delle sue pastoie, diventava meno mortificato, più espressivo. Quell’armatura cesellata, quei versi smaltati, ingioiellati se lo cattivavano; ma la preoccupazione esclusiva della forma, quelle sonorità verbali, quegli squilli di metallo non riuscivano a celargli del tutto il vuoto del pensiero, le ampollosità che seminano di tumori la superficie della Farsalia.

L’autore che amava davvero, che gli faceva bandire per sempre dalle sue letture le roboanti tirate di Lucano, era Petronio.

Eccolo finalmente un acuto osservatore, un fine analista, un pittore meraviglioso. Tranquillamente, senza partito preso, senza animosità di sorta, Petronio descriveva la vita d’ogni giorno a Roma, fermava nei vivaci corti capitoli del Satyricon i costumi del tempo.

Annotando via via i fatti, consegnandoli in una forma definitiva, egli faceva passare sotto gli occhi del lettore la minuta vita del popolo con le sue peripezie, le sue bestialità, le sue foie.

Qui è l’ispettore alle locande che viene a chiedere il nome dei viaggiatori ultimi arrivati. Là, lupanari dove i clienti girano intorno a donne nude che si esibiscono in piedi tra cartelli; mentre per gli usci mal chiusi delle stanze si intravedono coppie sollazzarsi. Là ancora, in ville d’un lusso sfacciato, d’una ricchezza e d’un fasto pazzeschi, o in miserabili taverne che si susseguono coi vivai di piattole dei loro giacigli a cinghia disfatti, s’agita la società del suo tempo. Osceni marioli, quali Ascilto ed Eumolpo, in busca d’una buona bazza; vecchi sporcaccioni dalla veste rimboccata, le guance intonacate di cerussa e rossetto; gitoni sedicenni, paffuti e riccioluti; donne in preda ad attacchi isterici; genitori a caccia di eredità nell’atto di offrire figli e figlie alle voglie dei testatori; tutti passano schizzati nelle pagine, si vedono discorrere per le vie, palpeggiarsi nei bagni, caricarsi di botte come in una pantomima.

E tutto questo, raccontato in uno stile d’un colorato preciso, d’un brio indiavolato; in una lingua che attinge a tutti i dialetti, toglie in prestito modi di dire a tutti gli idiomi portati a spasso per Roma; in una sintassi che non conosce barriere, sciolta dalle pastoie del cosidetto secolo d’oro, e che fa parlare a ciascuno il suo idioma: ai rozzi liberti, il latino plebeo, il gergo della strada; agli stranieri il loro dialetto barbarico, imbastardito d’africano, di sirio e di greco; ai pedanti imbecilli, come l’Agamennone del libro, un retoricume di parole posticce. Tutti questi personaggi sono schizzati d’un solo tratto di penna, mentre, abbruttiti intorno ad una tavola, scambiano sceme frasi da ubbriachi, spacciano massime barboge, insulsi proverbi, il grugno volto verso Trimalcione che si stuzzica i denti, offre orinali ai convitati, li intrattiene sullo stato del suo ventre e dei suoi intestini, li invita a mettersi a lor agio.

Questo romanzo verista, questa fetta di vita romana tagliata nel vivo, che non si preoccupa, checché si dica, né di riformare né di satireggiare i costumi; che fa a meno d’una conclusione e d’una morale; questa storia senza intreccio, dove non succede nulla, che mette in scena le avventure della selvaggina di Sodoma; che analizza con imperturbabile acutezza gioie e dolori di codesti amori e di codeste coppie; che, senza che l’autore faccia mai capolino, senza che si lasci andare a un solo commento, senza che approvi o maledica gli atti o i pensieri dei suoi personaggi, dipinge in una lingua da orafo i vizi d’una civiltà decrepita, d’un impero che si va sfasciando – conquideva Des Esseintes, il quale nella raffinatezza dello stile, nell’acutezza dell’osservazione, nel fermo piglio con cui la narrazione veniva condotta, intravvedeva singolari parentele, curiose analogie con i pochi romanzi del tempo suo che non gli dispiacevano.

Inutile aggiungere ch’egli rimpiangeva amaramente l’irrimediabile perdita delle altre due opere di Petronio, menzionate da Planciade Fulgenzio; l’Eustion e l’Albutia; ma di quella perdita consolava il letterato il bibliofilo che era in lui, e che del Satyricon poteva religiosamente maneggiare la splendida edizione di sua proprietà: l’in-ottavo, recante il millesimo 1585 e il nome di J. Dousa, stampatore a Leyda.

A partire da Petronio, s’entrava nel secondo secolo dell’era cristiana.

La collezione saltava Frontone, il declamatore dal vocabolario antiquato, malamente rabberciato e rinverniciato; scavalcava le Notti attiche di Aulo Gellio, discepolo di Frontone e amico suo: mente sagace e indagatrice, ma, come scrittore, impegolato in una melma attaccaticcia; e sostava davanti ad Apuleio, presentato nell’edizione principe, in-folio, stampata a Roma nel 1469.

Questo africano gli richiamava in volto il sorriso.

Nelle sue Metamorfosi il latino raggiungeva la pienezza: travolgeva seco limi, acque diverse, affluite da tutte le provincie; e tutte si mescevano, si confondevano in una tinta bizzarra, esotica, quasi nuova. Vezzi, particolari nuovi della società latina trovavano la loro piena espressione in neologismi scaturiti, in quell’angolo d’Africa romano, dalle necessità della conversazione.

Inoltre lo divertiva quella sua esuberanza d’uomo evidentemente pingue, quella sua esuberanza meridionale. Apuleio gli appariva così come un gaio e salace mattacchione vicino agli apologisti cristiani che fiorivano nello stesso suo secolo: il soporifero Minucio Felice, un falso classico che spaccia nel suo Octavius le emulsioni, inspessite ancora, di Cicerone; nonché lo stesso Tertulliano, che probabilmente Des Esseintes conservava più per l’edizione aldina che per l’opera in sé.

Sebbene fosse ferrato in teologia, le dispute dei montanisti contro la Chiesa cattolica, le polemiche sulla gnosi, lo lasciavano freddo; dimodoché, sebbene di Tertulliano lo interessasse lo stile – uno stile conciso, pieno di anfibologie, che si regge sui participi, scoppietta di antitesi, gremito di giochi di parole e di frizzi, screziato di vocaboli pescati nel giure e nella lingua dei Padri della Chiesa – non apriva quasi più l’Apologetico né il Trattato sulla Pazienza; tutt’al più scorreva qualche pagina di quel De cultu feminarum dove l’autore scongiura le -donne di non pararsi di gioielli e di stoffe preziose ed interdice loro l’uso dei cosmetici perché s’arrogano di emendare la natura e di abbellirla.

Queste idee, diametralmente opposte alle sue, lo facevano sorridere. Aggiungi che la parte sostenuta da Tertulliano come vescovo di Cartagine, gli pareva dar materia a divertenti riflessioni. Più dell’opera, era l’uomo che lo attirava.

Sebbene infatti vivesse in tempi procellosi, agitati da paurosi torbidi, sotto Caracalla, sotto Macrino, sotto lo stupefacente Pontefice di Emesa, Elagabal, egli preparava imperterrito i suoi sermoni, gli scritti di dogmatica, le difese, le omelie, intanto che l’impero romano vacillava dalle fondamenta, mentre le follie dell’Asia, le sozzure del paganesimo scorrevano come fiume in piena. Raccomandava con la maggiore serietà l’astinenza carnale, la frugalità nel cibo, la modestia nel vestire, mentre, incedendo su polvere d’argento e sabbia d’oro, cinto di tiara il capo, i paludamenti tempestati di gemme, Elagabal accudiva nel cerchio dei suoi eunuchi a lavori donneschi; si faceva chiamare Imperatrice e mutava ogni notte di Imperatore, eleggendoselo di preferenza tra i barbitonsori, i rovinasalse ed i cocchieri di circo.

Questo contrasto estasiava Des Esseintes. Aggiungi che il latino, giunto con Petronio all’apice della perfezione, cominciava a corrompersi; la letteratura cristiana, imponendosi, introduceva con le nuove idee nuove parole, costrutti inusitati, verbi sconosciuti, aggettivi di senso lambiccato, vocaboli astratti: rari sin allora nella lingua romana, e che Tertulliano era stato il primo ad adottare.

Senonché questo processo di deliquescenza, proseguito dopo la morte di Tertulliano dal suo discepolo San Cipriano, da Arnobio, dal pesante e goffo Lattanzio, era senza attrattiva. Era un infrollirsi lento e parziale con sgraziati ritorni all’enfasi ciceroniana; cui mancava ancor quel particolare sentore che nel IV secolo e soprattutto nei secoli che gli seguiranno il cristianesimo comunicherà alla lingua pagana, ormai corrotta come selvaggina; e che si sbriciolerà via via che s’andrà sgretolando la civiltà del vecchio mondo, via via che crolleranno sotto l’urto dei Barbari gli Imperi putrefatti dalla sanie dei secoli.

Un solo poeta cristiano, Commodiano di Gaza, rappresentava nella biblioteca l’arte del terzo secolo. Il suo Carmen apologeticum, scritto nel 259, è una raccolta di precetti, torti in acrostico, composto in esametri popolareschi messi insieme senza badare alla quantità e lo hiatus ed accompagnati sovente di rime; di quelle rime di cui il latino chiesastico darà in seguito numerosi esempi.

Quei versi stentati, cupi, che san di selvatico, pieni di termini della parlata, di vocaboli distratti dal loro primiero significato, lo attiravano, lo interessavano anche più dello stile mézzo e già frollo degli storici Ammiano Marcellino e Aurelio Vittore, dell’epistolografo Simmaco e del compilatore e grammatico Macrobio; sinanco li preferiva agli autentici versi scanditi, alla lingua screziata e superba che parlarono Claudiano, Rutilio e Ausonio.

Eran questi allora i maestri, i cui gridi riempivano l’Impero agonizzante: il cristiano Ausonio, col suo Centone Nuziale e coll’esuberante e fastoso poema La Mosella; Rutilio, coi suoi inni alla gloria di Roma, gli anatemi contro monaci e giudei, col suo viaggio dall’Italia alla Gallia in cui riesce a rendere mirabilmente certe sensazioni ottiche: l’incertezza dei paesaggi riflessi nell’acqua, le morgane che crea il vapor acqueo, lo staccarsi dai monti e l’involarsi del nebbione che li avviluppava; Claudiano, una specie di reincarnazione di Lucano, che domina tutto il quarto secolo col clangore guerriero dei suoi versi; il fabbro d’un esametro smagliante e sonoro che tra un grande sprizzar di faville foggia d’un colpo di martello l’epiteto, animando l’opera d’un afflato possente, attingendo una specie di grandezza.

Nell’Impero d’Occidente, che sempre più si va sfasciando, nel cruento pantano dei massacri che si susseguono incessanti intorno a lui, nella perenne minaccia dei Barbari che si pigiano ormai in folla alle porte dell’Impero e ne fan scricchiolare i cardini, Claudiano resuscita l’antichità, canta il ratto di Proserpina, sfida il tempo con lo smagliare dei suoi colori, passa con tutti i suoi fuochi accesi nel buio che inghiotte il mondo.

Torna con lui il paganesimo a suonare la sua ultima fanfara; alza in lui il suo ultimo grande poeta al disopra del Cristianesimo, che sommergerà d’ora in poi completamente la lingua e che, per sempre ormai, resterà unico maestro d’arte: con Paolino, allievo d’Ausonio; col prete spagnolo Juvenco che parafrasa in versi l’Evangelo; con Vittorino, l’autore dei Maccabei; Sanctus Burdigalensis che in un’ecloga, imitata da Virgilio, fa lamentare ai pastori Egone e Bucolo le malattie dei loro greggi; con tutta la serie dei Santi: Ilario di Poitiers, il difensore della fede di Nicea, l’Atanasio dell’Occidente come vien chiamato; Ambrogio, autore d’indigeste omelie, tedioso Cicerone cristiano; Damaso, il fabbricante di epigrammi lapidari; Gerolamo, il traduttore della Vulgata ed il suo avversario Vigilanzio di Comminges, che se la prende col culto dei santi, l’abuso dei miracoli, i digiuni; e che già predica, con argomenti che i secoli riprenderanno da lui, contro i voti monastici ed il celibato dei preti.

Infine, nel quinto secolo, Agostino, vescovo di Ippona.

Questo, Des Esseintes non lo conosceva che troppo: non era lo scrittore più apprezzato della Chiesa, il fondatore dell’ortodossia cristiana, colui che i cattolici tengono in conto di oracolo, di maestro dei maestri?

Sicché non lo apriva più, sebbene nelle Confessioni avesse cantato il fastidio del mondo e sebbene nella Città di Dio la sua gemebonda devozione avesse cercato d’alleviare con la cullante prospettiva di destini migliori la paurosa angoscia del tempo. Bazzicava ancora la teologia, che già Des Esseintes era ristucco delle sue prediche e geremiadi, delle sue teorie sulla predestinazione e sulla grazia, delle sue polemiche contro gli Scismi.

Preferiva sfogliare la Psychomachia di Prudenzio, l’inventore del poema allegorico che doveva poi imperversare nel Medio Evo; e l’opera di Sidonio Apollinare, l’autore di quelle lettere che lo attiravano, lardellate com’erano di arguzie, di frecciate, d’arcaismi, di indovinelli. Con diletto si rileggeva i panegirici dove questo vescovo per dar forza ai suoi vanitosi encomi, invoca le deità pagane; e, nonostante tutto, sentiva un debole per le affettazioni ed i sottintesi di quelle poesie, opera d’un ingegnoso operaio che ha cura della sua macchina, ne olia gli ingranaggi, ne inventa all’occorrenza di complicati e di inutili.

Dopo Sidonio, bazzicava ancora il panegirista Merobaude; Sedulio, autore di poemi rimati e d’inni abbecedari, di cui la Chiesa s’appropriò certe parti per i bisogni dei suoi offizi; Mario Vittore il cui tenebroso trattato sulla Pravità dei costumi s’illumina qua e là di slucciolii fosforescenti; Paolino di Pella, il poeta dell’infreddolito Eucharisticon; Orienzio, vescovo di Auch, che nei distici dei suoi Monitori scoppia in invettive contro la dissolutezza delle donne che col loro viso, afferma, mandano i popoli alla perdizione.

L’interesse che Des Esseintes portava alla lingua latina, non s’affievoliva neanche ora che, completamente putrefatta, essa penzolava, perdendo membro a membro, colando marcia; neanche ora che da tanta corruzione restavano illese poche parti che gli scrittori cristiani staccavan via per marinarle nella salamoja della loro nuova lingua.

La seconda metà del quinto secolo era venuta; l’epoca spaventosa in cui la terra sembrò vacillare sulle sue fondamenta. I Barbari saccheggiavano la Gallia; Roma paralizzata, messa a ferro e fuoco dai Visigoti, avvertiva il gelo della fine; vedeva le sue più lontane provincie, l’Oriente e l’Occidente, dibattersi nel sangue, ogni giorno più esaurirsi.

In mezzo allo sfacelo generale, mentre uno dopo l’altro i Cesari cadevano assassinati, fra gli urli che s’alzavano dalle carneficine di cui l’Europa da un capo all’altro s’insanguinava, più forte d’ogni voce, dominando ogni clamore, un urrà raccapricciante echeggiò. Sulla riva del Danubio, migliaia d’uomini, piantati su piccoli cavalli, avviluppati in casacche fatte di pelli di topo, dei Tartari orrendi, con enormi teste, nasi schiacciati, menti scavati da sfregi e cicatrici, glabre facce di itterici, si precipitano ventre a terra, circondano d’un turbine le terre dei Bassi Imperi.

Tutto sparì nella polvere che il loro galoppo sollevava, nel fumo degli incendi. La notte si fece; ed i popoli interroriti tremarono udendo passare col rombo d’un tuono il ciclone devastatore. L’orda degli Unni spianò l’Europa, irruppe nella Gallia, dove nelle piane di Châlons Ezio la macellò in una memorabile carica. La pianura, imbevuta di sangue, schiumò come un mare di porpora. Duecentomila cadaveri, sbarrando la strada, infransero l’impeto di quella valanga, che, deviata, precipitò con schianti di folgore sull’Italia, dove le città messe a sacco arsero come mucchi di fieno.

All’urto, l’Impero d’Occidente crollò; la vita di moribondo che trascinava nell’imbecillità e nel lordume si spense. La fine del mondo pareva del resto vicina: le città risparmiate da Attila, le decimava la fame e la peste. Il latino sembrò restar schiacciato pur lui sotto le macerie del mondo.

Anni trascorsero; gli idiomi barbarici cominciarono a cristallizzarsi, ad uscire dalla loro ganga, a formare dei veri linguaggi. Il latino, salvato nello sfacelo dai chiostri, si confinò nei conventi e nelle parrocchie. Qua e là, qualche poeta fiorì, tardo e freddo: l’africano Draconzio col suo Hexameron; Claudio Mamert, coi canti liturgici; Avito di Vienna; poi dei biografi, come Ennodio che narra i prodigi di Sant’Epifanio, il venerato e perspicace diplomatico, il probo e vigilante pastore; come Eugippo, che ci racconta l’incomparabile vita di San Severino, questo misterioso eremita, quest’umile asceta, apparso quale un angelo di misericordia ai popoli in pianto, impazziti di terrore e di patimenti; scrittori come Veranio del Gévaudan, che lasciò un trattatello sulla castimonia; come Aureliano e Ferreolo che compilarono cànoni ecclesiastici; storici come Roterio d’Agde, famoso per una storia, che andò perduta, degli Unni.

Rare si facevano nella biblioteca di Des Esseintes le opere dei secoli che seguirono. Il secolo sesto v’era tuttavia rappresentato da Fortunat, vescovo di Poitiers: i suoi inni ed i Vexilla regis, ricavati nel corpo decomposto della lingua latina, drogati dagli aromati della Chiesa, certi giorni lo calamitavano; da Boezio, il vecchio Gregorio di Tours e Jornandès. Poi, per i secoli settimo e ottavo, dove – se si eccettua il basso latino dei cronisti, dei Fredegario e dei Paolo Diacono e quello delle poesie accolte nell’antifonario di Bangor (di questo, egli ridava qualche volta un’occhiata all’inno alfabetico e monorime cantato in onore di San Comgill) – la letteratura si rifugia quasi unicamente nelle biografie dei santi, nella leggenda di San Colombano scritta dal cenobita Jonas, in quella del beato Cuthbert, stesa da Beda il Venerabile, sulla scorta degli appunti d’un monaco anonimo di Lindisfarn; – Des Esseintes si limitava a sfogliare nei momenti di noia l’opera di questi agiografi, a rileggere qualche brano della vita di Santa Rusticola e di Santa Redegonda, dovuta la prima a Defensorio, sinodita di Ligurgé, l’altra alla modesta e ingenua Baudonivia, monaca di Poitiers.

Ma lo allettavano di più le curiose opere della letteratura Anglosassone in latino: era tutta la serie degli enimmi di Adelmo, di Tatwine, d’Eusebio, questi discendenti di Sinfosio; e soprattutto gli enimmi composti da San Bonifacio in strofe acrostiche dove la soluzione era data dalle iniziali dei versi.

Col finire di questi due secoli, l’interesse di Des Esseintes scemava. Poco entusiasta insomma dei pesanti e numerosi scrittori in latino carolingi, gli Alcuni e gli Eginardo, si contentava, quando voleva assaggiare la lingua del nono secolo, delle cronache dell’anonimo di Saint Gall, di Fréculfe e di Réginon; del poema sull’assedio di Parigi composto da Abbo il Curvo; dell’Hortulus, poema didascalico del benedettino Walafrid Strabo: il suo capitolo consacrato alla gloria della zucca, simbolo di fecondità, lo esilarava; del poema di Ernoldo il Nero, celebrante le gesta di Luigi il Bonario: poema scritto in esametri regolari, in uno stile austero, quasi tetro, in un latino di ferro temprato in acque conventuali, non senza qua e là nella durezza del metallo falle di sentimento; del De viribus herbarum, il poema di Macro Florido che lo divertiva specialmente per le sue ricette in versi e le mirabolanti virtù che l’autore prestava a certe piante, a certi fiori: all’aristolochia, verbigrazia, che mescolata a carne bovina e tenuta da un’incinta sul basso ventre la fa infallantemente sgravarsi d’un maschio; al decotto di borrana che spruzzato in una sala da pranzo, mette i commensali di buonumore; alla peonia, la sua radice triturata guarisce per sempre dall’epilessia; al finocchio: se una donna se lo pone in seno, le chiarifica le orine ed ovvia ai suoi ritardi mestruali.

A parte alcuni volumi d’un genere speciale, non catalogati, moderni o senza data; dei trattati di cabala, di medicina e di botanica; a parte alcuni tomi scompagnati della Patologia di Migne nei quali erano poesie cristiane introvabili, e l’antologia dei poeti minori latini di Wernsdorff; a parte il Meursius, il manuale classico di Forberg sull’erotologia, la moechialogia ed i diaconali ad uso dei confessori, che raramente gli accadeva di spolverare; la sua biblioteca latina s’arrestava all’inizio del decimo secolo.

A questo punto infatti il latino cristiano perdeva la sua complicata ingenuità ed insieme ogni interesse. D’ora in poi invaderebbe il campo la grigia confusa folla dei filosofi e degli scoliasti, inaugurando il regno della logomachia medioevale; inquinerebbero l’aria di fuliggine la cronaca e il libro storico; grevi come pani di piombo, sorgerebbero a cataste i cartularii.

Morta la balbettante grazia, la goffaggine a volte incantevole con cui i monaci allestivano pii intingoli con le reliquie poetiche dell’antichità; perite le officine di verbi dal senso sottile, di sostantivi odoranti d’incenso, d’aggettivi bizzarri, rozzamente cesellati nell’oro col gusto barbaro e affascinante dei gioielli goti.

Le vecchie edizioni che Des Esseintes amava tanto, finivano – e con un pauroso salto nel tempo, i libri che si schieravano ora sui palchetti, scavalcando a piè pari un intervallo di secoli, arrivavano di colpo alla letteratura francese dell’Ottocento.

IV

Un giorno verso sera una vettura si fermò davanti alla casa di Fontenay.

Siccome Des Esseintes non riceveva visite, e il postino nel suo giro non si avventurava neanche in quei paraggi disabitati, non avendo né riviste né giornali né lettere da recapitare, i domestici esitarono ad aprire; e solo al perentorio squillare del campanello, s’arrischiarono a far giocare lo spioncino della porta e videro un tizio corazzato dal mento alla cintola da un immenso scudo d’oro.

Avvertirono il padrone di casa che stava facendo colazione.

«Benissimo: fate salire». Ricordava infatti di aver dato il proprio indirizzo ad un lapidario per metterlo in grado di recapitargli un lavoro che gli aveva commissionato.

Introdotto, l’uomo salutò e depose sul pavimento lo scudo. Lo scudo oscillò, si sollevò un tantino; sporse di sott’esso il capo serpentino d’una testuggine che, spaurita, si ritrasse tosto nel suo guscio.

Era andata così. Qualche tempo prima di partire da Parigi, a Des Esseintes era venuto il ghiribizzo di possedere una tartaruga ed ecco come.

Un giorno che contemplava un tappeto orientale a riflessi e si faceva accarezzare gli occhi dai bagliori argentei che si propagavano per l’ordito giallo aladino e viola prugna della lana, s’era detto: – Su questo tappeto andrebbe bene qualche cosa di cupo che si movesse: la vivacità delle tinte se ne avvantaggerebbe.

Posseduto da questa idea, aveva vagato a caso per le vie; e giunto al Palais Royal, in vetrina da Chevet aveva visto ciò che faceva al caso suo: un’enorme testuggine che nuotava in una vasca.

A casa, aveva messo in libertà l’animale sul tappeto; e, seduto di contro, s’era indugiato a contemplarlo, strizzando l’occhio.

Ahimè: il marron scuro di quel guscio, la sua tonalità di terra di Siena cruda, sporcava, senza ravvivarli, i riflessi del tappeto; il lucore, che vi dominava, dell’argento scintillava adesso appena, arrampicandosi con toni freddi di zinco scalfito agli orli di quel coccio opaco e duro.

Così no. Come conciliare quel connubio? come ovviare al deciso divorzio di quei toni? Cercava.

Finalmente scoprì che la sua prima idea, d’attizzare la vivacità della stoffa col contrasto d’un oggetto scuro che vi tentennasse sopra, era errata; il tappeto era troppo vistoso, troppo petulante, troppo nuovo; i suoi colori non s’erano ancora smussati abbastanza, abbastanza attenuati.

Occorreva fare tutto il contrario: smorzar quei toni, spegnerli col contrasto d’un oggetto abbagliante che dominasse solo, riverberando sul pallore dell’argento riflessi d’oro.

Così impostato, il problema diveniva di più facile soluzione. Decise pertanto di rivestir d’oro la corazza della tartaruga.

Una volta che l’esperto, che l’aveva presa a pensione, l’ebbe riportata, la testuggine raggiò come un sole; sul tappeto che si arrese, sfolgorò, rutilante scudo visigoto, lavorato a squame embriciate da un artista barbarico.

Des Esseintes alla prima restò incantato dell’effetto. Poi s’avvide che il gigantesco gioiello era appena abbozzato; perché fosse perfetto, occorreva incastonarlo di gemme rare.

In una collezione di disegni giapponesi, uno ne scelse ove da un gambo da nulla si spiccava, a mo’ di razzo, uno sciame di fiori. Schizzò una cornice ovale che lo contenesse e si recò da un gioielliere; il quale trasecolò quando si sentì dire che ogni fiore, ogni petalo, ogni foglia andava eseguita in pietre preziose, incastrate nel guscio stesso dell’animale.

Le difficoltà cominciarono quando si trattò di scegliere le pietre. Diamanti? Ormai non c’è pizzicagnolo che non ne ostenti uno al mignolo.

Meno avviliti, lo smeraldo ed il rubino d’Oriente, che sprizza lampi d’un rosso brillante; senonché ricordavano troppo i fanaletti, verdi e rossi appunto, che certi omnibus recano ai lati. Quanto ai topazi, bruciati o crudi, sono pietre a buon mercato, care alla piccola borghesia che ci tiene a chiudere a chiave nell’armadio a specchi il suo bravo scrigno. D’altra parte, sebbene la Chiesa abbia conservato all’ametista un carattere sacerdotale, grave e untuoso insieme, il pararsene che ne fanno le macellaie, pur d’appendere senza troppa spesa alle orecchie color bistecca ed infilare ai salsicciotti delle dita gioie autentiche e che pesino, ha discreditato anche questa pietra.

Dalla stupidità dei commercianti e degli abbienti, solo lo zaffiro ha saputo serbare immacolato il suo fuoco. Il crepitare delle sue faville su un’acqua tersa e fredda, ha, chi sa come, preservato da ogni macchia la sua nobiltà discreta e altera. Ma purtroppo, alla luce artificiale il suo limpido fuoco non scoppietta più; l’acqua azzurra rientra in sé, pare cada in sonno, per risvegliarsi crepitando solo al primo accenno del giorno. No, nessuna di quelle pietre, d’altronde troppo civilizzate e troppo note, poteva accontentare Des Esseintes.

Si fece ruscellare tra le dita minerali più sorprendenti e più bizzarri; e finì per scegliere, tra vere e artificiali, una serie di pietre che, mescolate ad arte, non potevano a meno di creare un’armonia, fascinosa a un tempo e sconcertante.

Ecco come tradusse in gemme il mazzo di fiori. A formare le foglie vennero incastonate pietre d’un verde vivace e preciso: crisoberilli verde asparago, peridoti verde pera, olivelle verde oliva; e si staccarono da gambi di almadina e d’uvarovita d’un rosso violaceo pagliettato di pagliuzze d’uno splendore arido: lo splendore delle miche di tartaro che luccicano nell’interno delle botti.

Per i fiori più lontani dal gambo, più aerei, usò della cenere turchina; ma non già ricorrendo alla turchese d’oriente di cui si montano fermagli ed anelli e che, con la triviale perla e l’esoso corallo, fa la gioia del popolino.

Scelse esclusivamente turchesi d’occidente, pietre che sono, a dir vero, che una specie di avorio fossile impregnato di sostanze ramose ed il cui blu verdazzurro è ingorgato, opaco, solforoso; ingiallito, si direbbe, di bile.

Restavano ora da tradurre in gemme i fiori centrali del mazzo, i più vicini al gambo.

Ne incastonò i petali di minerali trasparenti, dai lucori vitrei e malaticci, dai riflessi agri e febbrosi. Compose quei fiori unicamente con occhi-di-gatto del Ceylon, con cimofani e zaffirine. Queste tre pietre sprizzano infatti scintillii misteriosi e perversi, con pena strappati dal fondo gelato della loro acqua torbida: l’occhio-di-gatto d’un grigio verdastro, striato di vene concentriche che parevano inquietarsi, spostarsi ad ogni variar di luce; il cimofano, dai marezzi azzurrini che si propagano sulla tinta lattiginosa che vi fluttua sotto; la zaffirina che, su un fondo cioccolato di un bruno sordo, accende fuochi di fosforo bluastri.

Il lapidario si notava il punto preciso ove ogni pietra andava incastrata.

«E per l’orlo del guscio?» chiese a Des Esseintes.

Per l’orlo, Des Esseintes aveva dapprima pensato a certi opali a certi idrofani; ma sebbene interessanti per l’indecisione del colore, per l’incertezza dei loro fuochi, queste pietre sono troppo insubordinate e infedeli. L’opale ha addirittura una sensibilità da reumatico: umidità e temperatura ne alterano lo splendore; l’idrofano poi, il nome lo dice, non arde che nell’acqua; quantomeno occorre umettarlo perché accenda la sua bragia grigia.

Si decise infine per minerali che verrebbero alternati: per il giacinto di Compostella, rosso acagiù; l’acquamarina, verde-glauca; il balascio, rosa aceto; il rubino di Sudermania, ardesia chiaro. Il loro tenue riflesso bastava a rischiarare la tetraggine del guscio e non toglieva spicco alla fioritura di gemme, ch’esso incorniciava d’una lieve ghirlanda di fuochi fatui.

Ora Des Esseintes poteva a suo agio guardarsi, rannicchiata in un angolo della stanza da pranzo la sua tartaruga, che in quell’ombra rutilava.

Si sentì felice, appagato: l’occhio s’inebriava in quel barbaglio di corolle in fiamma su un fondo d’oro. E poi, contro il solito, quel giorno si sentiva appetito e inzuppava crostini, spalmati d’un burro prelibato, in una chicchera di tè: perfetta miscela di Si-a-Fayuna, di Mo-yu-tann e di Khansky: tè gialli, che eccezionali carovane avevano importato in Russia dalla Cina.

Si centellinava il liquido aroma in maioliche cinesi, cui la leggerezza e la trasparenza meritava il nome di gusci d’ova; e come non ammetteva che quelle adorabili chicchere, così non si serviva di posate che non fossero d’argento dorato autentico; d’un dorato un po’ stinto come è quando già l’argento trapela un tantino sotto il liso della rivestitura e conferisce all’oro una tinta dolcemente antica: sfinitissima, morente.

Bevuto l’ultimo sorso e rientrato nello studio, vi fece portare la tartaruga che s’ostinava a non muoversi.

Nevicava. Alla luce delle lampade, una fioritura di gelo serpeggiava dietro i vetri bluastri; e nevischio, simile a zucchero candito, scintillava nei fondi di bottiglia, picchiettati d’oro.

Un profondo silenzio avviluppava la casetta immersa nella tenebra. Des Esseintes s’abbandonava alle sue fantasticherie.

Siccome la legna accatastata nel braciere faceva scottar l’aria, schiuse la finestra.

Come un arazzo picchiettatto di bianco il cielo si levò davanti al lui. Ma, glaciale, una ventata fece più fitta vorticar la neve; i colori si invertirono; l’arazzo araldico del cielo si rovesciò, divenne autentico ermellino, e quello che della notte tra fiocco e fiocco trasparì, lo punteggiò di nero.

S’affrettò a chiudere. Il passare di punto in bianco dal calor torrido della stanza al gelo dell’esterno, gli aveva dato un brivido. Si ranicchiò presso il fuoco e sentì il desiderio di buttar giù per riscaldarsi un sorso d’alcole. Passò in sala da pranzo e andò a un armadietto che s’apriva nella parete. Posando su travicelli di sandalo, vi si allineavano in bell’ordine tante botticelle, munite ciascuna d’un rubinetto d’argento. Des Esseintes chiamava quell’assortimento di liquori il suo organo a bocca. Un dispositivo permetteva d’aprire tutti i rubinetti insieme; bastava premere un bottone dissimulato nell’assito perché tutte le spine, voltate a tempo, riempissero i sottoposti bicchierini.

L’organo si trovava adesso aperto; i tiranti sui quali si leggeva: «flauto» «corno» «voce celeste» sporgevano, pronti all’uso.

Des Esseintes assaggiava qui una goccia, un’altra là; orchestrando entro di sé delle sinfonie, arrivava a procurarsi in gola sensazioni non diverse da quelle che all’orecchio dà la musica.

Non per niente egli stimava che ogni liquore corrisponde pel gusto al suono d’uno strumento. Il currasò secco, ad esempio, al clarinetto, dal canto acerbo e vellutato; il kummel, all’oboe sonoro e nasale; la menta e l’anisetta, al flauto, zuccherino insieme e pepato, piagnucoloso e carezzevole; mentre – e si completa così l’orchestra – il kirsch strombetta a perdifiato; gin e whisky portan via il palato coi loro stridenti squilli di pistoni e di tromboni; la grappa fulmina con l’assordante strepito delle tube, ed il tonar dei piatti e della grancassa suonati a braccio teso rintronano il palato quando assaggia il rachi di Chio e le mastiche.

Né, a sentirlo, l’analogia finiva qui: sotto la volta palatina si potevano anche sonare quartetti per istrumenti ad arco.

Rappresenterebbe il violino, la vecchia acquavite, fumosa e delicata, acuta e fragile; la viola, il rumme, più robusto, più rombante, più sordo; il violoncello, il vespetro: straziante e prolungato, malinconico e blandente; il contrabbasso, un vecchio bitter schietto, solido e nero.

E non era tutto: neanche le scale tonali mancavano nella musica dei liquori. Così, per non citare che una nota, il benedettino rappresentava, si può dire, il tono minore di quel tono maggiore degli alcoli che gli spartiti commerciali designano col nome di certosino verde.

Partendo di qui, Des Esseintes era riuscito, grazie a dotti esperimenti, a sonare sulla propria lingua silenziose melodie, mute marce funebri a piena orchestra; ad ascoltarsi in bocca degli a solo di menta, dei duetti di vespetro e di rum.

Arrivava sinanco ad eseguire in bocca veri e propri brani di musica, attenendosi passo passo alla composizione; interpretandoli nel pensiero, negli effetti, nelle sfumature, grazie ad accordi o contrasti di liquori, grazie a sapienti miscele.

Altre volte componeva lui melodie proprie; eseguiva pastorali coll’anodino cassì, che gli gorgheggiava in gola canti perlati di rosignolo; col tenero cacao-chouva che canticchiava sciropposi idilli, quali le romanze di Estelle ed i «Ah ti dirò, mamma…» del tempo che fu.

Ma quella sera Des Esseintes non aveva alcuna voglia d’ascoltare la musica del palato. Si contentò di cavare dalla tastiera del suo organo una sola nota, portandosi di là un bicchierino colmo d’autentico whisky d’Irlanda.

Si riaffondò nella poltrona e religiosamente si sorseggiò quel succo fermentato di orzo e d’avena: un acuto aroma di creosoto gli appestò la bocca.

Sulla traccia di quel sapore che irresistibilmente ne evocava un altro, il pensiero, facendo da battistrada, resuscitò ricordi cancellati da anni. Quel gusto acre, fenicato, gli richiamò imperioso alla memoria l’identico sapore che gli riempiva la bocca quando il dentista gli lavorava le gengive.

Messo su questa via, dopo aver vagato genericamente su tutti i dentisti cui era ricorso, il ricordo si raccolse e concentrò su quell’uno che per i suoi modi brutali gli si era profondamente impresso nella memoria.

Era stato tre anni prima. Aggredito nel cuor della notte da un’atroce raffica di denti, si premeva la guancia, sbatteva del capo nei mobili, misurava a grandi passi, forsennato, la stanza.

Si trattava d’un molare piombato. Impossibile guarirlo; solo rimedio che restava, le tenaglie del dentista. Fuori di sé, aspettava l’alba, risoluto a sottoporsi alla più atroce delle operazioni, pur di uscire da quel patimento.

Tenendosi la mascella, si chiedeva intanto come fare. I dentisti che lo avevano in cura erano dei professionisti arricchiti dai quali non bastava recarsi per essere ricevuti; occorreva con loro prenotarsi, combinare un appuntamento.

«Impossibile: io non posso rimandare d’un minuto» si diceva.

Deliberò di ricorrere al primo venuto, d’andare da un cavadenti qualsiasi; da uno di quegli energumeni dal polso di ferro che, se ignorano l’arte, del resto inutile, di curare le carie e di turare i buchi sanno estirpare con una sveltezza da giocoliere le radici più ostinate; gente che apre bottega all’alba e non fa fare anticamera.

Sonarono alfine le sette.

Si precipitò in istrada e, sovvenendogli il famigerato nome d’un meccanico che si faceva chiamare «dentista per tutti» ed abitava all’angolo d’un lungosenna, si mise di corsa a quella volta, ricacciando il pianto, mordendo il fazzoletto.

Arrivato, con le tempia in sudore, davanti alla casa distinta da un’enorme tabella nera sulla quale spiccava in giallo a lettere di scatola il nome «GATONAX» e da due vetrinette, dove inseriti in gengive di cera rosa, legate fra loro da molle d’ottone facevano bella mostra di sé denti artificiali, si fermò a prender fiato; ed ecco lo colse un tremendo batticuore, un brivido gli corse la schiena, il dolore ebbe tregua, il dente s’azzittì.

Istupidito egli restava lì piantato sul marciapiede.

Finché aveva preso il coraggio a due mani e cacciatosi nel buio della scala, divorandone i gradini a quattro a quattro, era giunto al terzo piano. Là s’era trovato davanti una porta: una targhetta di smalto vi ripeteva in lettere celesti il nome dell’insegna.

Aveva già tirato il campanello, quando lo sguardo, cadendogli sui gradini, li vide costellati di larghi scaracchi appiccicosi e sanguinolenti.

Fu per tornare; già, era deciso a patir di mai di denti per il resto della vita; ma trapassando le pareti, gli lacerò i timpani, riempì la tromba della scala, lo inchiodò allibito dov’era, un urlo disumano; mentre la porta si apriva e una vecchia lo invitava ad entrare.

La vergogna l’aveva vinta sulla paura.

Introdotto in una sala da pranzo, aveva visto spalancarsi con fracasso un uscio, riempire il vano un pauroso granatiere, una specie d’automa in redingotta e pantaloni neri.

Dal momento che, seguendo colui, era passato in un’altra stanza, i suoi ricordi s’annebbiavano. Vagamente ricordava d’essersi come un cencio lasciato andare su una poltrona in faccia a una finestra e d’aver barbugliato indicando il dente: «È già stato piombato: temo non ci sia nulla da fare».

Ficcandogli in bocca un indice come una trave, già colui gli aveva tolto la parola; quindi, borbottando chi sa che sotto i baffi a zanna impomatati, aveva tolto qualche cosa di su un tavolo.

Allora era venuto il bello.

Aggrappato ai braccioli, Des Esseintes s’era sentito un freddo nella guancia. Poi aveva visto le stelle; sudando di strazio, s’era messo a pestare i piedi ed a belare come un agnello che scannano.

S’udì uno scricchiolio; cedendo, il molare si spezzava.

Gli era parso allora che gli divellessero il capo, gli fracassassero il cranio; perduta la ragione, aveva urlato come un dannato. Furiosamente si era difeso contro l’energumeno che di nuovo gli rovinava addosso quasi volesse fargli entrare il gomito nel ventre e che, arretrando bruscamente d’un passo, tirava su appesa alla mascella la vittima, per lasciarla quindi brutalmente ripiombare sulla poltrona; per poi, tappando di sé la finestra, brandire, ansante, a trofeo, nella morsa della tanaglia un dente cianotico, rosso d’un carniccio che ne pendeva.

Vicino a render l’anima, Des Esseintes aveva sputato sangue da riempire una bacinella; respinto d’un gesto la vecchia ricomparsa ad offrirgli il mozzicone che andava involgendo in un pezzo di giornale; e, sborsati i due franchi di tariffa, era fuggito bersagliando a sua volta di sputo e di sangue i gradini; per ritrovarsi in istrada, raggiante, alleggerito di dieci anni, pieno d’interesse per tutto ciò che vedeva.

«Brrr!» fece; e s’alzò per scuotere da sé l’orribile fascino di quei ricordi.

Tornato alla realtà presente, si preoccupò della tartuca. Continuava a non muoversi. La palpò. Era morta.

Certo, avvezza al trantran della sua esistenza, all’umile vita del suo povero guscio, non aveva potuto sopportare l’accecante lusso che le era stato imposto, il rutilante piviale di cui l’avevan vestita, le gemme di cui le avevano lastricato il dorso, a somiglianza d’un ciborio.

V

Via via che gli si acuiva il desiderio di scampare lontano dalla pacchianeria d’un tempo stupido e gretto come il suo, sempre meno tollerabile gli diventava la vista di quella pittura che ritraeva il suo simile nell’atto che ponza tra quattro mura o che in busca di danaro s’arrabatta per le strade.

Ora ch’era riuscito a disinteressarsi del tempo suo, come di questo tempo accogliere nella sua cella delle larve, che rinverdirebbero in lui ripugnanze e crucci? Così s’era proposto di non ammettervi che una pittura squisita, essenziale, che bagnasse le sue radici in un antico sogno, s’alimentasse d’un’antica corruzione, ignara del nostro tempo, ignara dei nostri costumi.

Per pascervi occhi ed anima, aveva voluto delle opere suggestive, che lo trasportassero in un mondo sconosciuto, gli aprissero nuove prospettive, gli squassassero i nervi con incubi complicati, con dotte isterie, con spettacoli gelidi e atroci.

Fra tutti, un artista esisteva che lo gettava in lunghe estasi e del quale aveva acquistato ambedue i capolavori: Gustave Moreau.

Della sua tela che rappresentava Salomé, Des Esseintes indugiava in contemplazione intere notti.

Simile all’altar maggiore d’una cattedrale, un trono s’ergeva sotto una fuga a perdita d’occhio di volte, in cui si placava l’impeto di colonne, tozze come pilastri romani; colonne smaltate di piastrelle policrome, incastonate di mosaici, incrostate di lapislazzuli e di sardoniche – dentro un palagio simile ad una basilica, d’una architettura musulmana e al tempo stesso bizantina.

Al centro del tabernacolo che sorgeva in cima all’altare e cui si saliva per gradini a semicerchio, sedeva il Tetrarca Erode, coperto d’una tiara, le gambe raccolte, le mani sui ginocchi.

La sua faccia era gialla, incartapecorita, gualcita di rughe concentriche, devastata dall’età; sulle stelle di gemme che gremivano la tunica ricamata d’oro, aderente al petto, la barba ondeggiava come candida nuvola.

Intorno a quella statua immota, congelata in una posa ieratica da nume indù, profumi bruciavano attorcendo spire di fumo che trapassavano, quasi fosforescenti occhi di belva, i fuochi delle pietre preziose che ingemmavano il trono; quindi il vapore saliva, si perdeva in volute sotto le arcate, mescendo il suo azzurro al pulviscolo d’oro che a fasci cadeva dalle cupole.

Tra quegli effluvi perversi, nell’aria surriscaldata di quella chiesa, Salomé, il braccio sinistro disteso in atto di comando, con la destra reggendo all’altezza del viso un grande loto, avanza adagio sulle punte, agli accordi d’una chitarra che pizzica una donna accoccolata.

L’espressione raccolta, solenne, augusta quasi, Salomé dà inizio alla lubrica danza che deve ridestare i sensi del vecchio Erode.

I seni ondeggiano; stuzzicati dalle collane che vorticano, i capezzoli s’ergono; nel madore della pelle, i diamanti scintillano; sulla veste trionfale, rabescata d’argento, laminata d’oro, dalle costure di perle, il busto, preso in una maglia di gemme, entra in combustione, dardeggia serpentelli di fuoco, brulica sulle carni compatte, sul rosa tea della pelle, simile ad un visibilio d’insetti dalle elitre abbaglianti, marmorizzate di carminio, punteggiate di giallo aurora, screziate di blu acciaio, striate di verde pavone.

Assorta, gli occhi fissi, pari a una sonnambula, essa non vede né il fremente Tetrarca né la madre – la feroce Erodiade – che la sorveglia; né l’ermafrodito o l’eunuco che si tiene, con la sciabola in pugno, a pié del trono: terribile, velato; la mammella di castrato che, come una fiaschetta, penzola sotto la tunica variegata d’arancione.

La figura di Salomé, così tentatrice per gli artisti e i poeti, ossessionava da anni Des Esseintes.

Quante volte nella vecchia Bibbia di Pierre Variquet, tradotta dai dottori in teologia dell’Università di Louvain, s’era letto il Vangelo, laddove San Matteo in brevi ingenue frasi narra la decapitazione del Precursore! quante volte queste righe lo avevano fatto sognare.

«Il giorno del festino della Natività d’Erode, la figlia di Erodiade danzò nel mezzo e piacque ad Erode.

«Per cui egli le promise con giuramento che le darebbe qualunque cosa chiedesse.

«Essa dunque, indotta dalla madre, disse: ‹Dammi la testa di Giovanni Battista.›

«E il re fu dolente; ma, a cagione del giuramento, e di coloro che secolui erano a tavola assisi, ordinò che la testa le fosse data.

«E spedì a decapitare Giovanni in prigione.

«E venne il capo di costui su un piatto recato e dato alla figlia; ed essa lo presentò a sua madre».

Ma né San Matteo né San Luca né gli altri evangelisti aggiungevano parola sul delirante fascino, sul perverso ascendente della danzatrice.

La sua figura restava in ombra; enigmatica, squassata da erotici spasmi, si perdeva nella nebbia dei tempi: incomprensibile agli spiriti limitati e gretti, intuìta solo dai cervelli scossi, acuiti, resi pressoché visionari dalla nevrosi; impossibile a raffigurare per i pittori della carne, per Rubens che ne fa una macellaia fiamminga; inintelligibile per gli scrittori, dei quali nessuno poté mai rendere l’inquietante frenesia della danzatrice, la raffinata grandezza dell’assassina.

Nell’opera di Gustave Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del Testamento, Des Esseintes vedeva finalmente realizzata l’insolita e sovrumana Salomé che aveva vagheggiato.

Essa non era più soltanto la danzatrice che strappa ad un vecchio, con una contorsione lasciva di reni, un grido di desiderio e di foia; che spezza l’energia, piega la volontà d’un re, turbinando i seni, scotendo il ventre, vibrando la coscia; essa diventava per così dire il simbolo indiato della insopprimibile Lussuria, la dea dell’immortale Isteria; la Beltà maledetta, eletta fra tutte dalla Catalessi che le fa di marmo le carni, di ferro i muscoli; la Bestia mostruosa, indifferente, irresponsabile, che come Elena di Troia avvelena tutto ciò che accosta, tutto ciò che vede, tutto ciò che tocca.

Intesa in questo modo, essa apparteneva alle teogonie dell’Estremo Oriente; non aveva più che fare con la tradizione biblica; neppure poteva essere presa per la personificazione di Babilonia, identificata con la regale Prostituta dell’Apocalisse, come lei abbigliata di gioielli e di porpora, come lei fucata – perché, quella, non era stata una forza ineluttabile né lo strapotere del Fato a precipitarla nell’adescante voragine dell’abbiezione e della dissolutezza.

Il pittore sembrava, del resto, aver voluto affermare la propria volontà di prescindere dal tempo, di non precisare né tradizione né paese né epoca; collocando il suo personaggio al centro di quell’insolito palagio, d’uno stile incerto e grandioso; parandolo di vesti sontuose e chimèriche; sormontandone il capo d’un equivoco diadema a foggia di torre fenicia come quello che porta Salambò; mettendole in mano lo scettro d’Iside, il sacro fiore dell’India e dell’Egitto, il grande Loto.

Di questo emblema, Des Esseintes cercava di penetrare il senso. Aveva esso il significato fallico che gli prestano i culti primordiali dell’India; annunziava al vecchio Erode una verginità che gli si offriva, un baratto di sangue; lo sollecitava ad aprire un’impura ferita all’espressa condizione che consentisse ad un omicidio; o rappresentava l’allegoria della fecondità, il mito indù della vita, un’esistenza che una donna tiene tra le dita e che le strappa e gualcisce la convulsa mano d’un uomo colto da demenza, accecato da un delirio della carne?

Fors’anche, armando la sua enigmatica dea del sacro loto, il pittore aveva pensato alla danzatrice, alla donna mortale, al Vaso contaminato, causa di tutti i peccati e di tutti i delitti; s’era forse ricordato dei riti dell’antico Egitto, delle cerimonie sepolcrali dell’imbalsamazione, allorché sacerdoti ed esperti coricano su un banco di diaspro la morta; con aghi ricurvi le estraggono per le nari il cervello; i visceri, per un’incisione nel fianco sinistro; poi prima di indorarle unghie e denti, prima di impregnarla di bitume e d’essenze, le insinuano nelle parti sessuali, per purificarle, i casti petali del divin fiore.

Comunque fosse, un soggiogante fascino si sprigionava da quella tela.

Eppure l’acquarello intitolato «L’Apparizione» era forse anche più inquietante.

Qui il palazzo di Erode si lanciava, come una Alhambra, su lievi colonne iridate di quadrelle moresche, cementate si sarebbe detto fra loro da una malta d’argento, da un calcestruzzo d’oro. Arabeschi partivano da losanghe di lapislazzuli, correvano tutto lungo cupole, dove, su tarsie di madreperla, si propagavano bagliori di arcobaleno, fuochi di prisma.

L’omicidio era consumato; ora il carnefice si teneva impassibile, le mani sul pomo della lunga spada, maculata di sangue.

Dal piatto deposto sul pavimento, il mozzo capo del Santo s’era alzato: livido, la bocca schiusa, esangue, il collo paonazzo, grondando lacrime guardava. Un mosaico circondava il viso, dal quale s’irraggiava un’aureola che proiettava raggi sotto le arcate, circonfondeva di luce l’ascendere del capo, accendeva il vitreo globo delle pupille che fissavano, impugnavano sto per dire, la danzatrice.

In un gesto di spavento, Salomé respinge la terrificante apparizione che la inchioda, senza fiato, sulle punte; ha gli occhi sbarrati; si stringe con la mano convulsa la gola.

È quasi ignuda; nella frenesia della danza, i veli si sono disfatti, i broccati son caduti. Non è più vestita che d’un luccichio minerale, d’un baglior d’ori; una gorgiera la serra, a mo’ di corsaletto, alla vita; e, a mo’ di superbo fermaglio, un meraviglioso gioiello sfreccia lampi nell’incavo dei seni. Più giù, una cintura le abbraccia le anche, cela l’alto delle cosce, battute da un gigantesco ciondolo rutilante di carbonchi e smeraldi; mentre sul corpo che resta scoperto, tra la gorgiera e la cintura, il ventre s’incurva e l’ombelico vi mette il suo sigillo d’onice, latteo, d’un rosa tenero d’unghia.

Percossa dai fulgori che emana il capo del Precursore, tutta quella gioielleria s’incendia, arde in ogni faccetta come bragia; le gemme s’animano; a tratti incandescenti disegnano il corpo della donna; la pungono al collo alle gambe alle braccia di stilettate di fuoco, di marchi di fuoco: vermigli come tizzoni, violacei come fiamma di gaz, azzurri come alcole che brucia, bianche come raggi di stelle.

La spaventosa testa fiammeggia; seguita a perder sangue; appende grumi di fosca porpora ai capelli, alla barba.

Visibile solo per Salomé, essa non abbraccia nel suo sguardo né Erodiade che cova il suo odio alfine appagato, né il Tetrarca che, sporto un po’ in avanti, le mani sulle ginocchia, ansa ancora, ossessionato da quella nudità di donna, esalante un odor bestiale, conciata dai balsami in cui s’è rotolata, odorante d’incensi e di mirre.

Non diversamente dal vecchio re, Des Esseintes stava senza fiato, annientato, in preda a vertigine, davanti a quella danzatrice; meno maestosa, meno altera, ma più inquietante della Salomé del quadro ad olio.

Nell’insensibile e spietata statua, nell’innocente e pericoloso idolo l’erotismo, il terrore della creatura umana s’era fatto strada; il grande loto era sparito, la dea era svanita; un incubo spaventoso strangolava ora l’istriona, ancora stordita dal vorticar della danza, la cortigiana pietrificata, ipnotizzata dallo spavento.

Qui Salomé era femmina veramente; obbediva al suo temperamento di donna ardente e crudele; era viva d’una vita più raffinata e selvaggia, più esecrabile e più squisita; più imperiosamente ridestava i sensi in letargo dell’uomo; ne stregava, ne domava meglio la volontà col suo fascino di grande fiore venereo, nato in amplessi sacrileghi, allevato in empie serre.

Mai, come Des Esseintes diceva, mai, in nessuna epoca l’acquarello aveva attinto un tale splendore di colorito; mai la povertà delle nostre tavolozze aveva fatto corruscare in quel modo le gemme, folgorar le vetrate percosse dal sole; dato alle stoffe e alle carni uno spicco così portentoso, così abbacinante.

Perso in contemplazione, Des Esseintes si domandava da chi potesse derivare un artista come quello; un pagano mistico, un visionario come Moreau, capace di astrarsi dal mondo al punto da vedere in piena Parigi sfolgorare le crudeli visioni, le fantasmagoriche apoteosi delle età defunte.

Derivazioni? Des Esseintes riconosceva a stento qua e là vaghe reminiscenze di Mantegna e di Jacopo de’ Barbarj; dubbi influssi di Leonardo, febbri di colori alla Delacroix. Ma l’influenza di quei maestri s’avvertiva, insomma, appena: la verità era che Gustave Moreau non derivava da nessuno; senza vero maestro, senza possibili scolari, egli restava unico nell’arte contemporanea.

Col rifarsi all’alba delle stirpi, alle origini delle mitologie delle quali riaffrontava e scioglieva i cruenti enimmi; col riunire, col fondere in una sola le leggende venute dall’Estremo Oriente e trasformate dalle credenze degli altri popoli, egli giustificava l’architettura composita, le mescolanze lussuose ed inattese di stoffe, le ieratiche e sinistre allegorie dei suoi quadri: prodotto d’una inquietudine e d’una nevrosi tutta moderna.

Egli restava l’artista costituzionalmente tormentato, ossessionato dai simboli delle perversità e degli amori sovrumani, degli stupri divini consumati senza abbandoni e senza speranze.

Emanava dalle sue opere disperate e dotte, un incanto singolare, una malia che rimescolava nel profondo, simile a quella che sprigionano certe poesie di Baudelaire. Si restava sbalorditi, sconcertati, pensosi davanti a quell’arte che varcava i limiti della pittura; toglieva in prestito all’arte dello scrivere le sue più sottili evocazioni, all’arte del Limosino i suoi splendori più vivi, all’arte del lapidario e dell’incisore le sue più squisite finezze.

Le due immagini di Salomé, per le quali Des Esseintes nutriva un’ammirazione sconfinata, palpitavano vive sotto i suoi occhi, appese nel suo studio, su pannelli ad esse riservati tra le scansie dei libri.

Ma non si limitavano a questi gli acquisti di quadri che aveva fatto nell’intento di addobbare la sua solitudine.

Nel salottino che aveva fatto tappezzare di rosso vivo, pendevano ad ogni parete, chiuse in cornici d’ebano, stampe di Jan Luyken, un antico incisore olandese, quasi sconosciuto in Francia.

Di questo artista, lunatico e macabro, impetuoso e selvaggio, Des Esseintes possedeva la serie delle «Persecuzioni religiose»: raccapriccianti tavole che facevan passare sott’occhio tutte le torture che la follia delle religioni ha inventato; tavole nelle quali urlava lo spettacolo dell’umano patire: corpi rosolati su bracieri, crani scoperchiati da spade, trapanati da chiodi, morsi da seghe; intestini dipanati dal ventre, avvolti su rocchetti; unghie lentamente estirpate con tanaglie, pupille accecate, palpebre rovesciate e imbullettate; arti slogati, infranti pezzo per pezzo, ossa messe a nudo, accuratamente scarnificate con lame.

Queste opere, piene d’un’abominevole fantasia, che puzzavano di bruciato, grondavano sangue, dalle quali salivano grida d’orrore e d’imprecazione, raccapricciavano Des Esseintes e lo trattenevano senza fiato nel rosso salottino.

Ma – a parte i brividi che mettevano addosso, a parte il talento che testimoniavano nel loro autore, la straordinaria vita di cui egli aveva animato i personaggi – in quel pullulare di folle, in quel mareggiare di popolo, colto con una agilità di tocco da ricordare Callot, ma anche con una potenza espressiva che non ebbe mai questo divertente scarabocchiatore – si scoprivano interessanti ricostruzioni d’ambienti e d’epoche; l’architettura, il vestire, i costumi del tempo dei Maccabei a Roma, durante le persecuzioni dei cristiani; in Ispagna, sotto l’infierire dell’Inquisizione; in Francia, nel Medio Evo ed al tempo delle San Bartolomeo e delle Dragonate, erano osservate con cura meticolosa, fermate con grandissima esattezza.

Quelle stampe erano delle miniere di notizie; non ci si stancava di contemplarle per ore intere; suggerendo un’infinità di considerazioni, aiutavano spesso Des Esseintes ad ammazzare i giorni in cui gli era negata la compagnia dei libri.

Aggiungeva attrattiva ai disegni la vita dell’artista; essa spiegava del resto un’opera così allucinata.

Calvinista fervente, settario indurito, fanatico di cantici e di preghiere, egli componeva poesie religiose e le illustrava; parafrasava in versi i salmi; s’immergeva nella lettura della Bibbia e ne usciva estasiato, truce, pieno il cervello di ispirazioni cruente, storta la bocca dalle maledizioni della Riforma, dai suoi canti di terrore e di collera.

Disprezzava inoltre il mondo, dava tutto il suo ai poveri contentandosi d’un pezzo di pane; ed aveva finito per imbarcarsi in compagnia d’una vecchia serva infanatichita di lui; e, dappertutto dove la nave approdava, andava predicando il Vangelo, cercando il modo di far a meno di cibo; poco meno che pazzo, tornato poco meno che selvaggio.

Nella stanza vicina, più ampia, nel vestibolo fasciato di cedro color scatola da sigaro, altre stampe, altri bizzarri disegni erano esposti.

La «Commedia della Morte» di Bresdin, dove in mezzo ad un paesaggio inverosimile, irto d’alberi, di boschi ceduli, di macchioni simulanti forme di demoni e fantasmi, popolato d’uccelli con teste di topo, radiche per coda, da un terreno seminato di vertebre, di costole, di crani, dei salici si rizzano, tutti nodi e spaccature, sormontati da scheletri che agitano, a braccia in aria, un mazzo, intonando un canto di vittoria; mentre un Cristo si dà alla fuga per un cielo a pecorelle, un eremita medita col capo tra le mani in fondo ad una grotta, ed un poveraccio, sfinito dalle privazioni, muor di fame, steso sul dorso, coi piedi che toccano uno stagno.

Il «Buon Samaritano» dello stesso: vasto disegno a penna, tirato su pietra: un incredibile groviglio di palme, sorbi, querce, cresciuti tutti insieme a dispetto delle stagioni e dei climi: un pullulare di foresta vergine brulicante di scimmie, di barbagianni, di civette, gibbosa d’antichi ceppi, deformi come radici di mandragola; un bosco irreale, al cui centro s’apre una radura che lascia laggiù intravvedere, dietro un cammello ed il gruppo del Samaritano col ferito, un fiume, quindi una città fatata, che dà la scalata all’orizzonte, assunta in un cielo mai visto, punteggiato di uccelli, increspato d’onde, come gonfio di balle di nuvole.

Si sarebbe detto il disegno di un primitivo, di un vago Alberto Dürer, il parto d’un cervello sotto l’influsso dell’oppio; ma per quanto gustasse la finezza di particolari e il piglio imponente di quella tavola, Des Esseintes sostava di preferenza davanti agli altri quadri della stanza.

Recava la firma di Odilon Redon. Dalle cornicette di pero grezzo filettato d’oro che le racchiudevano, le apparizioni più inaspettate venivano incontro: una testa di stile merovingio offerta su una coppa; un uomo barbuto, tra il bonzo e il concionatore di folle, che tocca del dito il proiettile d’un colossale cannone; un ragno spaventoso che al centro del corpo ha un viso umano.

C’erano poi dei carboncini che spingevano l’audacia anche oltre, precipitavano nel terrore e nel delirio d’un sogno sgomentante. Qui, in un enorme dado da gioco, ammiccava un occhio triste; là, paesaggi aridi, desolati, distese di terra calcinata, sconvolgimenti tellurici, sollevarsi di vulcani che s’alzavano sino a mescolarsi con cieli lividi e stagnanti, con nubi in rivolta.

Talora, persino, i soggetti parevano tolti in prestito agli incubi della scienza, attinti dalla preistoria: una flora mostruosa tripudiante su rocce; dovunque massi erratici, fanghi glaciali, esseri di tipo scimmiesco che con lo spessore dei mascellari, l’arco ciliare sporgente, la fronte sfuggente, il cranio in alto appiattito, evocavano la testa ancestrale, la testa, quale appare nel primo periodo quaternario, dell’uomo ancora vegetariano, sprovvisto ancora di favella, contemporaneo del mammut, del rinoceronte dalle narici a tramezzi, del grande orso delle spelonche.

Questi disegni andavano oltre ogni limite per la maggior parte, scavalcavano d’un salto le frontiere di ogni pittura, inauguravano un genere di fantastico tutto loro, il morboso fantastico del delirio.

Infatti alcuni di quei visi divorati dagli occhi, da occhi da pazzo; taluni di quei corpi sproporzionatamente grandi o deformi, come visti di là d’una boccia d’acqua, rinnovavano in Des Esseintes ricordi di febbre tifoidea, ricordi rimasti indelebili di notti brucianti, di spaventose visioni dell’infanzia.

Colto da un indefinibile malessere davanti a quei disegni come al cospetto di certi «Proverbi» di Goya, ch’essi richiamavano; colto dallo stesso malessere che gli dava la lettura di Poe – del quale Odilon Redon pareva aver trasferito in una altr’arte i miraggi allucinatori e le terrificanti suggestioni – egli si stropicciava gli occhi e rifugiava lo sguardo su una raggiante immagine, che schiudeva quasi una oasi di pace e di serenità fra tutte quelle tavole ossesse; una immagine della Malinconia, assisa di contro il sole, su rocce in atteggiamento triste ed abbattuto.

Per incanto, le tenebre si dissipavano; una seducente tristezza, una desolazione che non pungeva, non doleva più, scendeva nei suoi pensieri; meditabondo, s’indugiava a contemplare quell’opera che coi suoi punteggi a guazzo seminati nella matita grassa, metteva un chiarore di verde acqua e d’oro pallido nell’ostinato nero di tutti quei carboncini e di quelle incisioni.

Oltre quella collezione d’opere di Odilon Redon, che rivestiva quasi interamente i pannelli del vestibolo, Des Esseintes aveva appeso nella camera da letto un disordinato abbozzo di Theotocopuli, un Cristo d’una tonalità strana, d’un’anatomia esagerata, d’una tinta atroce, sconcertante di forza; un quadro della seconda maniera di questo pittore, del periodo in cui voleva ad ogni costo sottrarsi alla soggezione del Tiziano.

Questa pittura sinistra, che pareva fatta con lucido da scarpe e verde di carne che si putrefà, rispondeva per Des Esseintes a certi suoi criteri d’arredamento.

Non c’erano, secondo lui, che due modi di arredare una camera da letto: o se ne faceva un’eccitante alcova, un luogo di dilettazioni notturne; oppure un ambiente di solitudine e di riposo, un ritiro propizio alla meditazione, una specie di oratorio.

Nel primo caso, lo stile Luigi Quindici s’imponeva ai raffinati, agli individui, in particolare, esauriti da erotismi cerebrali. Solo il Settecento ha saputo infatti circondare la donna d’un’atmosfera viziosa, dare al mobilio la grazia delle sue curve, comunicare al legno, al rame – coll’ondularlo e torcerlo – qualche cosa dei suoi atteggiamenti, dei suoi spasimi nel piacere; drogando il languore dolciastro della bionda, mediante una decorazione vivace e chiara; attenuando il sapido della bruna con tappezzerie blande, acquose, quasi sciape. Una camera di questo genere egli l’aveva già avuta a Parigi. Vi aveva allogato un vasto letto bianco laccato, che costituiva un piccante di più, una depravazione di vecchio libertino che nitrisce davanti alla finta innocenza, all’ipocrito pudore delle minorenni di Greuze, che s’impenna davanti al fittizio candore d’un letto sporcaccione che sa di bambina e d’adolescente.

Nell’altro caso – il solo adottabile adesso che intendeva romperla con gli eccitanti ricordi del passato – della camera bisognava fare una cella; ma allora sorgeva un mucchio di difficoltà, visto che non poteva, lui almeno, rassegnarsi all’austero squallore dei ritiri di penitenza e di preghiera.

A forza di esaminare il problema d’ogni lato, venne a concludere che la soluzione non poteva essere che questa: con oggetti fastosi aggeggiare un ambiente triste; o piuttosto, mantenendo alla stanza il carattere di squallore, dargli nell’insieme una specie di eleganza e distinzione; fare il contrario di ciò che fa il teatro, dove tessuti andanti la pretendono a stoffe costose e di lusso; ottenere l’effetto opposto, servendosi di magnifiche stoffe che dessero l’impressione di cenci; allestire insomma una camera che avesse l’aria d’una cella di certosino, ma, beninteso, solo l’aria.

Ecco come fece. Per imitare l’intonaco color ocra, il giallo amministrativo e clericale, fece parare i muri di seta zafferano; per mantenere lo zoccolo color cioccolato, solito in tali ambienti, rivestì le pareti d’assiti d’un violetto, incupito d’amaranto.

L’effetto era incoraggiante: ricordava benissimo, non esaminato da vicino, l’urtante rigidità del modello che seguiva trasformandolo.

Il soffitto fu a sua volta tappezzato di bianco crudo, in modo da simulare il gesso, senza averne tuttavia gli striduli lucori. Quanto a quello che doveva essere il gelido pavimento della cella, gli fu facile ottenerlo grazie ad un tappeto rosso a quadri; le lacune biancastre, lasciate qua e là di proposito nella lana, simulavano assai bene il logorio prodotto da scarpe e da sandali.

Ammobigliò la stanza d’un lettuccio di ferro, d’un falso giaciglio da cenobita, messo insieme con vecchi ferri battuti e bruniti; lo nobilitavano, alla testa ed ai piedi, folti fregi: tulipani in pieno sboccio intrecciati a pampini, provenienti dalla superba ringhiera d’un antico palazzo.

Come tavolino da notte, adottò un antico inginocchiatoio, che poteva celare un vaso e sul quale posava un eucologio. In faccia, appoggiò alla parete un banco da fabbricieri, sormontato da un ampio baldacchino, lavorato a traforo, guernito di tarsie corali. I candelabri chiesastici li fornì di candele di cera vergine; se le procurava da una Ditta specializzata in oggetti sacri; per la candela stearica come per il petrolio, il gaz, l’acetilene e tutti insomma i mezzi moderni di illuminazione, così vistosi e brutali, egli nutriva una spiccata avversione.

Destandosi all’alba o prima d’addormentarsi, poteva contemplare, senza neanche alzare il capo dall’origliere, il suo Theotocopuli; l’atroce colore del Cristo castigava il sorriso della seta gialla, la richiamava a maggiore serietà. E Des Esseintes si credeva allora a cento miglia da Parigi, lontano dal mondo, seppellito in fondo ad un chiostro.

Ed in fin dei conti l’illusione non era difficile: era forse molto diversa da quella d’un frate la vita che conduceva?

Della vita conventuale aveva i vantaggi senza subirne gli inconvenienti: che sono la disciplina soldatesca, la poca cura della persona, la sporcizia, la vita in comune con altri, la monotonia del non far niente.

Come s’era fatto della cella una camera riscaldata e provvista di comodi, così s’era reso la vita tranquilla, dolce, libera, occupata, e circondata di benessere.

Non meno d’un eremita, egli era maturo per l’isolamento; affranto dalla vita, più nulla attendeva da essa. Non meno d’un monaco, sentiva un’immensa stanchezza, il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più nulla in comune col prossimo; composto, ai suoi occhi, di profittatori e d’imbecilli.

Insomma, sebbene non sentisse alcuna vocazione per lo stato di grazia, nutriva una vera simpatia per il frate che si chiude in un convento, per il monaco perseguitato da una astiosa società, che non gli perdona né il sacrosanto disprezzo che egli ha per essa, né la volontà ch’egli professa di riscattare, d’espiare col silenzio la sempre crescente sfacciataggine dei suoi vaniloqui stupidi o assurdi.

VI

Sprofondato in una comoda poltrona, di quelle poltrone che offrono appoggio anche alla tempia; i piedi sui pomi d’argento dorato degli alari, le babbucce avvampate dai ceppi che dardeggiavano, crepitando, – quasi li attizzasse il furioso soffiare d’un cannello ferruminatorio – vive lingue di fiamma, Des Esseintes depose, il vecchio in-quarto che leggeva, su un tavolo: si stirò, accese una sigaretta e si lanciò a briglia sciolta in deliziose fantasticherie. Un nome che senza motivo gli si era affacciato alla mente, lo aveva messo sulla traccia di ricordi cancellati da mesi.

Assisteva, come fosse ora, all’imbarazzo di D’Aigurande, un amico, allorché in un crocchio di scapoli induriti aveva dovuto annunciare il suo imminente matrimonio.

Era stato un coro di proteste. Gli vennero dipinti coi più foschi colori gli inconvenienti che presenta il dover dividere con altri le stesse lenzuola. A nulla valse. Accecato da Cupido, D’Aigurande giurava sull’intelligenza della sua futura e pretendeva d’aver constatato in lei doti eccezionali di devozione e d’attaccamento.

Solo della compagnia, Des Esseintes aveva incoraggiato quella decisione, non appena aveva sentito che la fidanzata desiderava abitare una casa d’angolo sui nuovi grandi passeggi; uno di quegli appartamenti a rotonda venuti allora di moda. Facendo pieno assegnamento sull’implacabile azione disgregatrice che, più delle grandi, esercitano sulle persone di carattere le piccole contrarietà, e puntando sul fatto che D’Aigurande non possedeva alcuna fortuna e che ciò che portava la moglie era più che modesto, egli aveva visto in quella unione una fonte infinita di ridicoli guai.

I fatti gli avevano dato ragione. D’Aigurande acquistò mobili adatti al nuovo ambiente: mensole curve, montanti per tendine ad arco, tappeti foggiati a mezza luna; tutto insomma un arredamento eseguito su commissione.

Spese il doppio che per ammobigliare un appartamento normale; e quando la moglie, a corto di danaro per rifornirsi il guardaroba, si stufò di abitare quella rotonda e volle una casa meno cara e come tutte le altre, si vide che nessun mobile stava in piedi né s’inquadrava col nuovo ambiente.

Poco alla volta, l’ingombrante mobilio divenne una fonte inesauribile di contrarietà; l’affiatamento fra i coniugi, già pregiudicato dalla vita in comune, s’andò di settimana in settimana sbriciolando. Seguirono scenate: l’uno buttava in faccia all’altro che era impossibile restare in un salotto, dove mensole e divani non appoggiavano alla parete, per cui bastava scontrarle perché, nonostante le zeppe, traballassero. Per far fare delle riparazioni, del resto pressoché impossibili, mancava danaro. Tutto divenne pretesto a acrimonie, a battibecchi; tutto, dai tiretti che nei mobili male a piombo non chiudevano più, ai ladrocinii della donna che profittava delle dispute tra i padroni per alleggerire, non vista, la cassa.

In breve: fra i due la vita divenne intollerabile. Lui cercò distrazioni fuori di casa; lei, nelle risorse dell’adulterio, l’oblio d’un’esistenza grigia e piatta.

Di comune accordo, disdissero la locazione e chiesero divorzio.

«Non m’ero ingannato nel mio piano» si disse Des Esseintes con la soddisfazione dello stratega che vede riuscire la sua manovra. E ripensando ora, davanti al fuoco, al fallimento di quel matrimonio che egli aveva favorito coi suoi buoni consigli, gettò nuova legna nel caminetto e daccapo si immerse nelle sue fantasticherie.

Dello stesso genere, altri ricordi ora si affollavano.

Questo, risaliva a qualche anno innanzi.

Una sera, in via Rivoli, s’era imbattuto in un monello sui sedici anni: un ragazzo dalla cera sbattuta e dall’aria sveglia; conturbante come una femmina. S’accaniva a tirar fumo da una sigaretta che gli stecchi di tabacco caporale bucavano qua e là. Stizzito, strofinava sulla coscia uno dopo l’altro degli zolfanelli da cucina che non s’accendevano; finché ne restò senza.

Scorgendo Des Esseintes che lo osservava, si avvicinò, la mano alla visiera; e gli chiese gentilmente del fuoco. Des Esseintes gli offrì delle aromatiche sigarette di dubèque ed attaccò discorso.

La storia che il ragazzo gli raccontò era delle più semplici: si chiamava Augusto Langlois, era a bottega da uno scatolaio; aveva perduto la madre, e il padre lo batteva come un tappeto.

Des Esseintes che lo ascoltava pensoso: «Si va a bere?» gli disse; e lo condusse in un caffè dove gli fece servire dei ponci fulminanti. Il ragazzo beveva senza far motto; quando Des Esseintes a bruciapelo:

«Ebbene, di’ su, te la vuoi spassare stasera? Son io che pago.»

Ed aveva menato lo sbarbatello in via Mosnier, dove in un appartamento di stanzette rosse, arredate d’un sofà e d’uno specchio tondo, provviste d’un lavabo, Madama Laura teneva a disposizione degli amatori un assortito campionario di fioraie.

Là Augusto che, sbalordito, spiegazzava tra le mani il berretto, s’era visto attorniare da uno sciame di donne che schiudevano tutte a tempo la bocca dipinta.

«Ah, il pupetto! Ve’ com’è carino!»

«Ma di’ su, piccolo: tu non hai mica l’età!» aveva aggiunto una bruna alta con gli occhi a fior di testa, il naso arcuato che faceva nella casa la parte indispensabile della «bella Ebrea».

A suo agio là dentro, pocomeno che a casa sua, Des Esseintes parlottava sottovoce con la padrona.

«Che hai paura che ti pappino, sciocchino? Suvvia, scegliene una: te la offro.»

E con una piccola spinta scherzosa mandò il monello a sedere su di un divano in mezzo a due donne. Quelle, ad un cenno di Madama, gli si strinsero addosso, avviluppandogli i ginocchi con le vestaglie; mettendogli sotto il naso il tepore delle spalle, brinate d’una cipria che dava al capo.

Augusto non si muoveva più. Le guance accese, la bocca secca, gli occhi bassi arrischiava alle cosce sguardi in tralice che vi si invischiavano.

Vanda, la bella ebrea, lo abbracciò; e mentre gli impartiva buoni consigli, lo esortava ad obbedire a padre e madre, le sue mani erravano sul ragazzo che le arrovesciava sul collo un viso trasfigurato, in estasi.

«Allora non sei tu che consumi, stasera» disse a Des Esseintes Madama Laura. E vedendo il minorenne sparire rapito dalla bella Ebrea:

«Dov’hai pescato quel marmocchio?»

«Per via, mia cara.»

La vecchia lo guardò: «Pure non hai l’aria d’aver bevuto» mormorò. Ci ripensò sopra e aggiunse con un sorriso materno: «Ci sono. Ah, porco! Ti ci vuole l’erba tenera per te!»

Des Esseintes alzò le spalle:

«Non ci sei; oh, non ci sei proprio! Il vero è semplicemente che m’industrio a fare di questo ragazzo un assassino. Segui il filo del mio ragionamento. Il marmocchio non ha ancora visto donne ed è nell’età che il sangue bolle. Potrebbe come ogni altro correr dietro alle ragazzine del suo rione, restare onesto pur divertendosi; avere insomma come ogni altro la porzioncina di monotona felicità riservata ai poveri. Conducendolo qui in mezzo a un lusso di cui non aveva neppure il sospetto e che gli si imprimerà per forza nella mente; offrendogli ogni quindicina una bazza come questa, prenderà l’abitudine a questi svaghi senza avere il modo di pagarseli. Mettiamo a farla lunga ci vogliano tre mesi perché non possa più farne a meno – che si sazi non c’è rischio, a stecchetto come lo tengo. – Ebbene: in capo ai tre mesi, io serro i cordoni della borsa; ed allora lui ruberà pur di mettere casa qui; non ci sarà mala azione da cui arretri, pur di sdraiarsi su questo divano, sotto la luce di questo gaz!

E se tutto va bene, chi sa che non faccia la pelle, a chi capitasse a sproposito mentre è dietro a scassinargli il tiretto. Allora il mio scopo sarà raggiunto: avrò fatto del mio meglio per mettere in circolazione un mariolo in più, per dare un nemico di più a questa società che ci scoccia.»

Le donne sgranarono tanto d’occhi.

In quella Augusto rientrava, nascondendo confusione e rossore dietro le spalle della sua complice.

Per le scale gli spiegò che tutti i quindici giorni poteva fare un salto da Madama Laura, senza spendere un quattrino. E, come furono sul marciapiede, aggiunse, fissando bene in volto il ragazzo sbalordito:

«È l’ultima volta che ci vediamo. Torna a casa da tuo padre. È da un po’ che ha le mani in ozio: gli prudono. E non scordare questo precetto quasi evangelico: Fa agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Con questa massima andrai lontano. – Buona sera. – Soprattutto non mostrarti ingrato: più presto che puoi dammi tue novelle attraverso le gazzette giudiziarie.»

«Il piccolo Giuda!» mormorava ora Des Esseintes, attizzando le braci. «Neanche nella piccola cronaca ho incontrato il suo nome! Vero è che non mi è stato possibile giocar serrato. Ci sono possibilità che potei prevedere, ma non escludere; come sarebbe che Mamma Laura abbia intascato i soldi e si sia tenuta la merce; che una di quelle donzelle abbia fatto un capriccio per Augusto, per cui trascorsi i tre mesi, egli abbia consumato ad ufo; se pure non saran state le viziose carezze dell’Ebrea a spaventare quel monello, troppo giovane ed impaziente per sottoporsi ai lenti preludi ed allo scioglimento, che arriva sempre di sorpresa, dei suoi maneggi. A meno dunque ch’egli abbia avuto a fare con la giustizia da quando mi trovo qui e non vedo giornali, salvo questo caso, il mio danaro mi è stato scroccato.»

Si alzò e andò su e giù per la stanza.

«Sarebbe in ogni modo peccato,» seguitò a dirsi, «perché con quella azione avevo realizzato la parabola laica dell’istruzione universale; che, prefiggendosi nientemeno di trasformare tutti in tanti Langlois, invece di accecare per sempre, mossa da pietà, gli occhi dei poveri, si industria a spalancarli loro per forza, affinché abbian agio di vedere intorno a sé destini immeritati più clementi, gioie più sottili e più acute e, di conseguenza, più desiderabili e più care.»

«Fatto sta,» concluse, «che, siccome il dolore è un prodotto della educazione, ed esso si diffonde e s’intensifica con lo svilupparsi della mente, più ci si sforzerà di dirozzare il cervello e d’affinare il sistema nervoso e più si svilupperanno i germi, già di per sé così vivaci, della sofferenza morale e dell’odio.»

Le lampade lappolavano. Ne rialzò la fiamma e consultò l’oriolo. Le tre del mattino.

Accese una sigaretta e si risprofondò nell’interrotta lettura dell’antico poema latino De laude castitatis, scritto sotto il regno di Gondebaldo, da Avito, vescovo metropolitano di Vienna.

VII

Dalla notte che, senza causa apparente, gli si era affacciato il ricordo di Augusto Langlois, Des Esseintes cominciò a rivivere dentro di sé tutta la propria vita.

I libri adesso li apriva ma non coglieva il significato d’una parola; si sarebbe detto che l’occhio stesso avesse disappreso a leggere. Si disse, che, saturo d’arte e di letteratura, era forse il cervello che rifiutava nuovo cibo.

Come la bestia caduta in letargo che passa l’inverno rintanata, egli campava di sé, si nutriva a spese dell’organismo. Sull’intelletto la solitudine aveva agito a guisa di narcotico; dopo averlo teso e fatto vibrare come corda di violino, lo gettava adesso in un torpore popolato di vaghe fantasticherie, che egli subiva senza tentare neanche di reagire; gli mandava a monte ogni progetto, spezzava ogni sua volontà.

L’argine che aveva cercato di opporre all’urgere dei vecchi ricordi con la congerie delle letture e con le meditazioni sull’arte, la piena se lo era portato via di colpo; ed essa ora ribolliva, travolgendo presente e avvenire, tutto annegando sotto la livellatrice distesa del passato; gli riempiva il cuore d’un’immensa tristezza sulla quale, grotteschi relitti, galleggiavano insignificanti episodi dell’infanzia, ricordi senza consistenza né logica.

Di mano il libro gli cadeva sulle ginocchia; si arrendeva; repugnando e trasalendo, guardava sfilare gli anni defunti che, come in un carosello, giravano intorno al ricordo di madama Laura e d’Augusto: saldo perno, fatto preciso in tutto quel fluttuare.

Che tempo quello! il tempo delle serate in società, delle corse, delle partite a carte, degli amori commissionati in anticipo, imbanditi puntualmente al tocco di mezzanotte nel salottino rosa.

Rivedeva aspetti, volti; parole insignificanti lo assediavano con l’insistenza del motivo popolare che si è costretti a canticchiare e che ci lascia com’è venuto quando meno ci pensiamo.

Il periodo di queste rievocazioni durò poco. Della tregua Des Esseintes profittò per ributtarsi agli studi di latino, nella speranza di cancellare sin la possibilità di quei ritorni.

Ma il primo impulso era dato; ed ecco, subito dopo i ricordi dell’infanzia, affacciarsi quelli degli anni trascorsi in collegio.

Anni lontani che più degli altri gli avevano lasciato nella memoria un’impronta indelebile.

Il folto parco, i lunghi viali, le panche, tutto gli risorse innanzi in ogni dettaglio. Ed ecco i giardini animarsi, squillare voci di compagni, le risate dei professori che prendono parte alla ricreazione, giocano a pallacorda con la sottana rimboccata, stretta fra le ginocchia, o sotto gli alberi s’intrattengono alla buona, senza il minimo sussiego, con gli allievi come con compagni della loro età.

Riandò col pensiero ai modi paterni con cui i Padri esercitavano l’autorità: un’autorità che rifuggiva dalle punizioni; invece di infliggere i cinquecento, i mille versi di pensum si contentavano di far «riparare», nell’ora di ricreazione, la lezione a chi non l’aveva saputa; o più spesso ancora si limitavano ad una reprimenda. Il ragazzo lo circondavano d’una sorveglianza attiva, ma che si faceva appena sentire; si studiavano di riuscirgli graditi, di dare alla passeggiata del mercoledì la meta più accetta; coglievano il pretesto d’ogni piccola festa non di precetto per passare alla mensa dolci e vino in più, per regalare gli allievi d’una scampagnata. Un’autorità che non mortificava l’allievo, degnava di discutere con lui, e, pur coccolandolo come un bambino viziato, lo trattava già da uomo.

Giungevano per questa via ad acquistare sul ragazzo un vero ascendente, a foggiarne sino ad un certo punto la mente; a dirigerla, ad innestarla di certe idee, a fare che vi si sviluppassero, adoperando blandizie e modi insinuanti; coi quali cercavano di accompagnarli anche nella vita, di assisterli nella carriera, rivolgendo loro affettuose lettere come quelle che il domenicano Lacordaire sapeva scrivere ai suoi antichi allievi di Sorrèze.

In sé Des Esseintes ravvisava il caso d’uno uscito illeso da quel trattamento. Il suo carattere ribelle ai consigli, puntiglioso, investigatore, portato alla contraddizione, lo aveva scampato dal lasciarsi plasmare da quella disciplina, asservire da quell’insegnamento.

Una volta uscito di collegio, il suo scetticismo s’era accentuato; il commercio con una società legittimista, intollerante e di corte vedute, i discorsi scambiati con bigotti di scarsa intelligenza, con piccoli preti d’una dappocaggine che lacerava il velo così sapientemente tessuto dai Gesuiti, avevano rafforzato maggiormente il suo spirito d’indipendenza, accresciuta la sua diffidenza verso una fede qual si fosse.

Egli si riteneva insomma sciolto da ogni legame, da ogni soggezione; soltanto, contrariamente a ciò che succede ai giovani educati nei licei o nei convitti laici, del collegio e dei maestri egli aveva un ottimo ricordo.

Ma ecco che ora s’interrogava; ed arrivava a chiedersi se la semente che, caduta in terreno arido, non aveva sin allora dato frutto non cominciasse per caso a germogliare.

Era qualche giorno infatti che non capiva più niente nello stato d’animo che attraversava. Venivano momenti che credeva; in cui si rifugiava d’istinto nella religione. Senonché bastava il minimo ragionamento perché quell’impulso verso la fede cadesse; ma ciò non bastava tuttavia per fargli recuperare la serenità.

Eppure sapeva bene, esaminandosi, ch’egli non avrebbe mai uno spirito d’umiltà e di penitenza veramente cristiano; con assoluta certezza sapeva che il momento di cui parla Lacordaire, il momento di grazia «in cui l’ultimo sprazzo di luce penetra l’anima e compone intorno ad un unico centro tutte le verità che vi si trovano sparse» per lui non verrebbe mai.

Egli non provava quel bisogno di mortificazione e di preghiera senza del quale – a credere alla maggioranza dei teologi – nessuna conversione è possibile; non sentiva alcun desiderio di implorare un Dio del quale metteva in dubbio la clemenza; eppure la simpatia che gli restava per gli antichi maestri, faceva che s’interessasse ai loro lavori, alle loro dottrine.

Riudiva il loro accento in cui vibrava una convinzione impossibile a fingersi; la loro calda parola di uomini d’un’intelligenza superiore; ed il riudirla lo portava a dubitare della propria intelligenza e delle proprie forze.

Nella solitudine in cui viveva, senza possibilità d’accrescere né di rinnovare il corredo di idee, di ricevere nuovo alimento spirituale come accade a chi vive fra gli uomini e li frequenta; in quell’esilio contro natura nel quale si ostinava, tutti i problemi caduti in oblio durante il soggiorno parigino si riaffacciavano, reclamavano di nuovo una soluzione.

Certo aveva contribuito a portarlo a questo la lettura delle opere latine che amava; opere scritte, quasi tutte, da vescovi e da monaci. Quell’aria di convento, quel sentore d’incenso che stordiva lo aveva esaltato; messi a tacere i ricordi della vita di scapolo, quei libri, per associazione di idee, avevano resuscitato gli anni della giovinezza trascorsi in collegio.

«Non vale negarlo» si diceva Des Esseintes cercando di veder chiaro, di rendersi conto come poco a poco dacché era a Fontenay l’influenza dei gesuiti fosse andata prendendo il sopravvento. «Porto in me sin dall’infanzia, all’insaputa, questo lievito che non aveva sino ad oggi fermentato. Probabilmente anche questo debole che ho sempre avuto per gli oggetti sacri ne è una prova.»

Ma cercava di persuadersi dell’opposto, contrariato di non sentirsi più del tutto padrone in casa propria.

Si trovò delle ragioni. Per forza aveva dovuto orientarsi verso la Chiesa se alla Chiesa si deve d’aver salvato l’arte, d’avere impedito che la bellezza del passato perisse. È la Chiesa che ai lavori d’orafo ha mantenuto, anche nell’andante imitazione d’oggi, la squisitezza del disegno, conservato la grazia ai calici slanciati come petunie, ai ciborii la purezza della linea; serbato sin nell’alluminio, nel falso smalto, nel vetro colorato l’incanto delle antiche fogge.

Non è forse vero, insomma, che dalle abbazie francesi proviene la maggior parte degli oggetti preziosi che s’ammirano al Museo di Cluny, scampati per miracolo alla turpe bestialità dei sanculotti? Come fu la Chiesa nel Medio Evo a scampare dalla barbarie la storia la filosofia e la letteratura, così è essa che ha salvato l’arte plastica, ci ha conservato i meravigliosi tipi di stoffe, i lavori d’orafo, dei quali i fabbricanti d’oggetti sacri non riescon mai, per quanto si industrino, a corrompere la squisita forma primitiva.

Che meraviglia allora ch’egli fosse andato alla ricerca di quegli antichi ninnoli; si fosse accaparrato, come tanti altri amatori, quanto più gli era riuscito di quelle reliquie, battendo le campagne e frugando a Parigi le botteghe d’antiquarii?

Eppure, per quanto valide queste ragioni, non finivano di convincerlo.

Certo, in ultima analisi, la religione, egli la considerava ancora non altro che una splendida leggenda, una meravigliosa impostura; ma non era per questo men vero che, a dispetto di tutte le spiegazioni, il suo scetticismo s’andava intaccando.

C’era un curioso fatto che non si poteva negare: oggi egli era men saldo nelle sue convinzioni che non lo fosse da ragazzo, quando si trovava sottoposto all’amorosa sorveglianza dei Padri, quando non poteva sottrarsi al loro insegnamento, stava nelle loro mani, apparteneva ad essi anima e corpo; quando il loro ascendente non trovava contrasto né in legami di famiglia né in influenze esterne.

I Gesuiti gli avevano pure inoculato un gusto del meraviglioso che in lui, ad insaputa, s’era andato poco a poco sviluppando; che ora nella solitudine, influiva, volesse o no, sul suo spirito taciturno, confinato, che non usciva mai dalla chiusa cerchia delle idee fisse.

Esaminando il cammino che la sua mente aveva percorso, cercando di coordinare fra loro le fila del pensiero, di scoprirne l’origine e le cause, finì per persuadersi che il modo in cui s’era comportato nella vita mondana era stata l’educazione ricevuta a determinarlo. La sua inclinazione all’artificio, i suoi bisogni di eccentricità non erano insomma la conseguenza di studi speciosi, di esigenze estranee, di speculazioni quasi teologiche; erano in fondo aspirazioni, slanci verso un ideale, verso un mondo sconosciuto, un paradiso lontano, desiderabile come quello che promettono le Sacre Scritture.

Troncò a questo punto bruscamente il filo delle riflessioni.

«Andiamo,» si disse stizzito. «Sono anche più ammalato di quanto credessi. Eccomi ad argomentare dentro di me come un casista».

Restò sovrappensiero, agitato da una sorda inquietudine.

Certo, se l’osservazione di Lacordaire era esatta, egli non aveva nulla da temere: una conversione non si produce di colpo; occorreva perché arrivasse a maturazione, che il terreno fosse a lungo, metodicamente dissodato.

Eppure se i romanzieri parlano di colpo di fulmine nell’amore, non mancano teologi che parlano di colpo di fulmine nelle anime; se essi sono nel vero, nessuno è sicuro di non soccombere. Inutile in tal caso fare esami di coscienza, dare ascolto a presentimenti, prendere precauzioni; una psicologia del misticismo non esiste. Avveniva perché avveniva, ecco tutto.

«Eh, sto incretinendo; se la cosa continua, il timore della malattia causerà la malattia».

Riuscì a scuotere un po’ da sé quell’influsso; i ricordi gli diedero qualche tregua; ma altri sintomi morbosi comparvero.

Adesso, solo il soggetto delle antiche controversie lo assediava; il parco, le lezioni, i Gesuiti passarono in secondo piano; i problemi astratti lo dominarono in pieno. Suo malgrado, pensava a interpretazioni contraddittorie di dogmi, ad eresie estinte, registrate nell’opera sui Concili del padre Labbe. Gli tornarono a mente obbiezioni mosse dagli scismi, proposizioni bandite dalle eresie che divisero per secoli le Chiese d’Oriente e d’Occidente.

Qui, Nestorio contestava alla Vergine il nome di madre di Dio, sostenendo che nell’Incarnazione essa aveva portato in grembo non il Dio, sibbene la creatura umana; là Eutichio dichiarava che nelle sembianze il Cristo non poteva somigliare agli altri uomini, in quanto la Divinità s’era eletta domicilio nel suo corpo e ne aveva per conseguenza mutato interamente l’aspetto; là ancora, altri cavillatori negavano che il Redentore avesse avuto corpo e che la parola «corpo» dei libri santi s’aveva ad intendere in senso metaforico; mentre Tertulliano enunciava il famoso assioma poco meno che materialistico: «Incorporale è solo ciò che non esiste. Tutto ciò che esiste possiede un suo proprio corpo». Infine lo importunò la vecchia questione dibattuta per anni: «Cristo solo fu appeso alla Croce oppure la Trinità, una e trina, ha sofferto, nella sua triplice ipostasi sul legno del Calvario?»

Questi problemi lo ossessionavano, non gli davan tregua; e macchinalmente, quasi si ripetesse una lezione da tempo appresa, si poneva da sé le domande e si dava le risposte.

Per alcuni giorni fu nel suo cervello un fermentare di paradossi, di sottigliezze. Spaccava un capello in quattro; dipanava regole complicate come articoli di codice, che si prestavano a tutte le interpretazioni, a tutti i giochi di parola, che finivano in una giurisprudenza celeste, delle più sottili e barocche. Finché sotto l’influsso dei Moreau appesi alle pareti, tutte quelle astrazioni sparirono per lasciare il posto alla religione come spettacolo visivo.

Vide allora sfilare tutta una processione di prelati. Archimandriti, patriarchi sollevavano in alto, a benedire la folla genuflessa, braccia scintillanti d’oro; agitavano, nella lettura o nella preghiera, la candida barba. Vide sparire in buie catacombe file silenziose di penitenti; ergersi immense cattedrali, dove monaci biancovestiti tonavano dal pulpito.

Allo stesso modo che, dopo una presa d’oppio, bastava a De Quincey la parola Consul romanus per evocargli intere pagine di Tito Livio, per farlo assistere all’incedere solenne dei consoli, al formidabile mettersi in moto degli eserciti schierati; a lui bastava un termine teologico per animarsi, vedere maree di popolo; sullo sfondo sfolgorante di basiliche stagliarsi sagome di vescovi.

Sotto il fascino di quelle visioni, trascorreva d’età in età sino alle cerimonie religiose d’oggi; cullato in un mare di musica lamentevole e toccante.

Adesso non sottilizzava più, non aveva più dubbi; una sensazione indefinibile di timidezza e di rispetto si impadroniva di lui. La sensibilità dell’artista era soggiogata dall’arte con cui i riti cattolici erano congegnati; al loro ricordo, i suoi nervi trasalivano.

Ma ecco che in un improvviso impeto di ribellione, in un subitaneo voltafaccia, gli germogliavano in mente idee mostruose: la tentazione di commettere qualcuno di quei sacrilegi che il manuale per confessori prevede; di fare un uso turpe e obbrobrioso dell’acqua benedetta, dell’olio santo.

Di fronte a un Dio onnipotente, s’ergeva allora un rivale pieno di forza, il Demonio; e pareva a Des Esseintes che una terrificante grandezza dovesse scaturire da un crimine perpetrato in piena Chiesa da un credente che, in preda a un’orribile esultanza, a una gioia sadica, s’accanisse a bestemmiare, a coprir di contumelie, a caricare d’insulti gli oggetti del culto. Farneticamenti di magia, di messa nera, di tregenda, terrori di possessioni demoniache e d’esorcismo sorgevano in lui. Finiva per chiedersi se non commetteva sacrilegio a tener presso di sé oggetti che erano stati a suo tempo consacrati, carteglorie d’altare, pianeti, custodie di pissidi; e l’idea di trovarsi in peccato mortale in certo modo lo inorgogliva, lo risollevava. Assaporava in quel pensiero il gusto del sacrilegio; d’un sacrilegio però controverso, veniale in tutti i casi, perché quegli oggetti li aveva in grande pregio, non se ne valeva a scopi illeciti.

Si cullava così in pensieri prudenti e codardi; la timidezza gli impediva di giungere a crimini veri e propri; gli toglieva l’ardire necessario per commettere peccati spaventosi, volontari, reali.

Poco a poco alfine questo torturarsi gli diede tregua. Prese in quella vece a contemplare in qualche modo dall’alto, ad abbracciare nel suo complesso la Chiesa. Considerò l’influenza che da secoli di generazione in generazione essa esercita sull’umanità; se la figurò mentre, addolorata e solenne, denuncia all’uomo l’orrore del vivere, l’inclemenza del destino; gli predica la pazienza, la contrizione, lo spirito di sacrificio; ne medica le ferite, additandogli quelle sanguinanti del Cristo; gli garantisce ricompensa in cielo; promette agli afflitti il più eccelso seggio in Paradiso; persuade il nato di donna a patire, a offrire a Dio in olocausto le tribolazioni sofferte, gli oltraggi patiti, ogni sua traversia, ogni sua pena.

In tale missione la Chiesa diventava davvero eloquente: madre per gli infelici, piena di pietà per l’oppresso, di minaccia verso oppressori e tiranni.

Qui Des Esseintes toccava di nuovo terra.

Certo, egli prendeva atto con piacere che la Chiesa riconoscesse in tal modo il male del mondo; ma allora gli veniva di ribellarsi contro il vago rimedio ch’essa porge, alimentando nell’uomo la speranza di un’altra vita.

Schopenhauer rigettava i palliativi. La sua filosofia e quella della Chiesa partivano dalla stessa constatazione; anche lui prendeva le mosse dalla constatazione dell’ingiustizia e della turpitudine regnante nel mondo; lui pure lanciava con la Imitazione di Cristo il doloroso grido: «È veramente un’infelicità vivere sulla terra!» Anche lui predicava il nulla dell’esistenza, i vantaggi della solitudine; avvertiva l’umanità che, qualunque cosa facesse, da qualunque parte si rigirasse, restava infelice: se povera a cagione delle sofferenze che porta con sé l’indigenza; se ricca, per l’invincibile tedio che ingenera l’abbondanza.

Ma egli non propinava nessuna panacea; non ti cullava, per rimediare a mali inevitabili, in alcun miraggio. Schopenhauer non veniva a raccontarci la ripugnante storiella del peccato originale; non tentava neanche di provarti che è immensamente buono un Dio che protegge i furfanti, dà una mano agli imbecilli, opprime l’infanzia, abbrutisce la vecchiaia, punisce gli innocenti. Egli non esaltava la bontà di una Provvidenza che ha escogitato l’inutile, iniquo, stolto abominio della sofferenza fisica. Ben lontano da voler giustificare come necessari, al modo che fa la Chiesa, i dolori e le prove, egli nella sua sdegnata pietà esclamava: «Se ad un Dio si deve questo mondo, non ci terrei ad essere quel Dio: l’infelicità che vi regna mi strazierebbe il cuore.»

Ah lui solo era nel vero! Che diventavano tutte le farmacopee evangeliche a petto dei suoi trattati d’igiene spirituale?

Egli non pretendeva di guarire nessun male, non offriva agli infermi alcun compenso, alcuna speranza! ma la filosofia del Pessimismo era insomma la grande consolatrice delle menti elette, degli animi elevati. Essa rivelava la società qual’è, insisteva sulla stupidità congenere alla donna, ti additava i limiti, ti salvava dalle delusioni insegnandoti a ridurre al minimo possibile le speranze; di non concepirne affatto se ne hai la forza; a chiamarti infine fortunato se, mentre meno te lo aspetti, qualche massiccio tegolo non ti si abbatte sul capo.

Messasi per la stessa via dell’Imitazione di Cristo, ma senza perdersi in bui dedali, senza battere assurde strade, quella teoria metteva capo anche essa alla rassegnazione ed alla rinunzia.

Vero è che se questa rassegnazione, la quale scaturiva dalla pura e semplice constatazione d’un deplorevole stato di cose e dell’impossibilità di porvi un anche minimo rimedio, era accessibile ai ricchi di spirito, difficilmente si lasciava intendere dai poveri, dei quali la religione cullava i rancori e le collere.

Da quella filosofia Des Esseintes traeva un gran sollievo.

Gli aforismi del grande Alemanno calmavano il rovello della sua mente. E intanto, per i loro punti di contatto, le due dottrine si richiamavano l’una l’altra alla sua mente; ed egli non poteva scordare quel cattolicesimo così poetico, così toccante, nel quale era cresciuto, della cui essenza s’era un giorno imbevuto.

Questi ritorni alla fede, queste apprensioni religiose lo tormentavano, specialmente dacché la sua salute si andava alterando: coincidevano con la recentemente comparsa di disturbi nervosi.

Datavano dall’infanzia inesplicabili ribrezzi, brividi che gli ghiacciavano la spina dorsale e gli allegavano i denti, quando, ad esempio, vedeva torcere per strizzarla, della biancheria bagnata. Ribrezzi che non l’avevano lasciato mai; oggi ancora soffriva fisicamente se passava il dito sul gesso, se palpava dell’amoerro, se sentiva lacerare una stoffa.

Gli eccessi della vita da scapolo, l’esagerata tensione del cervello avevano sensibilmente aggravato quella nevrosi costituzionale, impoverito quel sangue già stanco per eredità. A Parigi aveva dovuto sottoporsi a trattamenti idroterapici per tremiti alle dita, dolori atroci, nevralgie che gli tagliavano la faccia in due, gli martellavano le tempie, trafiggevano come spilli le palpebre, provocavano nausee che solo sdraiandosi sul dorso all’ombra riusciva a combattere.

Grazie ad una vita più regolata, più tranquilla, quei sintomi erano poco a poco scomparsi. Ed ecco che ora ricomparivano sotto altra forma, invadevano tutto il corpo; dal capo i dolori si propagavano al ventre che aveva gonfio, indurito; un ferro rovente pareva gli forasse gli intestini, spossati da inutili conati. Poi una tosse nervosa, lacerante, secca che compariva ad ora fissa e durava sempre esattamente un certo numero di minuti, gli interruppe il sonno, lo strozzò.

Infine perdette l’appetito: acidità gasose, calde, aridi bruciori gli percorsero lo stomaco; soffocava. Dopo ogni tentativo di prender cibo, non poteva tollerare un panciotto che stringesse, era costretto a sbottonare i calzoni.

Soppresse le bevande spiritose, il caffè, il tè; bevve latticini, ricorse a docce fredde; s’impinzò d’assafetida, di valeriana, di chinino. Si risolse persino a fare qualche passeggiata nei giorni di pioggia, quando la campagna diventa silenziosa e deserta; si sforzò a camminare, a fare un po’ di moto.

Finì per rinunciare temporaneamente alla lettura; e, siccome s’annoiava a morte, per sbarcare l’interminabile giornata, si decise a mettere in atto un progetto che per amore dei suoi comodi, per pigrizia, dacché era Fontenay, differiva di giorno in giorno.

Non potendo cioè inebriarsi più di magie stilistiche, trovar tregua nel godimento che gli dava l’epiteto raro, l’aggettivo che, pur restando preciso, schiudeva alla fantasia dell’iniziato infinite prospettive; deliberò di completare l’arredamento, procurandosi preziosi fiori di serra. Quell’occupazione materiale lo distrarrebbe, gli allenterebbe i nervi, gli riposerebbe la mente.

Chi sa anche che, con lo spettacolo delle strane e smaglianti tinte, non avvenisse che quelle piante lo compensassero dei chimerici e reali colori dello stile di cui temporaneamente lo privava il digiuno letterario.

VIII

Per i fiori Des Esseintes aveva sempre avuto un grande amore; ma questa passione che al tempo delle sue gite a Jutigny abbracciava senza discernimento tutti i fiori s’era andata affinando; ed aveva finito per fissarsi solo su alcuni, su una loro aristocrazia.

Ormai da gran tempo egli disprezzava le piante banali che, al riparo d’un copertone o d’un ombrellone rosso stinto s’offrono sui mercati parigini, in vasi inaffiati, al passante.

Via via che i suoi gusti letterari, le sue esigenze estetiche s’erano raffinate, facendogli accettare più soltanto opere quintessenziate, distillate da cervelli tormentati e sottili; via via che s’era precisata in lui l’avversione per le idee di tutti; anche l’amore per i fiori s’era liberato d’ogni impurità, d’ogni scoria, s’era – come si direbbe per l’alcole – «rettificato».

Des Esseintes paragonava volentieri il vivaio d’un floricultore ad un mondo in miniatura, dove si trovavano rappresentati tutti i ceti sociali: i fiori poveri e canaglieschi dalle radici pigiate in una latta od in una terrina fuori uso, i fiori da bugigattolo, come ad esempio il garofano, che non stonano solo sull’orlo d’un abbaino; i fiori pretenziosi, convenzionali, stupidi, che sono al posto loro soltanto in portavasi di porcellana dipinti da signorinette: la rosa, poniamo; infine i fiori d’alto lignaggio, quale l’orchidea, delicata e piena di grazia, sensitiva e freddolosa; i fiori esotici, in esilio a Parigi, tenuti al caldo in palazzi di cristallo: i principi del regno vegetale, che se ne vivono in disparte e che più nulla hanno in comune con le piante della strada né con la flora piccolo-borghese.

Insomma, se una punta di interesse, di pietà Des Esseintes non poteva a meno di sentire ancora pel fiore plebeo che nei quartieri poveri campa a stento, avvelenato com’è dalle esalazioni delle chiaviche e delle condutture di piombo, detestava in compenso i fiori da mazzo che s’accordano così bene coi salottini crema ed oro delle case nuove; e gioia intera davan solo ai suoi occhi le piante rare, aristocratiche, venute di lontano, che da noi si mantengono in vita solo grazie a sottili accorgimenti, in fittizi climi torridi prodotti dalle ben regolate calorie delle stufe.

Ma per quanto definitiva, anche questa preferenza pel fiore di serra, non s’era sottratta a ritocchi suggeriti dal suo modo di vedere generale, precisatosi ormai in ogni campo; tanto che un tempo, a Parigi, l’inclinazione per l’artificio l’aveva portato a disdegnare il fiore vero, a posporlo alla sua perfetta imitazione, ottenuta mercé i prodigi della gomma elastica e del filo, della porcellana e del taffetà, delle carte e dei velluti.

Possedeva per ciò una sbalorditiva collezione di piante tropicali, foggiate dalle dita di artisti consumati.

Quei falsi seguivano la natura passo passo, la ricreavano. Prendevano il fiore al suo nascere, lo accompagnavano sino al suo completo sboccio, lo ritraevano sin nel declino; arrivavano a fissare le più labili sfumature, gli aspetti più fugaci del suo risveglio e del suo sonno. Copiavano il portamento dei petali piegati dalla brezza o gualciti dalla pioggia; mediante spruzzature di gomma, ne cospargevano di brina la corolla mattiniera. Mostravano la pianta in piena fioritura, quando i rami piegano sotto il peso della linfa ed allo spogliarsi del calice ed al cadere delle foglie, quando rizza il gambo secco od un frutto che s’accartoccia.

Di quell’arte stupefacente s’era a lungo compiaciuto. Ma ora vagheggiava di mettere insieme un’altra flora: dopo i fiori finti emulanti quelli veri, voleva fiori veri che emulassero fiori finti.

Messosi per questa via, ebbe poco da cercare: non si trovava ad abitare proprio al centro del paese dei più grandi floricultori?

Gli bastò visitare le serre di Val d’Aunay e del viale di Châtillon per tornarne col portafoglio vuoto, stanco morto; sbalordito delle stravaganze e magnificenze intravvedute.

Due giorni dopo avvenne la consegna; le piante riempivano più carretti.

Lista alla mano, Des Esseintes faceva l’appello delle piante, verificava una ad una le sue compere.

I giardinieri scaricarono per prima una intera collezione di Caladium: da gambi turgidi e villosi, enormi foglie si schiudevano a forma di cuore. Sebbene la parentela fosse evidente, non una specie si ripeteva.

Ce n’erano di sbalorditivi: alcuni tiravano al rosa, come il Caladium virginale, che pareva ritagliato in tela verniciata, in taffetà inglese gommato; altri, interamente bianchi come l’albano, che si sarebbe detto ricavato nella trasparenza d’una pleura bovina, nella vescica diafana d’un suino; alcuni, specialmente il Madama Mame, imitavano lo zinco, parodiavano scampoli di metallo stampato, tinti in verde imperatore, sporcati di sgocciolature di pittura a olio, di macchie di minio e di cerussa. Questi qui, ad esempio il bosforo, davano l’illusione d’un calicò inamidato, a bottoncini in rilievo cremisi o verde mirto; quelli là, come l’Aurora boreale, ostentavano una foglia color carne cruda, percorsa di costole purpuree, di venuzze, violacee: una foglia tumefatta, trasudante sangue e cancarone.

Con l’albana, l’Aurora, presentava i due poli opposti del temperamento della pianta: la Clorosi e l’Apoplessia.

Nuove varietà di Caladium vennero deposte a terra. Ostentavano, stavolta, una pelle artificiale, percorsa da false vene; e, per lo più, quasi lue e lebbra le rodesse, tendevano delle carni livide, marmorizzate di roseole, damascate di erpeti; altri mostravano la tinta viva delle cicatrici che si rimarginano o quella scura delle croste che si formano; altri erano coperti di bollicine, di cauterii, enfiate da scottature; altri ancora, presentavano epidermidi pelose, scavate da ulcere, sbalzate da carcinomi; certuni infine parevano coperti di medicazioni, spalmati di sugna nera mercuriale, d’unguento verde di belladonna; trafitti di bruscoli di polvere, di miche gialle di iodoformio.

Così adunati, quei fiori apparvero allo sguardo di Des Esseintes più mostruosi che non quando mescolati ad altri l’avevano sorpreso nella corsia a vetri delle serre.

«Accipicchio!» si disse entusiasmato.

Una nuova pianta, affine per la forma ai Caladium, l’Alocasia metallica, accrebbe ancora quell’entusiasmo. Questa qui, era spalmata d’uno strato verde bronzo e vi giocavano sopra riflessi d’argento. Era il capolavoro del fittizio; l’avresti presa per un tubo di stufa che il capriccio dell’artigiano avesse foggiato a ferro di picca.

Vennero quindi posti a terra ciuffi di foglie a losanga, verdebottiglia. Dal centro sorgeva una verghetta e vi tremolava in cima un grande asso di cuori verniciato come un peperone; come a beffarsi di tutti gli aspetti noti di piante, proprio d’in cima al cuore, d’un intenso cinabro, scaturiva una coda carnosa, cotonosa, bianco-gialla, a volte diritta a volte a cavatappi come un codino di maiale.

Era l’Anthurium, un’aroidea da poco importata dalla Columbia.

D’un assortimento di questa famiglia, faceva parte anche un Amorphophallus: pianta della Cocincina con foglie a spartipesce e lunghi gambi neri coperti di cicatrici, simili a membri deteriorati di negri.

Des Esseintes esultava.

Una nuova serie di mostri veniva intanto sfornata: delle Echinopsis che da piumaccioli di bambagia esprimevano fiori d’un rosa ignobile di moncherino; dei Nidularium che, tra lame di sciabola, lasciavano vedere budella squarciate e scorticate; delle Tillandsia Lindeni che cavavan fuori raschietti tutti denti, color mosto; dei Cypripedium, dalla forma complicata, incoerente, uscita dal cervello d’un progettista in un momento di pazzia.

Somigliavano ad uno zoccolo, ad una borsa per vuotarvi le tasche, al disopra della quale si rovesciasse indietro una lingua umana col frenulo stirato come se ne vedono nelle tavole che illustrano i trattati di malattie della gola e della bocca. Due piccole alette, tolte in prestito, si sarebbe detto, a un mulino per ragazzi, completavano quell’insieme barocco d’un disotto di lingua, color feccia di vino e ardesia, e d’una taschetta che trasudava dalla fodera una colla attaccaticcia.

Des Esseintes non riusciva a staccare gli occhi da questa orchidea oriunda dell’India.

I giardinieri, tediati da quegli indugi, presero ad annunciare essi stessi ad alta voce, via via che recavano i vasi, i nomi che leggevano sulle etichette.

Al suono dei nomi ostrogoti, Des Esseintes si volgeva sconcertato. Ecco l’Encephalartos horridus, un colossale carciofo di ferro arruginito come se ne vedono, destinati ad impedire le scalate, alla porta di castelli; il Cocos Micania, specie di palma gracile, finemente dentata, presa dentro un alto ciuffo di foglie fatte a pala doppia e semplice di remo; la Zamia Lehmanni, un prodigioso pan di cacio di Chester, confitto in terra d’erica, sormontato da un fascio di giavellotti dentati, di frecce da pellirosse; il Cibotium spectabile che batteva tutti i suoi colleghi per la pazza struttura, sfidava ogni fantasia lanciando di tra il fogliame palmato una enorme coda di orangotano, una scura coda villosa che s’incurvava in cima a mo’ di pastorale di vescovo.

Ma Des Esseintes dava loro un’occhiata e via. Impaziente aspettava la comparsa delle piante che più di tutte lo calamitavano: i vampiri vegetali, le piante carnivore; il Pigliamosche delle Antille dal lembo di felpa secernente una specie di succo gastrico, armato d’uncini che si ripiegavano uno sull’altro ad imprigionare l’insetto in un graticcio; la Drosera delle torbiere, manina sanguinaria irta di villi glandulosi; le Sarracene, i Cephalotus che spalancavano piccoli voraci imbuti capaci di smaltire e d’assimilarsi della carne vera e propria; infine i Nepenti d’una capricciosità di forma che sorpassa tutto ciò che di eccentrico si conosce nel mondo vegetale.

Des Esseintes volgeva e rivolgeva in mano il vaso in cui s’agitava questa stravaganza vegetale, né si saziava d’ammirarla.

Pareva fatta di gomma elastica. Di caucciù, aveva la lunga foglia allungata d’un cupo verde metallico; ma in vetta a questa foglia penzolava una lenza verde, scendeva un cordone ombelicale cui era appesa un’urna verdastra, screziata di viola, una specie di pipa tirolese di porcellana, un imprevedibile nido d’uccello che oscillava placido, lasciando scorgere un interno tappezzato di peluria.

«Oh questa, poi!» mormorò Des Esseintes.

Lo strapparono al suo giubilo i giardinieri che, impazienti d’andarsene vuotavano di quel che restava le carrette, scaricandone alla rinfusa Begonie tuberose e neri Croton di lamiera, picchiettati di minio.

Non restava che un nome sulla lista. Dov’era la Cattleya della Nuova Granata?

Gli indicarono una campanula alata, d’un lilla stinto, d’un malva quasi spento. S’accostò ad annusarla e subito, ributtato, indietreggiò. Ne usciva un odore d’abete verniciato, di scatola da giocattoli, che evocava la tristezza massacrante di un capodanno.

Meglio diffidarne, di quella pianta. Si rammaricò quasi d’averla accolta fra le piante inodore che possedeva, quell’orchidea, che col suo alito resuscitava i più spiacevoli ricordi!

Una volta, abbracciò con lo sguardo la marea di vegetali di cui il vestibolo traboccava. Mescolati come vien viene, incrocicchiavano spade, corti pugnali, ferri di lance. Era, visto nell’insieme, un esercito di verde irto d’armi, sul quale ondeggiavano, a mo’ di gagliardetti barbarici, fiori dalle tinte crude ed accecanti.

L’aria si rarefaceva; ed ecco sorger laggiù, dall’oscurità d’un cantuccio, strisciar raso terra, una luce d’un biancor sommesso. S’avvicinò; e vide ch’erano le Rizomorfe a spandere, respirando, quel chiaror velato di lampada da veglia.

«Chi direbbe che si tratta di piante stupefacenti?» pensò.

Si trasse da parte e giudicò d’un occhiata il complesso dei suoi acquisti.

I suoi voti erano esauditi.

Non una pianta pareva reale; si sarebbe detto che l’uomo avesse imprestato alla natura, per metterla in grado di foggiare quei mostri, la stoffa la carta la porcellana il metallo; e che quando la natura non ce l’aveva fatta ad imitare questi prodotti dell’uomo, si fosse vista costretta a ricopiare le membrane interne degli animali, a plagiare le tinte accese delle loro carni marcescenti, la magnifica laidezza delle loro cancrene.

«Tutto non è che lue» concluse Des Esseintes non riuscendo a staccar l’occhio dalle raccapriccianti tigrature dei Caladium, messe in evidenza da un raggio di luce.

Ed ebbe l’improvvisa visione d’una umanità senza tregua travagliata dall’antichissimo virus.

Dall’inizio del mondo, di padre in figlio, tutti gli esseri viventi si trasmettono l’inconsumabile eredità; l’eterno morbo che saccheggiò gli antenati dell’uomo, che scavò sin le ossa ora esumate degli antichi fossili.

La lue aveva percorso i secoli senza mai esaurirsi. Ancor oggi infieriva ammantandosi di sofferenze sornione, annidandosi sotto sintomi d’emicranie, di nevrosi e di gotte; ogni tanto aggallava attaccandosi di preferenza ad individui malnutriti, malcurati; scoppiando fuori in monete di oro, parando per ironia d’una collana di zecchini falsi la fronte dei poveri diavoli, stampando sulla loro pelle, per colmo di disdetta, l’insegna del danaro e del benessere.

Ed ora eccola lì che ricompariva, in tutto lo splendore primitivo, sul fogliame colorato di quelle piante!

«Bisogna però dire,» seguitò Des Esseintes tornando al punto di partenza del suo ragionamento, «bisogna però dire che nella maggior parte dei casi la natura è inetta per conto suo a procreare da sola specie così morbose e perverse. Essa non ci mette che la materia prima, il seme ed il terreno, la matrice insomma e gli ingredienti. È l’uomo che alleva la pianta, che la foggia, la colora, la scolpisce a modo suo. Per cocciuta, pasticciona e di corta vista ch’essa sia, la Natura s’è alla fine sottomessa; e il suo padrone è riuscito a trasformare con mezzi chimici i terreni, a servirsi di combinazioni, d’incroci preparati di lunga mano, a valersi di sapienti talee, di metodici innesti; ed ora le fa buttare dallo stesso ramo fiori di color diverso, escogita per lei nuove tinte, modifica a piacer suo la forma fissata da secoli delle sue piante, lavora ciò ch’essa ha appena digrossato, porta a compimento i suoi abbozzi, li segna del suo stampo, v’imprime il sigillo dell’arte.

«Non si può negare,» si disse Des Esseintes a mo’ di conclusione. «Nel giro di qualche anno l’uomo è in grado di produrre una selezione, a ottener la quale questa infingarda di natura impiegherebbe secoli. Non c’è dubbio: coi tempi che corrono i fioricultori restano i soli veri artisti.»

Avvertì una certa stanchezza; soffocava in quell’aria chiusa, assottigliata da tante piante. L’affaccendarsi di quei giorni l’aveva spossato; troppo repentinamente era passato da una vita sedentaria di recluso al moto e all’aria libera.

Si tolse di là e andò a sdraiarsi sul letto. Ma ormai l’avvio era dato e la fantasia anche nel sonno seguitò a dipanare la sua matassa e passò poco che rotolò in un cupo e sconnesso incubo.

Procedeva per un viale in mezzo ad un bosco. Cadeva la sera. Al suo fianco camminava una donna che egli non aveva mai conosciuto né visto. Sfiancata aveva capelli di stoppa, una faccia da mastino, guance cosparse di lentiggini; denti piantati di traverso sporgevano sotto un naso rincagnato.

Portava un grembiale bianco di bambinaia; sul petto un lungo fisciù a scacchi di cuoio; stivali a mezza gamba di soldato prussiano, una cuffia nera ornata di gale e guarnita d’un fiocco. Aveva l’aria d’una girovaga, l’aspetto d’una saltimbanca da fiera.

Quella donna, sentiva, era entrata da gran tempo nella sua intimità, s’era da gran tempo sistemata nella sua vita. Si chiedeva chi mai fosse; invano cercava di ricordarsi di dove venisse, come si chiamasse, che mestiere esercitasse, perché fosse al mondo.

Nessun ricordo lo soccorreva: il suo legame con lei restava inesplicabile ma non era per questo men certo.

Rovistava ancora nella memoria, quand’ecco apparire davanti a loro una strana figura a cavallo. Trottò per un minuto, quindi da sella si voltò.

A lui il sangue diede un tuffo; dall’orrore restò inchiodato dov’era.

Era verde quella faccia, ambigua, senza sesso; sotto palpebre violette occhi spaventosi s’aprivano d’un azzurro limpido gelato. Aveva intorno alla bocca tutto un rosario di bollicine. Dalle maniche a brandelli uscivano, nudi sino al gomito, braccia d’un’atroce magrezza, braccia di scheletro, che tremavano di febbre; in stivali troppo comodi, d’antica foggia guerriera, svasati all’orlo, cosce scarnite rabbrividivano.

Lo sguardo dell’apparizione, spaventoso, era fisso su Des Esseintes; lo trapassava come una lama, lo gelava sino alle midolla.

La donna mastino, più impazzita di lui di terrore, gli si strinse contro ed ululò a morte, arrovesciandogli il capo sul collo che lo spavento irrigidiva.

E di colpo gli si svelò il significato della spaventosa visione. Aveva dinnanzi a sé l’immagine della lue.

Incalzato dal terrore, fuor di sé, infilò una scorciatoia. Correndo a perdifiato, raggiunse un chiosco che sorgeva a sinistra, dentro un folto di piante di frassini là, in un corridoio, si lasciò andare per morto su una sedia.

Cominciava a riprender fiato, quando vicino a lui scoppiarono singhiozzi. Alzò il capo: gli era dinnanzi la donna mastino; lamentevole e grottesca, piangeva a dirotto; diceva d’aver nella fuga smarrito i denti e, per sostituirli, cavava di tasca pipe di terra, dal grembiule di bambinaia; ne spezzava le cannucce, se ne conficcava dei pezzi nei buchi delle gengive.

«Oh questa! Ma è matta!» si diceva Des Esseintes. «Come fanno a far da denti delle cannucce di pipa?» E cadevano difatti via via che la donna li metteva.

S’udì in quella un galoppar di cavallo che s’avvicinava.

Invase Des Esseintes un panico folle; le gambe gli mancarono sotto. Il galoppo diventava furioso. Scudisciato dalla disperazione, egli s’alzò; si gettò sulla donna che ora stava calpestando le coccie di pipa; la scongiurò di chetarsi: quello scalpiccio li farebbe scoprire. E siccome l’altra si dibatteva, la trascinò in fondo al corridoio, strozzandola per impedirle di gridare.

Ma ecco gli cade sott’occhio una porta di caffè, con persiane verniciate di verde; è senza nottolino; la spinge: si slancia e si ferma.

In faccia, al centro d’un’ampia radura, immensi, bianchi pierotti saltano come lepri nel chiaro di luna.

Lagrime di scoraggiamento gli salgono agli occhi. Mai, no, mai riuscirebbe a varcar quella soglia. «Mi schiaccerebbero,» pensa. E, quasi a giustificare quel timore, gli immensi pierotti si moltiplicano, si moltiplicano; con le loro capriole riempiono l’orizzonte, riempiono il cielo; che, smisurati come sono, urtano or dei piedi or del capo.

Il galoppo s’arrestò. Il cavallo era lì dietro una tonda finestrella apertasi nel corridoio.

Più morto che vivo, Des Esseintes si volse; attraverso la finestrella scorse delle orecchie diritte, una tastiera di denti gialli, della froge da cui uscivano getti di vapore appestato d’acido fenico.

S’accasciò: rinunciava alla lotta, alla fuga; chiuse gli occhi per non vedere l’atroce sguardo della Lue che, trapassando il muro, gli pesava sopra. Ma anche così quello sguardo s’incrociava sotto le sue palpebre chiuse, lo sentiva scivolare lungo la spina dorsale in sudore, per tutto il corpo inondato dove ogni pelo si rizzava.

Era ormai rassegnato a tutto; sperava anzi, per farla finita, nel colpo di grazia.

Trascorse un secolo che durò certo un minuto. Rabbrividendo, riaprì gli occhi. Non c’era più niente. Di colpo come in un trucco teatrale, in un cambiamento di scena istantaneo, ecco stendersi a perdita d’occhio un atroce paesaggio minerale, un paesaggio livido, deserto, scavato di burroni, morto; e illuminare quella desolazione una luce cheta, bianca che pareva tramandata da fosforo che si disciogliesse nell’acqua.

Qualche cosa da terra si mosse, divenne una donna pallidissima, nuda; con le gambe inguainate in calze verdi di seta.

La osservò con curiosità. Come arricciati da un ferro troppo caldo i suoi capelli s’increspavano, rompendosi in cima; urne di Nepente le pendevano agli orecchi; brillava nelle nari schiuse color di vitello lessato.

Sottovoce, con occhi vogliosi lo chiamò.

Egli non ebbe tempo di rispondere all’invito che già la donna si trasmutava. Riflessi di fuoco le guizzavano nelle pupille; le labbra si tingevano del furibondo rosso dell’Anthurium; i capezzoli, smagliavano d’un rosso lucido, come bacelli di peperone.

In un’improvvisa illuminazione: «Ah è il Fiore» si disse. E la manìa raziocinante persistendo nel sogno come già da desto, deviò dalle piante al Virus.

Allora notò che dall’irritazione seni e bocca parevano escoriati; scoperse sul corpo macchie di bistro e di rame. Sgomento, arretrò; ma l’occhio della femmina lo teneva sotto il suo fascino. Avanzava lentamente suo malgrado, affondando per resistere all’invito i calcagni nel terreno; lasciandosi cadere ma rialzandosi nonostante per procedere verso la donna.

Quasi la toccava, quando dei neri Amorphophallus scaturirono d’ogni parte e si lanciarono contro quel ventre che s’alzava e s’abbassava come un mare.

Egli li aveva scartati da sé, ributtati; provava un disgusto atroce a sentirsi brulicare tra le dita quei gambi caldi e rigidi.

Poi d’un tratto le odiose piante eran sparite, mentre due braccia lo attiravano, lo avvinghiavano. Una angoscia mai provata gli fece rintoccare il cuore a martello; ché gli occhi della donna si eran fatti d’un azzurro limpido gelato, raccapriccianti. In uno sforzo sovrumano tentò di sciogliersi da quell’abbraccio; con un gesto che lo irretì, lei lo trattenne, lo attirò a sé; ed egli vide con lo sguardo che gli si intorbidiva, vide tra le cosce levate in aria sbocciare il feroce Nidularium, che, perdendo sangue, sbadigliava tra lame di sciabola.

Già sfiorava di sé la laida piaga.

Venne meno, si destò di soprassalto, senza fiato, agghiacciato, folle di paura, sospirando:

«Ah non è che un sogno, grazie a Dio!»

IX

Gli incubi si rinnovarono; addormentarsi cominciò a fargli paura.

Restava ore intere insonne in una tensione febbrile o cadeva in sogni paurosi, interrotti dal sobbalzo di chi si sente mancar la terra di sotto, ruzzola di cima in fondo a una scala, senza trovare a che afferrarsi frana in un burrone.

La nevrosi, tenuta qualche giorno a bada, riprendeva più minacciosa; si rivelava per nuovi sintomi d’una gravità e d’un’ostinazione preoccupanti.

Adesso le coperte lo infastidivano, soffocava sotto le lenzuola; formicolii gli correvano per il corpo, bruciori, trafitture di spilli lungo le gambe.

Presto s’aggiunse un dolor sordo ai mascellari; e, alle tempie, la sensazione d’una morsa.

Le sue inquietudini crebbero.

Disgraziatamente mancavano i mezzi per contrastare i progressi del male. Invano aveva cercato di impiantare nel gabinetto da bagno degli apparecchi idroterapici. Le difficoltà che si presentavano gli fecero rinunziare al progetto. A parte il fatto che a Fontenay l’acqua era così scarsa che veniva erogata solo a certe ore, sarebbe stato impossibile farla salire all’altezza cui si trovava la casa.

Dovette di conseguenza rinunziare ai violenti getti d’acqua sulla spina dorsale: l’unico trattamento che, domando l’insonnia, gli avrebbe ridato la calma; e contentarsi di brevi spruzzature prese nel bagno o in un semicupio, di abluzioni fredde seguite da energetiche frizioni che il domestico gli praticava con un guanto di crine.

Ma il progresso della nevrosi non si arrestava per queste sommarie docciature; tutt’al più il paziente ci guadagnava qualche ora di sollievo, pagata cara del resto perché, dopo, gli accessi lo assalivano più dolorosi e violenti di prima.

Un tedio infinito lo accasciò.

La gioia già s’era inaridita di possedere una flora mirabolante; la struttura di quei mostri vegetali, le stranezze delle loro tinte non gli cagionavano più alcuna sorpresa. Aggiungi che a dispetto delle cure di cui le circondava, le piante per la maggior parte intristirono; le fece portar via, ma la sua irritabilità era giunta a tale che per qualche tempo lo indispose il vedere il loro posto vacante.

Per distrarsi ed ammazzare il tempo che stentava a passare, ricorse alla sua raccolta d’incisioni, e riordinò i Goya che possedeva.

Le prime impressioni di certe tavole dei «Capricci», riconoscibili per prove dal tono rossastro e acquistate a suo tempo nelle aste a peso d’oro, gli spianarono la fronte. Preso a mano dalla fantasia del pittore, s’immerse nelle contemplazioni di quelle scene che davano le vertigini: versiere che cavalcavano gatti, donne che s’accanivano a cavar denti a un impiccato; banditi, succubi, démoni e nani.

Di Goya percorse quindi tutte le altre serie di acqueforti e d’acquetinte, i «Proverbi» d’un così macabro orrore; i soggetti di guerra schizzati con tanta fredda rabbia; infine la tavola della «Garrotta». Prediligeva, di questa, una mirabile prova tirata per esperimento, stampata su carta spessa priva di colla e che serbava nella pasta le impronte dei regoli di stamperia.

Il selvaggio estro, il talento aspro, eccessivo di Goya lo conquideva; e tuttavia un po’ gliene voleva per l’ammirazione che la sua opera aveva riscosso presso tutti; tanto che da anni aveva rinunziato a mettere quelle incisioni in cornice per timore che, esponendole, il primo venuto si sentisse in dovere di snocciolare, vedendole, delle asinerie e d’estasiarsi davanti ad esse d’un entusiasmo imparaticcio.

Lo stesso avveniva per i suoi Rembrandt, che egli si guardava ogni tanto in segreto.

E infatti, com’è vero che il più bel motivo musicale diventa triviale, intollerabile appena tutti lo gorgheggiano e se lo appropriano gli organetti, così l’opera d’arte che riscuote il plauso dei falsi artisti, che non è negata dagli sciocchi, che non si contenta d’entusiasmare soltanto i pochi, diventa, anch’essa, per ciò stesso, agli occhi degli iniziati, contaminata, dozzinale, poco meno che indisponente.

Del resto che all’autentica opera d’arte non andasse solo l’ammirazione dei pochissimi intenditori, era questo per Des Esseintes uno dei più grossi dispiaceri della vita.

Successi di pubblico, difficili a spiegare, gli avevano già guastato per sempre quadri e libri che un tempo gli eran cari; vedendo quelle opere riscuotere il plauso della maggioranza egli finiva per scoprire in esse impercettibili pecche; e, ripudiandole, chiedevasi se per caso il suo fiuto non s’andasse ottundendo, non pigliasse abbagli.

Chiuse le cartelle; e, disorientato, ripiombò nella tetraggine senza causa che ben conosceva.

Per cambiare il corso ai pensieri, ricorse a letture blande, calmanti; sperò che le malvacee dell’arte potessero recargli refrigerio; s’applicò alla lettura di quei libri che fan la gioia dei convalescenti e delle persone cagionevoli, cui le opere titaniche o solo più ricche di fosforo darebbero l’emicrania.

Senonché l’effetto dei romanzi di Dickens fu l’opposto di quello che si riprometteva. Quei ritrosi fidanzati, quelle eroine protestanti accuratamente accollate, si amavano fra le nuvole, si limitavano ad avvallare gli occhi, a farsi di porpora, a lacrimare di felicità, stringendosi a vicenda le mani.

All’istante, quell’esagerata pudibonderia lo fece balzare al polo opposto; per legge di contrasto, saltato il fosso, cercò scampo in ricordi piccanti, in visioni corpose; pensò ad accoppiamenti frenetici, a bocche che si mescolano, a baci in cui le lingue s’incontrano, a quei baci che il riserbo ecclesiastico designa col nome di colombini.

Col libro che chiuse bandì da sé l’ipocrita ritrosaggine inglese; e prese a rimuginare sui peccatuzzi, sui salaci preludi all’amore che la Chiesa riprova.

I suoi sensi non restarono sordi; la frigidità del cervello e del corpo, che egli credeva definitiva, si dissipò. La solitudine agì ancora sul dissesto dei suoi nervi. Una volta in più lo ossessionò, non già la religione, sì la malizia dei peccati e degli atti che la religione condanna. Non vide più altro che quello che la Chiesa non si stanca mai di deprecare e di minacciare di castigo. La carne sorda da mesi, stimolata in un primo tempo e irritata dalle pie letture, risvegliata quindi, resuscitata in una crisi di nevrosi dalla pudibonderia d’oltre Manica, s’impennò. Dall’eccitazione dei sensi ricondotto al passato, sguazzò nel ricordo delle antiche cloache.

S’alzò e, non senza nostalgia, aprì una scatoletta d’argento dorato dal coperchio cosparso di venturine.

Era piena di confetti viola; ne prese uno, lo palpeggiò fra le dita, la mente alle strane virtù di quella chicca candita, come brinata di zucchero.

Un tempo, quando già l’impotenza s’era dichiarata, e che pure il suo pensiero senza amarezze, senza rimpianti, senza nuovi desideri, tornava alla donna, si metteva sulla lingua uno di quei confetti, lasciandovelo fondere; e subito sorgevano in lui, infinitamente soavi, ricordi sbiaditissimi, languidissimi delle antiche lascivie.

Quei confetti ideati da Siraudin e che andavano sotto il ridicolo nome di «Perle dei Pirenei», contenevano una goccia di profumo di sarcanto, una goccia d’essenza femminile cristallizzata in una briciola di zucchero; penetravano le papille gustative, evocavano rimembranze d’acqua annebbiata da rari aceti, rimembranze di baci intimissimi, tutti impregnati di odori.

Di solito egli sorrideva aspirando quell’aroma di amore, quell’accenno di carezze che gli metteva un po’ di nudità nella fantasia e rianimava per un attimo il sapore, che non è molto adorava, di certe donne.

Questa volta il loro effetto non fu più così discreto; non ravvivò più solo l’immagine di dissolutezze lontane e confuse. Lacerò i veli, gli mise sott’occhio la realtà corporea, urgente e brutale.

In testa alla sfilata delle amanti di cui il confetto lo aiutava a ravvivare i tratti con nettezza, una si arrestò.

Mostrava una forte dentatura smagliante, pelle rosea dappertutto, serica, naso tagliato obliquo, occhi di sorcio, capelli biondi tagliati corti, a ricciolini.

Era Miss Urania; un’americana dal corpo snello e ben fatto, le gambe nervose, una muscolatura d’acciaio delle braccia di ghisa.

Era stata una delle acrobate più in vista del circo.

Des Esseintes per sere e sere l’aveva osservata nei suoi esercizi; sin dalla prima volta, gli era apparsa quale era veramente, una solida bellezza; ma non aveva provato alcun desiderio d’avvicinarla. Urania non aveva nulla che la segnalasse alle voglie di un disappetente come lui.

Ciò non tolse che tornasse a vederla; attirato al Circo non sapeva da che, spinto da un sentimento che non avrebbe saputo definire.

Ed ecco, a forza di studiarla, strambe idee germogliargli in capo. Più ammirava l’elasticità e la forza di quel corpo, più notava prodursi in esso una illusoria inversione di sesso; la grazia delle moine, i vezzi e le civetterie della femmina si eclissavano ogni volta di più, mentre ogni volta più s’accentuavano le attrattive d’agilità e di forza di un maschio. In breve dopo essere stata da principio donna, dopo aver esitato e rasentato quindi l’androgino, pareva ora precisarsi, decidersi per l’altro sesso, convertirsi completamente in maschio.

«Allora» si disse Des Esseintes, «allo stesso modo che un giovanottone s’innamora di una ragazzina esile, questa saltimbanca sarà per istinto portata a amare un essere debole, arreso, senza fiato come me.»

A forza di esaminarsi, di confrontarsi, finì per avere l’impressione che a sua volta lui s’infemminisse. Bastò perché ambisse di possedere quella donna; non altrimenti della fanciulla clorotica che sospira dietro il massiccio ercole che in un amplesso la potrebbe stritolare.

Questo scambio di sesso fra Miss Urania e lui lo aveva esaltato: «Siamo fatti un per l’altro» giurava. All’improvvisa ammirazione per la forza bruta fino allora detestata, venne infine ad aggiungersi l’irresistibile attrattiva del fango, della bassa prostituzione, felice di pagar care le grossolane carezze d’un bulo.

Nell’attesa di decidersi a fare dell’acrobata la sua amante, Des Esseintes cercava conferma alle sue fantasticherie mettendo sulle ignare labbra di lei cose che pensava; sforzandosi di leggere il suo stesso desiderio nel sorriso professionale dell’istriona che volteggiava sul trapezio.

Una sera finalmente si risolse a affidare alle maschere una parola per lei.

Miss Urania giudicò necessario non cedere senza il preliminare di un po’ di corte; tuttavia non si difese granché, sapendo, per sentito dire, che Des Esseintes era ricco e che il suo nome era un’ottima raccomandazione per le donne che vogliono far carriera.

Senonché appena i suoi voti furono esauditi, Des Esseintes si trovò deluso, al di là d’ogni credere. S’era figurato l’americana stupida e bestiale come un lottatore di piazza; e disgraziatamente la sua stupidità era tutta femminile. Mancava sì di educazione e di tatto: non aveva né buon senso né spirito; e a tavola dava prova di un appetito animalesco. Ma restava intatta in lei l’infantilità donnesca dei sentimenti; aveva la parlantina e tutta la civetteria delle ragazze che hanno la testa piena di fanfaluche; se il corpo aveva qualche cosa di virile, nulla di tale si riscontrava nelle idee.

Aggiungi che a letto mostrava un ritegno puritano: nessuna mai di quelle brutalità d’atleta che egli, pur temendole, s’augurava; né era affatto, come per un momento egli aveva sperato, soggetta agli sconcerti del suo sesso.

Eppure, se avesse ben sondato il vuoto delle aspirazioni erotiche di quella donna, forse Des Esseintes vi avrebbe scorto dell’inclinazione verso un essere delicato e gracile, verso un temperamento opposto al suo; ma allora avrebbe scoperto che quella preferenza non andava già ad una ragazzetta ma ad un giovanottello mingherlino e mattachione, ad un lepido e magro pagliaccio.

Cosicché, Des Esseintes dovette per forza rientrare nella sua parte d’uomo, per un momento dimenticata: la femminilità, la debolezza che si era attribuito, il bisogno di accattare protezione, la stessa paura, sparirono; l’illusione non era più possibile: miss Urania era un’amante come qualunque altra; non giustificava in nessun modo la curiosità cerebrale che aveva suscitato.

Sebbene il fascino di quella freschezza fisica, di quella prepotente bellezza, avesse da principio incantato e trattenuto Des Esseintes, egli cercò subito di sottrarsi da quel legame e ne precipitò la rottura; la sua precoce impotenza non faceva che aggravarsi davanti alle glaciali carezze, alla ritrosa indolenza di quella donna.

Eppure ecco che era lei la prima su cui il suo ricordo s’indugiava nel rievocare le trascorse lussurie; ma in fondo se quella donna gli si era stampata nel ricordo più profondamente di tante altre, di vezzi meno deludenti e che gli avevano dato ben più intensi piaceri, ciò nasceva dal fatto che al suo fianco Des Esseintes aveva respirato un sentore d’animale sano e florido, un traboccare di salute che era proprio il contrario di questa sua povertà di sangue, mascherata di profumi, di cui riconosceva il delicato tanfo di muffito nel confetto di Siraudin.

Come un’antitesi olfattiva, miss Urania s’imponeva fatalmente al suo ricordo; ma quasi subito, urtato dall’imprevisto di quel sentore crudamente naturale, Des Esseintes ritornava ad effluvi più civili e correva col pensiero all’altre amanti: esse in frotta si pigiavano alla sua memoria, ma su tutte ora s’ergeva quella che per la sua mostruosità l’aveva per mesi e mesi così a fondo appagato.

Era questa una piccola bruna; magra, nera di occhi, dai capelli impomatati così aderenti che parevano inverniciarle il capo, divisi ad una tempia da una scriminatura maschile. L’aveva conosciuta in un caffè concerto dove si produceva come ventriloqua.

Tra lo stupore di un pubblico che la sua bravura metteva a disagio, faceva parlare uno alla volta dei ragazzi di cartone disposti a canne di organo su delle sedie; conversava con fantocci che parevano vivi; s’udivano nella sala ronzare le mosche intorno ai lampadari e il brusio di un pubblico ammutolito, stupito di trovarsi lì, e che d’istinto si tirava indietro nei sedili quando lo rasentava il rotolare d’immaginarie carrozze che parevano attraversare il teatro dall’ingresso al palcoscenico.

Des Esseintes era rimasto affascinato; mille idee gli germogliarono in capo. S’affrettò per prima cosa a far capitolare, a biglietti di banca, la donna che, rappresentando il tipo opposto dell’americana, gli piacque.

Quella brunetta che s’impregnava di profumi malsani e stordenti, era come temperamento un vulcano in eruzione. Des Esseintes ebbe bello barare al gioco; in poche ore si ridusse un cencio. Ma continuò lo stesso a lasciarsi compiacentemente demolire da lei, perché, più dell’amante, era il fenomeno che lo attirava.

Nel frattempo i progetti che la donna aveva fatto nascere s’erano maturati; e un bel giorno Des Esseintes si decise ad esaudire fantasie vagheggiate sin allora inutilmente.

Fece recare una sera una piccola Sfinge in marmo nero: accovacciata nella posa classica, le zampe allungate, la testa rigida eretta; ed una Chimera di terracotta policroma che inalberava una criniera arruffata, dardeggiava sguardi feroci, con le volute della coda si sferzava i fianchi gonfi come mantici di forgia.

Collocò i due mostri ad un capo della stanza; spense le lampade in modo che solo la brace del camino diradasse il buio. Al rossastro barlume gli oggetti nell’ombra grandeggiavano. S’allungò quindi su un divano a fianco della donna, immobile, accesa in viso dal riflesso d’un tizzone.

Con strane modulazioni di voce ch’egli le aveva a lungo pazientemente appreso, le labbra chiuse, lo sguardo altrove, la ventriloqua animò i due mostri. E nel silenzio notturno il meraviglioso dialogo ebbe inizio tra la Chimera e la Sfinge, pronunciato da voci fonde e gutturali, prima roche poi acute che non avevano quasi nulla di umano.

«Arréstati, Chimera.»

«No. Giammai.»

Cullato dalla splendida prosa di Flaubert, l’uomo ascoltava fremente il terribile duetto; e brividi lo corsero dalla nuca ai calcagni quando la Chimera proferì la solenne magica frase:

«Nuovi profumi cerco, fiori più vasti, piaceri mai provati.»

Ah era di lui che come in un incantesimo parlava l’arcana voce; era di lui la febbre d’ignoto di cui diceva; suo l’ideale inappagato, il bisogno di sottrarsi alla spaventosa realtà dell’esistenza, di varcare i limiti imposti al pensiero, d’andar tentoni senza approdar mai ad una certezza, nelle nebbie che s’estendono negli al di là dell’arte!

Tutta l’inutilità dei suoi conati gli strizzò il cuore. Timido si strinse alla donna taciturna, rifugiandosi come un bambino contro di lei, senza neanche avvertire l’aria annoiata della commediante, costretta a rappresentare una parte, a continuare il suo mestiere anche in casa propria, in ore di riposo, lontano dalla ribalta.

La relazione seguitò. Ma presto l’impotenza di lui s’aggravò: l’eccitazione cerebrale non bastò più a fondere il gelo dei sensi; i nervi non obbedivano più alla volontà. Cadde in balia d’una demenza erotica senile.

Vedendosi ogni volta più irresoluto presso l’amante, ricorse all’afrodisiaco più efficace in queste congiunture, alla paura.

Mentre abbracciava la donna, una voce avvinazzata scoppiava di dietro all’uscio:

«M’apri sì o no? Che forse non lo so che sei con un merlo! Aspetta, aspetta me, ora, baldracca!»

Lì per lì, come i viziosi che eccita il timore d’esser colti sul fatto mentre si sfogano all’aperto, su una proda, in giardini pubblici, in un vespasiano o su una panchina, Des Esseintes recuperava per un attimo le forze, si precipitava sulla ventriloqua, la cui voce continuava il chiasso di là dell’uscio; ed in quel corpo a corpo, in quel panico d’uomo minacciato, interrotto nella sua oscenità, incitato a spicciarsi, provava godimenti inauditi.

Disgraziatamente quelle sedute durarono poco; sebbene compensata con straordinaria larghezza delle sue prestazioni, la ventriloqua finì per metterlo alla porta; e la sera si diede ad un giovanottone d’esigenze meno complicate e di reni più solide.

Come Des Esseintes l’aveva rimpianta! Al ricordo delle sue arti, divenne insipida ogni altra donna. Persino i corrotti vezzi dell’infanzia perdettero sapore: con tale disgusto subiva quelle smorfiette sempre eguali da non sentirsi più il coraggio d’affrontarle.

Un giorno che passeggiava solo sul viale Latour-Maubourg rimasticando fra di sé la sua nausea, fu avvicinato nei pressi degli Invalidi da un adolescente che lo pregò d’insegnargli la via più corta per recarsi in Rue de Babylone.

Des Esseintes gliela indicò; e, siccome era diretto anche lui da quelle parti, fecero insieme un tratto di strada.

«Allora» insisteva colui camminandogli a fianco «allora lei crede che se prendessi a sinistra la farei più lunga. Eppure m’avevano detto che tagliando pel viale scorcerei.»

La sua voce era supplichevole, timida; sommessa insieme e carezzevole. Sorpreso da quella insistenza, Des Esseintes lo guardò meglio.

Pareva scappato di collegio; indossava una giacchetta strimenzita di lana scozzese che, oltrepassando di poco le reni, gli modellava le anche ed i calzoni aderenti; il colletto rovesciato s’apriva su una cravatta a sboffo, d’un blu chiaro a vermicelli bianchi, di foggia La Vallière. Aveva in mano un libro di scuola, rilegato in cartone, ed in capo una bombetta scura a falde piatte.

Il viso era inquietante; pallido e tirato, abbastanza regolare, incorniciato da lunghi capelli neri, lo illuminavano dei grandi occhi umidi cerchiati, vicini al naso punteggiato di rossori; sotto cui si schiudeva una bocca piccola, ma di labbra carnose, segnate in mezzo da un solco come ciliegie.

Si fissarono in faccia un minuto; sotto lo sguardo dell’altro, l’adolescente abbassò gli occhi e gli si fece più presso. Presto il suo braccio sfiorò quello dell’uomo, che rallentò il passo e prese ad osservare pensoso l’andatura dondolante dell’altro.

E dal casuale incontro era nata una diffidente amicizia che si protrasse per mesi.

Des Esseintes ancora adesso non poteva pensarci senza fremere, mai egli aveva subìto un più attirante e dispotico ascendente; mai aveva conosciuto rischi come quelli; mai s’era sentito più dolorosamente appagato. Dei ricordi erotici che lo assediavano nella solitudine questo era il più pungente. Per esso tutto il lievito di perversità che può in sé contenere un cervello sovreccitato dalla nevrosi, fermentava; e per crogiolarsi in quei ricordi, in quella dilettazione morosa come i teologi chiamano questo rimuginare vecchi obbrobri, egli mescolava alla rievocazione fisica ardori mistici, ravvivati dall’antica lettura dei casisti, dei Busembaum e dei Diana, dei Liguori e dei Sanchez, dov’essi trattano dei peccati contro il sesto ed il nono Comandamento.

La religione facendo nascere in quell’anima che essa aveva cresciuto e predisposta forse da un’eredità che datava dal regno di Enrico III, un ideale trascendente, v’aveva pure fatto fermentare l’illecito ideale della voluttà; ossessioni libertine e mistiche che confondendosi insieme, gli assediavano il cervello assetato d’una perenne brama di fuggire alla volgarità, di perdersi, lontano dalle consuetudini consacrate, in estasi nuove, in crisi celesti o maledette, del pari spossanti per la dispersione di fosforo che portano seco.

Ora egli usciva da quelle fantasticherie annientato, spezzato, quasi boccheggiante; ed accendeva lampade e candele, s’inondava di luce, nella speranza di percepire così meno distintamente che al buio, il batter sordo, persistente, intollerabile delle arterie che gli pulsavano frenetiche sotto la pelle del collo.

X

Nel corso della curiosa malattia che devasta le razze di sangue depauperato sùbite bonaccie seguono alle crisi. Senza che potesse spiegarsene la causa, un bel mattino Des Esseintes si destò del tutto rimesso; scomparsa la tosse che pareva divellergli i visceri; non più cunei nella nuca, conficcati a colpi di maglio; sì un indicibile senso di benessere, una levità nel cervello; i pensieri si schiarirono: da opachi e torbidi divennero fluidi e iridati come bolla di sapone delicatamente sfumata. Questo stato di grazia durò qualche giorno. Poi ecco un pomeriggio fare improvvisamente la loro comparsa allucinazioni olfattive: gli invase la camera odor di frangipana.

Si assicurò se ve ne fosse una fiala sturata; non c’era; passò nello studio, nella sala da pranzo: dappertutto quell’odore. Sonò. «Senti qui qualche odore?» chiese al servo accorso. Quello annusò l’aria: «no, nessun odore.»

Non restava più dubbio; la nevrosi tornava dissimulata sotto un nuovo inganno dei sensi.

Noiato dalla tenacia di quell’inesistente profumo, pensò di stordirsi con profumi reali, nella speranza che questa omeopatia nasale lo guarisse o almeno lo scampasse dal supplizio dell’importuna frangipana.

Andò nel gabinetto da bagno, dove, presso un bacile battesimale che gli serviva da catinella, sormontato da una cornice in ferro battuto imprigionante, a mo’ di balaustra argentata di luna, l’acqua verde e come stagnante di un lungo specchio, fiale d’ogni foggia e dimensione s’allineavano su mensolette di avorio.

Le tolse di là e le dispose in due file sur un tavolo: quella dei profumi semplici, vale a dire degli estratti e delle essenze; e quella dei profumi composti, chiamati con termine generico bouquet o mazzolini d’odore.

Ciò fatto si sprofondò in una poltrona e chiamò a raccolta le sue idee.

Da anni Des Esseintes era esperto nella scienza del fiuto. Non meno della vista e dell’udito egli stimava l’odorato capace di godimenti. Ogni senso, a suo avviso, purché a ciò disposto da natura e debitamente educato, era in grado di percepire nuove sensazioni, di scinderle, d’associarle, sino a comporre con esse ciò che costituisce opera d’arte.

Secondo lui insomma, non era per niente più strana l’esistenza di un’arte basata sui profumi che quella che si vale d’onde sonore o di raggi variamente colorati. Soltanto che come, senza una particolare attitudine sviluppata dallo studio, nessuno può distinguere la tela di un grande pittore da una crosta qualsiasi, un motivo di Beethoven da un’aria di Clapisson, allo stesso modo nessuno può neanche, se non è un iniziato, distinguere alla prima un bouquet creato da un autentico artista da un miscuglio qualsivoglia messo in commercio da un industriale e destinato alla vendita nelle drogherie e nei bazar.

Nell’arte degli odori, ciò che più di tutto lo aveva interessato era la possibilità di ottenere artificialmente profumi del tutto identici a quelli in natura.

Quasi mai, infatti, i profumi ci vengono dai fiori di cui recano il nome. Il profumiere che unicamente dalla natura traesse gli elementi della sua arte, non otterrebbe che un prodotto bastardo, privo di consistenza e di stile; dato che l’essenza che si ricava dalla distillazione del fiore non offre che una pallida e volgarissima analogia con la fragranza, con gli effluvi che la pianta sprigiona quando fiorisce in piena terra. Così, se si eccettua l’inimitabile gelsomino che si rifiuta ad ogni similitudine, ad ogni contraffazione, che rigetta persino ogni pressapoco, gli altri fiori sono riprodotti esattamente nella loro fragranza da alleanze di alcolati e di spiriti che involano al modello la sua stessa personalità e v’aggiungono quel nonnulla, quel tanto di più, quell’aroma inebbriante, quel raro tocco che fa l’opera d’arte.

In conclusione, nella profumeria l’artista perfeziona l’opera greggia della natura, sfaccetta l’odore, lo monta come il gioielliere affina l’acqua di una pietra e la pone in valore.

Poco a poco gli arcani di quest’arte, fra tutte la più negletta, s’erano aperti a Des Esseintes che decifrava ormai la sua lingua, varia e altrettanto suggestiva di quella letteraria, il suo stile di una inaudita concisione sotto quella apparenza vaga e fluttuante. Per ciò gli era stato d’uopo dapprima compulsare la grammatica, intendere la sintassi degli odori, imbeversi, sino a possederle, delle regole che li governano, ed una volta famigliarizzatosi con quel gergo, paragonare le opere dei maestri: degli Atkinson e dei Lubin, dei Chardin e dei Violet, dei Legrand e dei Piesse; smontare la costruzione delle loro frasi; valutare la proporzione delle parole, e la disposizione dei periodi. Non solo: occorreva spesso appoggiare con l’esperienza la teoria, non di rado incompleta e banale.

La profumeria classica era, a dir vero, poco varia, pressoché incolore. S’atteneva ancora al monotono ricettario fissato dagli antichi alchimisti; procedeva a caso, affidata ai vecchi lambicchi, finché non s’arrivò allo sboccio del romanticismo, che modificò anche lei, la ringiovanì, la rese più duttile e malleabile.

La sua storia seguiva passo passo, presso di noi, quella della lingua.

Lo stile della profumeria Luigi XIII, composto di ingredienti cari all’epoca, di polvere di riso, di muschio, di zibetto, d’acqua di mirto – nota prima sotto il nome di acqua degli angeli – bastava a stento ad esprimere le grazie altezzose, le tinte un po’ crude del tempo che ritroviamo in certi sonetti di Saint Amand.

Più tardi, con la mirra, l’olibano, gli odori mistici, potenti ed austeri, potè quasi emulare il portamento pomposo del secolo d’oro, i ridondanti artifici dell’oratoria, lo stile largo, sostenuto, numeroso di Bousset e dei grandi predicatori. Più tardi ancora le grazie stanche e sapienti della società francese sotto Luigi Quindici trovarono più facilmente la loro traduzione nella frangipana e nella marescialla: che diedero in certo modo la sintesi stessa dell’epoca. Quindi, dopo l’apatia e il tedio del primo impero che abusò d’acqua di Colonia e di preparati al rosmarino, l’arte dei profumi si lanciò, sulle orme di Victor Hugo e di Gautier, verso i paesi del sole; creò delle acque orientali, dei mazzi simbolici folgoranti di spezie; scoprì tonalità nuove, antitesi sino allora inosate; scelse e riprese antiche sfumature, le complicò, le affinò, le assortì; ripudiò infine risolutamente la volontaria decrepitezza cui l’avevano ridotta i Malesherbe, i Boileau, gli Andrieux, i Baour-Lormian, dozzinali distillatori dei suoi poemi.

Né, dal 1830, questa lingua era rimasta stazionaria; s’era ancora evoluta, e, modellandosi sul progresso del secolo, era entrata in lizza con le altre arti; s’era pur essa piegata ai voti degli intenditori e degli artisti, lanciandosi all’imitazione di ciò che è in Cina e Giappone; immaginando album di profumi; imitando i mazzi di fiori di Takeoka; ottenendo, con lo sposare la lavanda al garofano l’odore del Rondeletia; coll’alleare il pasciulì alla canfora, l’aroma singolare dell’inchiostro di China; col mescolare limone, garofano ed essenza di fior d’arancio, l’effluvio della Hovenia del Giappone,

Des Esseintes studiava, analizzava l’anima di quei fluidi; procedeva all’esegesi di quei testi; si divertiva, per suo piacere personale, a fare con essi la parte dello psicologo; a smontare e rimontare gli ingranaggi di un’opera, a svitare i diversi pezzi che entrano nella struttura di un effluvio composito; ed in tale esercizio il suo odorato era giunto ad una sicurezza d’assaggio pressoché infallibile.

Come ad un negoziante di vini basta aspirarne una goccia per riconoscerne la provenienza; come un negoziante di luppolo ne annusa un sacco e subito si rende esatto conto di quel che vale; come un cinese che ne faccia traffico può dichiararti lì per lì di dove viene il tè che odora, dirti in quali fattorie dei monti Boei, in che convento buddista è stato coltivato; la stagione in cui le foglie furono colte, precisarti il grado di torrefazione, l’influsso che subirono dalla prossimità di susini in fiore, di Aglaia, d’Olea fragrans, di tutti i profumi che ne modificano la natura ed aggiungono al suo un inaspettato spicco, introducono nel suo aroma un po’ arido, un sentore di fiori freschi lontani; – non altrimenti Des Esseintes, respirando un accenno d’odore, era in grado di raccontarvi lì per lì quali dosi entravano nella sua miscela, di spiegare di quella miscela la psicologia, quasi quasi di proclamare il nome dell’artista che l’aveva scritto, che vi aveva impresso il suggello inconfondibile del suo stile.

Superfluo aggiungere ch’egli possedeva l’intera serie degli ingredienti usati dai profumieri; aveva sinanco dell’autentico balsamo della Mecca, l’estremamente raro profumo che si raccoglie solo in certe parti dell’Arabia Petrea e il cui monopolio appartiene al Sovrano.

Adesso, seduto, nel suo gabinetto da bagno davanti a quella tavola, vagheggiava di creare un nuovo bouquet; preso da quell’attimo di esitazione ben noto agli scrittori che, dopo mesi di riposo, s’accingon a metter mano ad un’opera nuova.

Non diversamente di Balzac che, per darsi l’avvio, non poteva a meno di annerire una risma di carta, Des Esseintes ritenne necessario rifarsi prima la mano con qualche lavoretto senza importanza. Nell’intento di ottenere dell’eliotropio, soppesò fiale di mandorla e di vanilla; poi mutò idea e si decise ad affrontare il pisello odoroso.

I vocaboli, i procedimenti idonei allo scopo gli sfuggivano. Procedette a tastoni; nella fragranza di quel fiore non domina in fin dei conti l’arancio? Saggiò parecchie miscele; e finì per azzeccare il tono giusto, unendo all’arancio della tuberosa che legò con una goccia di vanilia.

La sua incertezza si dissipò; fu preso da una leggera febbre; si sentì all’altezza del compito. Non pago ottenne ancora del tè, mescolando cassia e giaggiolo; quindi, ormai sicuro di sé, risolse di andare oltre, di fissare una frase fulminante che col suo arrogante fracasso coprirebbe il bisbiglio della maliziosa frangipana che s’intrufolava ancora nella stanza.

Manipolò l’ambra, il muschio del Tonchino, terribile di violenza, il pasciulì, il più acre dei profumi vegetali che in natura sprigiona un tanfo di muffito e di ruggine.

Per quanto facesse, l’assillante ricordo del Settecento continuò ad assediarlo: le crinoline, i falpalà gli vorticarono davanti agli occhi, apparizioni di Veneri di Boucher, tutte carne, disossate, imbottite di rosea bambagia presero dimora sulle pareti; ricordi del romanzo di Thémidore, della deliziosa Rosetta che in una disperazione di fuoco si rimbocca la gonna, lo perseguitavano.

Furibondo, s’alzò e per liberarsi di quell’ossessione, aspirò a pieni polmoni quella schietta essenza di spinacardo che, per il suo troppo accentuato sentore di valeriana, mentre piace tanto agli Orientali, riesce così incomoda agli Europei.

L’urto fu così violento che ne rimase stordito.

Come stritolata sotto un colpo di maglio, la filagrana del delicato odore sparì; ed egli profittò della tregua per sfuggire ai secoli defunti, ai profumi desueti; per passare, come faceva un tempo, a imprese meno ristrette o più nuove.

Con i profumi s’era altravolta dilettato a cullarsi in accordi; si valeva d’effetti analoghi a quelli dei poeti; ricalcava, in qualche modo, il mirabile schema di certe composizioni di Baudelaire; dell’Irreparable ad esempio e di Le Balcon, dove l’ultimo verso della quintina riecheggia il primo, ripresentandosi a mo’ di ritornello ad annegare l’anima negli infiniti della malinconia e del languore. Smarrito nei sogni evocati da quelle strofe fragranti, ecco di colpo era ricondotto al punto di partenza, al motivo della sua meditazione, dal ritorno del tema iniziale che ricompariva, a studiati intervalli, nell’olezzante orchestrazione del poema.

Questa volta si propose di perdersi in un sorprendente e mutevole paesaggio; ed esordì con una frase sonora, che gli dischiuse di colpo una immensa lontananza di campagne.

Grazie ai suoi vaporizzatori, sprigionò nella camera essenza d’ambrosia, di lavanda di Mitcham, di pisello odoroso fusi insieme: un’essenza che, ove sia stata distillata da un artista, non usurpa il nome che le vien dato di «essenza di prato in fiore»; poi, in quel prato, insinuò un ben riuscito accordo di tuberosa, di fior d’arancio e di mandorla; e, d’incanto, fittizi lillà fiorirono, mentre tigli stormivano al vento, impregnando il suolo dei loro tenui effluvi, simulati dall’estratto di tilia londinese.

In questo sfondo tracciato a grandi linee, fuggente a perdita d’occhio sotto le sue palpebre chiuse, insufflò una spruzzatura di sentori umani e quasi felini; evocanti la donna, annunzianti la femmina incipriata e truccata: lo stefanotis, l’ayapana, l’opoponax, il cipro, lo sciampaca, il sarcanto; sovrappose ad essi un accenno di siringa, per introdurre nel mondo fittizio e truccato che essi creavano, un sentore naturale di esultanze accaldate, di gioia che si disfrena in pieno sole.

Poscia, con l’ausilio di un ventilatore, lasciò che si disperdessero queste onde odorose; e serbò solo la campagna che rinnovò, costringendola a tornare nel suo poema come un ritornello.

Le femmine s’andarono dileguando; la campagna era tornata deserta; allora, all’incantato orizzonte, opifici si rizzarono, arditi comignoli sprigionarono fumo come bollenti tazze di ponce.

Nella brezza, suscitata da ventagli, passava ora un alito di fabbriche, un sentore di prodotti chimici; eppure nell’aria così corrotta, la natura insinuava ancora i suoi effluvi soavi. Gli è che Des Esseintes riscaldava adesso tra le dita una pallottolina di storace, che partecipava del delizioso odore della giunchiglia e dèll’immondo lezzo della guttaperca e dell’olio di litantrace.

Bastò che riponesse la resina nella sua scatola ermeticamente chiusa e si tergesse le mani, perché a loro volta le fabbriche si dileguassero. Allora tra i sentori, che riprendevano forza, dei tigli e dei prati, saettò alcune goccie di new mown hay; ed al centro del magico panorama, momentaneamente spogliato dei lillà, covoni di fieno si rizzarono improvvisando una nuova stagione, impregnando quell’estate dei loro effluvi sottili.

Come fu sazio di quello spettacolo, spruzzò all’impazzata profumi esotici; vuotò i vaporizzatori, profuse alcoli concentrati, diede il via a tutti i balsami di cui disponeva; ed ecco, nello snervante calore della stanza, esplodere una natura demente e sublime, che acuiva moltiplicando i suoi aliti, caricava d’alcoolati in delirio una brezza posticcia; una natura irreale e affascinante, paradossale da capo a fondo, che sposava le droghe dei tropici, gli aliti pepati del sandalo della Cina e dell’hediosmia della Giamaica, agli odori indigeni del gelsomino, del biancospino e delle verbene, facendo sorgere a dispetto delle stagioni e dei climi, alberi esotici d’ogni specie, sbocciare fiori i più opposti di tinta e di profumo; creando con la fusione e l’urto di tutti quegli ingredienti, un profumo diffuso cui era impossibile dare un nome: imprevisto, stravagante; in mezzo a cui ricompariva, ostinato ritornello, il motivo decorativo iniziale: l’odore del grande prato ventilato da tigli e lillà.

In quella, ahi, che un’acuta trafittura gli mozzò il respiro; fu come se un trivello gli forasse le tempie.

Aprì gli occhi: si vide nel gabinetto da bagno, seduto davanti alla tavola. A fatica si diresse barcollante alla finestra, la schiuse.

L’aria, che irruppe nell’interno, dissipò la soffocante atmosfera in cui boccheggiava. Per riprendere l’uso delle gambe, percorse in lungo e in largo la stanza, con gli occhi alla volta dove spiccavano in rilievo, su uno sfondo granito, biondo come sabbia di lido, granchi ed alghe incrostate di salino.

Decorata allo stesso modo era la cimasa che correva lungo gli assiti tappezzati di crespo del Giappone, color verde acqua, un po’ increspato a simulare l’arricciarsi d’un fiume che al vento s’arruga. Galleggiava in quella lieve corrente un petalo di rosa e intorno sciamava una frotta di pesciolini disegnati con due tratti di penna.

Ma il peso alle palpebre non accennava a cessare. Smise di misurare su e giù l’angusto spazio tra il bacile battesimale e la vasca da bagno; s’appoggiò alla balaustra della finestra. Lo stordimento ebbe fine.

Riturò accuratamente le fiale e profittò dell’occasione per riordinare l’armamentario per la truccatura.

Non vi aveva rimesso mano da quand’era arrivato a Fontenay; ed era quasi con stupore che adesso rivedeva la collezione che aveva fatto la curiosità di tante donne.

Vasetti e flaconi s’ammonticchiavano alla rinfusa. Là, richiamava l’occhio una scatola di maiolica verdolina: conteneva la schnuda, la prodigiosa crema bianca che, stesa sulle gote, passa, al contatto dell’aria, al rosa tenero per assumere quindi un incarnato così vero da dare la perfetta illusione di una pelle colorata dal sangue. Quì, lacche incrostate di madreperla, racchiudevano dell’oro giapponese e del verde d’Atene color elitra di cantaride; oro e verde che si mutano in cupa porpora, quando si umettano.

Accanto a vasetti di pasta d’avellana, di serkis dell’harem, a boccette d’emulsioni al giglio del Cascemir, di lozioni d’acqua di fragola e di sambuco per la carnagione; fra fiale di soluzione di inchiostro di China e di acqua di rose per gli occhi, spiccavano in gran disordine oggetti d’avorio, di madreperla, d’acciaio, d’argento; mescolati a spazzolini di erba medica per le gengive, a pinze, forbicette, strigili, sfumini, posticci, piumini da cipria, spazzolini di fil di ferro, limette.

Tutto quel corredo Des Esseintes l’aveva acquistato tempo addietro, pregato da un’amante, che sveniva percependo certi aromi, certi balsami; una donna dai nervi dissestati, che godeva a macerarsi i capezzoli nei profumi, ma cadeva addirittura in estasi, in deliquio se le si raschiava il capo con un pettine, o quando poteva aspirare, mentre la si accarezzava, odor di fuliggine, o l’odore che tramanda in giorni piovosi il gesso da presa d’una casa in costruzione, o quello della polvere quando la spegne d’estate l’avvisaglia di un acquazzone.

Des Esseintes s’obliò a ruminare quei ricordi. Un pomeriggio che, per non aver di meglio, per curiosità, aveva trascorso a Pantin in compagnia di quella donna, in casa di una sorella di lei, gli si riaffacciò alla memoria; rimescolò tutto un mondo scordato di vecchie idee, risuscitò vecchi profumi. Mentre le due donne cicalavano mostrandosi i vestiti, egli s’era fatto alla finestra e oltre i vetri appannati aveva visto fuggire la via piena di mota e udito sul selciato suole di legno diguazzare nelle pozzanghere.

Perduta nella memoria, quella scena gli si ripresentava ora con incredibile nettezza.

Pantin era lì davanti a lui, animata, viva, nell’acqua verde quasi morta dello specchio incorniciato di luna in cui, senza avvedersene, tuffava l’occhio. Un’allucinazione lo strappò da Fontenay; con la visione della strada, il cristallo gli rimandò i pensieri che essa aveva fatto nascere in lui; e, come in un sogno, si ridisse l’ingegnosa, malinconica e confortante antifona che, di ritorno in città, s’era subito annotato:

«Sì, il tempo è giunto delle grandi pioggie: ecco che le gronde vomitano cantando sui marciapiedi, e il fimo si concia nella pozza che del loro caffelatte riempiono le cogome scavate nell’inghiaiata stradale; dappertutto per l’umile pedone è in faccende lo stoino nettasuole.

«Sotto il cielo basso, nell’aria moscia, le case trasudano dai muri sudor nero e putono dai loro sfiatatoi; il fastidio di vivere s’acuisce, il tedio schiaccia; fermentano in ognuno le sozzure di cui l’anima cova il seme; bisogni di sconce ribotte metton sossopra i catoni, e nel cervello dei più stimati cittadini desideri da galeotti stan per esplodere.

«Eppure io mi scaldo davanti a un gran fuoco; sul mio tavolo un vistoso cesto di fiori sboccia e imbalsama la stanza di belzuino, di geranio e di vetiver. In pieno mese di novembre, a Pantin, s’ostina la primavera; e posso ridere tra di me al pensiero delle pavide famiglie che per schivare l’avvicinarsi del freddo fuggono a tutto vapore verso Antibo o verso Cannes.

«Ma la natura non c’entra affatto nel benessere che provo; all’industria solo, è dovere riconoscerlo, Pantin è in debito di questa fittizia primavera.

«Infatti questi fiori sono fatti di taffetà, montati su fil d’ottone e l’odore di primavera è dalle connessure della finestra che filtra e lo esalano le fabbriche dei dintorni: le fabbriche di profumi di Pinaud e di Saint James.

«Grazie a questi industriali, l’illusione di un po’ d’aria buona, anche gli artigiani, logori dal duro lavoro degli opifici, se la possono passare; anche i piccoli impiegati, troppo spesso ahi già padri.

«Senza dire che da questa illusione di una campagna un rimedio intelligente si può trarre. Ai gaudenti attaccati di petto, esportati nel Mezzodì, l’interruzione delle abitudini dà il colpo di grazia; essi soccombono alla nostalgia degli stravizi parigini ai quali debbono il loro male. Qui, in un clima artificiale trattenutovi dai ceppi che bruciano nelle stufe, i ricordi libertini rinasceranno, oh quanto dolci, evocati dal languido odor di donne che le fabbriche vaporano. Al tedio mortale della vita di provincia, l’Esculapio può, con questo innocente sotterfugio, sostituire per il suo infermo l’atmosfera delle alcove parigine, il sentore delle donne di mestiere. Nel più dei casi, per guarire, basterà che il paziente disponga d’un po’ di fantasia.»

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«Visto che coi tempi che corrono non esiste più nulla di sano; visto che il vino che si beve, la libertà che si proclama, sono merci adulterate ed irrisorie; visto infine che ci vuole una discreta dose di buona volontà per credere che le classi dirigenti sien degne di rispetto e che quelle addomesticate meritino d’essere soccorse oppure compiante, non mi pare» Des Esseintes concluse «né più ridicolo né più folle, chiedere al mio prossimo un totale d’illusione appena equivalente a quello che egli spende ogni giorno a scopi imbecilli, per fingermi che Pantin sia una Nizza artificiale, una fittizia Mentone.»

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Ciò non toglie – si disse, strappato alle sue riflessioni da un senso di mancamento che avvertiva in tutto il corpo – ciò non toglie che d’ora innanzi dovrò diffidare di questi deliziosi e abbominevoli passatempi che mi accoppano.

«Suvvia,» sospirò, «ancora dei piaceri da misurare col contagocce, delle precauzioni da prendere.» E si rifugiò nello studio, nella speranza di sfuggire più facilmente all’ossessione di quei profumi.

Spalancò la finestra quant’era larga, felice di tuffarsi in un bagno d’aria; senonché ad un tratto ebbe la sensazione che la brezza gli soffiasse in viso un acuto odore di bergamotto spalleggiato da essenza di gelsomino, di cassia e d’acqua di rose.

Boccheggiò; si chiese se l’ossessione cui era in preda non fosse di quelle che nel Medio Evo si esorcizzavano.

L’odore mutò, divenne un altro ma persistette. Adesso dal villaggio, accovacciato ai piedi della costa, veniva un sentore vago di tintura di tolù, di balsamo del Perù, di zafferano; fusi insieme da qualche stilla d’ambra e muschio; quand’ecco quei sparsi accenni si fusero e daccapo la frangipana, di cui sin allora l’olfatto aveva sceverato gli ingredienti e fatto l’analisi, imperversò nella valle da Fontenay sino al forte, aggredì le sue nari spossate, gli scrollò il sistema nervoso già demolito, lo gettò in una prostrazione siffatta che, svenuto, quasi per spirare, s’accasciò sul parapetto della finestra.

XI

I domestici spaventati corsero a Fontenay, in cerca del medico – il quale non capì niente del malessere di Des Esseintes.

Borbottò qualche termine medico, tastò il polso dell’ammalato, gli esaminò la lingua; tentò ma invano di farlo parlare; ordinò riposo e calmanti, promise di tornare l’indomani; e invitato a non scomodarsi da un gesto di Des Esseintes – il quale trovò la forza di rimproverare i servi del loro zelo e di congedare l’intruso – partì e andò a raccontare a tutto il villaggio le sbalorditive eccentricità di quella casa, i particolari d’un arredamento che l’aveva lasciato di stucco.

Con grande stupore dei domestici, che non osavano più muoversi dal loro posto, il padrone si ristabilì in capo a pochi giorni; e, fatto insolito, ora capitava che lo sorprendessero a spiare preoccupato il cielo, tamburellando con le nocche sui vetri.

Finché un pomeriggio i campanelli squillarono perentori; ed ai servi accorsi Des Esseintes ordinava di preparargli le valigie per un lungo viaggio.

Mentre i due, su istruzioni del padrone, sceglievano gli oggetti che dovevano accompagnarlo nel viaggio, Des Esseintes smanioso percorreva a grandi passi la cabina della stanza da pranzo, consultava l’orario dei piroscafi; su e giù per lo studio, interrogava tutti i momenti il cielo, con espressione impaziente insieme e soddisfatta.

Già da una settimana il tempo s’era messo al peggio. Vortici di caligine, massicce nubi, simili a macigni divelti dal suolo, vagavano continuamente sul grigiore del cielo. Ogni po’ acquazzoni ne scaturivano, seppellendo la vallata sotto torrenti di pioggia.

Quel giorno il cielo aveva mutato aspetto: non più flutti d’inchiostro; le nubi s’eran fuse; la volta celeste si stendeva tutta eguale come rivestita d’una federa grigiastra.

Poco a poco quella federa sembrò calare; un mattino nebbioso avvolse la campagna; la pioggia non s’abbatté più a cateratte come la vigilia; sì, cadde continua, sottile, penetrante, allagando i viali, intridendo di mota le vie, sipario di fili che univa la terra al cielo. L’aria s’intorbidò; una luce livida rischiarò il villaggio, ormai trasformato in acquitrino di fango e di pozze, trafitte dalla pioggia che le punzecchiava d’argento. Nel desolato paesaggio tutti i colori si spensero; solo i tetti lustrarono sullo squallore dei muri.

«Tempaccio!» sospirò il vecchio domestico, sciorinando su una sedia un abito che il suo padrone s’era fatto un tempo confezionare a Londra.

Per tutta risposta, Des Esseintes si stropicciò le mani e andò a piantarsi davanti ad un armadio, dove, dietro i vetri, s’apriva a ventaglio un mazzo di calzini di seta. Esitò nella scelta; poi, considerando la tetraggine della giornata, l’austero chiaroscuro dell’abito, e la meta che si prefiggeva, si decise di botto per un paio di calzini color foglia secca. Li infilò lì per lì; vi calzò sopra degli stivaletti a fibbie e ad orli sfrangiati; indossò l’abito grigio-topo, quadrettato di grigio-lava e punteggiato di martora; calcò in capo una bombetta, s’avvolse in un soprabito sbracciato con pellegrina, blu lino; e, seguìto dal domestico curvo sotto il peso d’una valigia, d’una borsa a mantice, d’una sacca da notte, d’una cappelliera, d’una coperta da viaggio che conteneva ombrelli e bastoni, raggiunse la stazione.

Là dichiarò al domestico che non poteva dirgli quando sarebbe di ritorno, se tra un anno, un mese, una settimana od anche prima; gli raccomandò di lasciare in casa tutto com’era; gli consegnò la somma che presumeva a occhio e croce potesse bastare alla coppia per le spese durante la sua assenza; e salì sul vagone, lasciando il vecchio dietro il cancello a guardare a bocca aperta e braccia ciondoloni il treno mettersi in moto.

Nello scompartimento era solo.

Una campagna vaga, sporca, come vista attraverso l’acqua torbida d’un acquario, arretrava velocissima dietro il treno, sferzato dalla pioggia.

Des Esseintes chiuse gli occhi e si sprofondò nei suoi pensieri.

Una volta ancora la tanto agognata solitudine, al fine esaudita, aveva messo capo ad un atroce disagio; il silenzio, salutato da principio quale un compenso alle sciocchezze ascoltate per anni ed anni, era venuto a pesargli insostenibilmente.

Un mattino s’era svegliato, smanioso d’uscirne come il detenuto dalla cella. Non ne poteva più. Sì a lungo mortificate, le labbra si movevano da sé ad articolar suoni; lagrime gli salivano agli occhi; soffocava come avesse singhiozzato da ore.

Divorato dal desiderio di camminare, di vedere un viso umano, di discorrere non importa con chi, di mescolarsi alla vita di tutti, con un pretesto chiamò i domestici, li trattenne presso di sé. Ma non servì: conversare con essi era impossibile.

A parte il fatto che costretti da tanti anni a curare infermi, abituati al silenzio, quei vecchi avevano si può dire perduto l’uso della favella, la distanza a cui il padrone li aveva sempre tenuti, non era fatta per indurli ad aprirsi con lui. Senza dire che il loro cervello era pressoché arrugginito ed altro che monosillabi non trovavano per rispondere alle domande.

Non potè quindi ottenere nulla da loro, trovare nella loro compagnia alcun sollievo.

Intanto, la lettura di Dickens cui s’era recentemente dedicato per calmare i nervi e ch’era valsa solo ad esasperarli, andava poco a poco esercitando sul suo animo un’influenza inaspettata.

Cominciarono a visitarlo, a tenerlo assorto per ore e ore, visioni di vita inglese; e in quelle fantasticherie poco a poco s’insinuò il desiderio d’esaudirle con un viaggio, di verificarle sul posto: desiderio cui s’innestava la sete di nuove sensazioni, il bisogno di sfuggire per quella via a quel macinare a vuoto che lo intontiva, a quelle orgie cerebrali che lo riducevano un cencio.

L’orribile tempaccio, la nebbia e la pioggia favorivano quei pensieri; davano consistenza ai ricordi delle letture fatte; gli mettevano continuamente sottocchio la visione d’un paese di brume e di fango; impedivano ai pensieri di allontanarsi dal loro punto di partenza.

Non si dominò più; ed un giorno di punto in bianco s’era deciso. La sua impazienza fu tale che scappò di casa prima dell’ora; voleva sottrarsi al presente, sentirsi sgomitato nel chiasso d’una strada, nel baccano d’una folla e d’una stazione.

«Respiro,» diceva nel momento che il trenino rallentava per fermarsi sotto la pensilina, dove ritmava la sua corsa traballante il fragore a sbalzi delle piattaforme girevoli.

Affacciatosi in via d’Enfer, diede la voce ad un cocchiere. Godeva a vedersi così impacciato da valigie e coperte. Con la promessa d’una lauta mancia s’intese coll’uomo che sfoggiava un panciotto rosso su calzoni nocciola.

«Vi noleggio ad ora. In via Rivoli vi fermerete davanti al Calignani’s Messenger.» Prima di partire, voleva provvedersi d’una guida di Londra, d’un Baedeker o d’un Murray.

La vettura si mise pesantemente in moto, sollevando con le ruote cerchi di mota.

Si diguazzava in piena palude. Sotto il cielo grigio che pareva toccare il tetto delle case, i muri ruscellavano, tra un traboccar di grondaie. Mota nerastra rendeva i selciati scivolosi; sui marciapiedi rasentati dagli omnibus crocchi di gente sostavano; per non essere inzaccherate, donne curve sotto ombrelli, con le sottane rimboccate sino ai ginocchi, s’addossavano più che potevano alle botteghe.

Siccome l’acqua entrava di traverso per gli sportelli, Des Esseintes dovette tirar su i vetri. Subito la pioggia li rigò, mentre d’ogni lato pillacchere di mota schizzavano a raggera.

Cullato da quel picchiettare monotono sul tetto della vettura come di piselli rovesciati a sacchi, Des Esseintes pensava al suo viaggio.

Parigi, con un tempo simile, non gli dava già un acconto d’Inghilterra? Sotto gli occhi non gli passava appunto una Londra piovosa, mastodontica, sterminata, tramandante odor di ferraccio riscaldato e di fuliggine, fumante senza tregua nel nebbione?

Ed ecco, come non bastasse, fughe di docks allungarsi a perdita d’occhio, gremiti di gru, di argani, di balle di mercanzia; formicolanti d’uomini appollaiati su alberi di nave, a cavalcioni su antenne; mentre sulle banchine altri, innumerevoli, rotolavano curvi, il deretano in aria, barili dentro fondaci.

Tutto quel mondo s’agitava su rive, in portifranchi colossali, bagnati dall’acqua rognosa e sorda d’un immaginario Tamigi, tra una selva d’alberi di nave, in una foresta di travature che trafiggeva lassù la livida nuvolaglia; intanto che in cielo treni filavano a tutto vapore, altri rotolavano nelle viscere della terra, ruttando fischi che facevano sobbalzare, vomitando da bocche di pozzi vortici di fumo; intanto che per le strade, pei grandi passeggi alberati, dove in un eterno crepuscolo esplodevano, vistose ed atroci, le brutture della pubblicità, fiumi di veicoli scorrevano tra siepi silenziose di gente indaffarata, che, stringendo ai fianchi i gomiti, si protendeva innanzi con lo sguardo.

Des Esseintes provava deliziosi brividi a sentirsi mescolato a quel pauroso mondo di trafficanti, perduto in quel nebbione che lo segregava, preso nello spietato ingranaggio che stritola milioni di diseredati – esortati da filantropi a recitar versetti, a consolarsi intonando salmi.

Lo trasse bruscamente da quella visione una scossa che lo fece sobbalzare sul sedile. Guardò dagli sportelli.

La notte era calata; nella fitta nebbia le fiammelle del gaz vacillavano in un alone giallastro; nastri di fuoco galleggiavano nelle pozze d’acqua, parevano saettare intorno alle ruote dei veicoli, trasaltanti dentro una fiamma liquida torbida.

Cercò di rendersi conto dov’era; scorse il Carrousel. Ed ecco, senza motivo, per semplice reazione forse all’altezza immaginaria da cui ruzzolava, la mente s’andò a fermare sul ricordo del più banale degli incidenti: mentre guardava preparare le valigie, aveva notato che il domestico tralasciava per dimenticanza d’includere fra gli oggetti d’uso personale uno spazzolino da denti.

Allora verificò la lista degli oggetti impacchettati; non uno mancava nella valigia; ma la contrarietà di aver omesso quello spazzolino durò sino a che l’arrestarsi della vettura non troncò la catena di quei ricordi e di quei crucci.

Era in via Rivoli, di fronte al GALIGNANI’S MESSENGER.

Separate da una porta a vetri smerigliati, tappezzate di scritte, di ritagli di giornale e di moduli turchini di telegrammi in cornice, due ampie vetrine rigurgitavano di album e di libri. Attirato da quella esposizione s’accostò.

C’erano rilegature in cartone blu parrucchiere e verde cavolo, fregiate su ogni costa di arabeschi d’oro e d’argento; rilegature in tela color carmelita, porro, fimo d’oca, ribes; impresse a freddo sul dorso e sulle parti piatte di filettature nere.

Tuttociò aveva qualche cosa di niente affatto parigino, una piega mercantilesca più cruda eppur men vile delle rilegature nostrane correnti. Qua e là in mezzo ad album squadernati, riproducenti scene umoristiche di Du Maurier e di John Leech o le pazze cavalcate di Coldecott, lanciate attraverso pianure in cromolitografia, qualche romanzo faceva capolino, mescolando a quell’agresto di tinte volgarità blande e soddisfatte.

Strappandosi da quella contemplazione, Des Esseintes spinse la porta; e penetrò in una vasta libreria, piena di gente; dove straniere sedute spiegavano carte ed a bassa voce facevano osservazioni in lingue sconosciute.

Un commesso gli recò tutto un assortimento di guide, dalla rilegatura flessibile che cedeva alla mano. Sedutosi a sua volta Des Esseintes le percorreva.

Una pagina del Baedeker lo arrestò: descriveva i musei di Londra. Le notizie laconiche e precise che dava lo interessarono; ma presto dall’antica pittura il suo pensiero passò alla nuova che lo attraeva maggiormente.

Alcuni saggi ne aveva visto, ricordava, in esposizioni internazionali e sperava di rivederle a Londra: delle tele di Millais, la «Veglia di Santa Agnese» d’un verde argenteo così suggestivamente lunare; quadri di Watts, inaspettati di colore, variegati di gommagutta e d’indaco; quadri che si sarebbero detti schizzati da un Gustave Moreau sul declino, dipinti a larghe pennellate da un Michelangelo anemico e ritoccate da un Raffaello annegato nel turchino.

Tra gli altri, gli galleggiavano nella memoria una «Denunzia di Caino», un’«Ida» e delle «Eve», dove da una originale e misteriosa amalgama di quei tre Maestri scaturiva la personalità quintessenziata e al tempo stesso prepotente di un inglese colto e sognatore, ossessionato da colori atroci.

Il ricordo di tutte quelle tele lo assediava disputandoselo.

Il commesso che vedeva con stupore il cliente incantarsi davanti a un tavolo, gli chiese su quale guida cadesse la sua scelta. La domanda lo tirò dal suo trasognamento; si scusò, acquistò un Baedeker e riuscì all’aperto.

L’umidità dell’esterno lo intirizzì. Il vento soffiando di sbieco sferzava i portici di raffiche di acqua.

«Fermate là» disse al cocchiere; ed indicava in fondo ad una galleria un negozio che faceva angolo tra via Rivoli e via Castiglione: le vetrate biancicanti rischiarate dall’interno, gli davano l’aspetto d’una lampada che vegliasse cheta l’opprimente nebbione.

Era la BODEGA. Des Esseintes si smarrì in una vasta ala, sorretta da pilastri di ghisa, che s’allungava a corridoio, con le pareti tappezzate tutto attorno da alte botti rizzate su panconi. Cerchiate di ferro, guernite al ventre di merlature di legno, simili a rastrelliere per pipe, ai cui denti pendevano bicchieri a tulipano capovolti; forate in fondo da una spina di quarzo, quelle botti, stemmate d’un blasone regale, recavano in vista, su etichette colorate, la provenienza del contenuto, la capacità del recipiente, il prezzo del vino a barile, a bottiglia od a bicchiere.

Nell’andito che restava libero tra le due ali di botti, otto fiamme a gaz ronzanti dai becchi d’un bruttissimo lampadario dipinto in grigio ferro, tavoli seminati di cestelli di biscotti Palmers, di sfoglie salate o no, di piatti colmi di mince-pie e di pagnottelle imbottite dall’aspetto innocente che celava scottanti mostarde di senapa, si susseguivano tra una siepe sino in fondo alla cantina; fondo bardato anch’esso di barili sormontati a carratelli coricati, coi nomi stampigliati a fuoco nel legno di quercia.

Appena Des Esseintes ebbe preso posto nella sala, lo avvolse l’aroma dei gagliardi vini che vi sonnecchiavano. Si guardò attorno.

Qui s’allineavano grosse botti da cui si spillava tutta la serie dei «porto»: dei vini secchi e amabili, color acagiù od amaranto, contrassegnati dai laudativi epiteti: old port, light delicate, cockburn’s very fine, magnificent old Regina. Là arrotondando le epe possenti, fianco a fianco si pigiavano enormi fusti; contenevano i bellicosi vini di Spagna, lo xeres e i suoi affini color topazio bruciato o crudo, il san lucar, il pasto, il pale dry, l’oleroso, l’amontillado, dolci o secchi.

La cantina era affollata. Aggomitato ad uno spigolo di tavolo, Des Esseintes era in attesa del bicchiere di porto ordinato ad un gentleman occupato a sturare esplosive soda, contenute in bottiglie ovali che ricordavano, esagerandone le dimensioni, le capsule di gelatina e di glutine che gli speziali adoperano per mascherare il gusto di certi farmachi.

Intorno a lui c’erano inglesi a josa: pallidi clergymen contegnosi, in nero da capo a piedi, con cappelli flosci, scarpe a lacci, redengotte sino a terra, costellate sul petto di piccoli bottoni; menti rasi, lenti tonde, chiome lustre e lisce; facce rubizze di trippai, musi di cane su colli apoplettici, orecchi come pomidoro, gote vinose, occhi iniettati e idioti, collari di barba simili a quelli di certe grandi scimmie.

Più oltre all’altro capo del vasto fondaco un impacciato spilungone dai capelli di stoppa, il mento guernito di peli bianchi come il ricettacolo d’un carciofo, decifrava i minuti caratteri romani d’un foglio inglese. In faccia a lui una specie di commodoro americano, corpacciuto e tozzo, dalla carnagione affumicata e dal naso a bulbo, un sigaro piantato nel cespuglioso buco della bocca, s’appisolava a fissare la pubblicità, messa in cornice sulle pareti, dei vini di Champagne, marca Perrier o Roederer, Heidsieck o Munn e la testa incappucciata di monaco col nome in caratteri gotici di Don Pérignon a Reims.

Una specie di languore invase Des Esseintes in quella atmosfera da corpo di guardia; intontito dal chiacchiericcio degli inglesi che discorrevano fra loro, fantasticava.

Il Porto che riempiva della sua porpora i bicchieri gli evocava i personaggi di Dickens, così proclivi al bere, popolando la Bodega di nuovi clienti.

Qui Des Esseintes vedeva i capelli bianchi e la carnagione accesa di mister Wickfield; là l’espressione flemmatica e astuta, l’occhio implacabile di Tulkinghorn, il funebre avvocato di Bleackhouse. In realtà ogni personaggio si staccava dalla sua memoria, s’allogava nella Bodega coi suoi gesti e la sua storia; i ricordi ravvivati dalla recente lettura acquistavano un’incredibile nettezza. La città del romanziere, la sua casa ben riscaldata, ben rischiarata, servita inappuntabilmente, ermeticamente chiusa, le bottiglie mesciute adagio dalla piccola Dorrit, da Dora Copperfield, dalla sorella di Tom Pinch – tutto ciò gli apparì come il tepore d’un’arca che navigasse tra un diluvio di fango e di fuliggine.

Felice di sentirsi al riparo, s’infingardì in quella Londra fittizia; navigavano il Tamigi i rimorchiatori cui porgeva l’orecchio e che lanciavano sinistri ululi presso il ponte, dietro le Tuileries.

Il bicchiere era vuoto. Nonostante il calore dell’ambiente, accresciuto ancora dal fumare intorno di sigari e di pipe, Des Esseintes, tornando alla realtà, provò un piccolo brivido al pensiero dell’umidità malodorante dell’esterno.

Chiese un bicchiere d’amontillado. Ma quel vino pallido e secco disfogliò le malve dell’autore inglese, disperse il ricordo delle sue storie al bromuro; ed evocò in vece loro i potenti revulsivi, i rubefacenti senapismi di Edgar Poe.

Des Esseintes soggiacque così all’incubo gelato della botte d’amontillado, dell’uomo murato nel sotterraneo. Allora le faccie bonarie e qualunque dei bevitori gli sembrarono riflettere pensieri involontari e atroci, covare istinti e progetti esecrandi.

Finché s’accorse che il locale si vuotava minacciando di lasciarlo solo: l’ora di cena s’avvicinava. Pagò, si strappò via dalla sedia e intontito raggiunse l’uscita.

Sulla soglia lo accolse uno schiaffo bagnato.

Accecati dalla pioggia e dalle raffiche, i lampioni agitavano i ventaglietti di fiamma senza riuscire a far luce; abbassatosi, il cielo oltrepassava ora di poco l’altezza dei primi piani. La fuga dei portici annegati nell’ombra, gli lasciò un attimo credere di percorrere il traforo scavato sotto il Tamigi.

Stiracchiamenti allo stomaco lo richiamarono alla realtà. Raggiunse la vettura, gettò all’uomo l’indirizzo della taverna di via d’Amsterdam, nei pressi della stazione.

Consultò l’oriolo: eran le sette. Aveva giusto il tempo di cenare, il treno non partiva che alle otto e cinquanta. E contava sulle dita le ore di traversata tra Dieppe e Newhaven: «Se l’orario ferroviario non mente, domani a mezzogiorno e mezza sono a Londra.»

La vettura s’arrestò davanti alla Taverna. Di nuovo Des Esseintes ne scese; penetrò in una lunga sala senza dorature, bruna, divisa da tramezzi ad altezza di gomito in tanti scomparti, simili a quelli d’una scuderia. Nella sala, che davanti all’ingresso s’allargava, era un banco e sul banco carratelli di birra si rizzavano in gran numero, affiancati da giamboni anneriti come vecchi violini, da aliguste accese di minio, da sgombri marinati, cosparsi di rotelle di cipolle e di carote crude, di fette di limone, di mazzetti di lauro e di timo, di coccole di ginepro e di pepe macinato grosso, nuotante in una salsa torbida.

Uno di quegli scomparti era libero. Des Esseintes ne prese possesso e diede la voce ad un giovinotto in abito nero che s’inchinò gorgogliando parole incomprensibili.

Mentre costui apparecchiava, Des Esseintes diede un’occhiata ai suoi vicini di tavola.

Anche qui come alla Bodega, degli insulari dagli occhi di maiolica, dalla carnagione cremisi, dall’aria assorta od altezzosa, scorrevano giornali stranieri.

Solo alcune donne senza cavaliere cenavano fra loro faccia a faccia: robuste inglesi dai visi di maschi, dentoni come racchette, mele rubizze per gote, manoni e piedoni; attaccavano con voracità un rumpsteak-pie, piatto caldo di carne, cotta in salsa di fungo, e rivestita di crosta come un pasticcio.

Da tanto tempo gli faceva difetto l’appetito, che Des Esseintes si sentì mortificato alla vista di quelle gagliarde mangiatrici; la loro voracità gli aguzzò la fame.

Ordinò una zuppa oxstail e si celebrò quella minestra fatta con coda di bue, untuosa insieme e vellutata, grassa e consistente. Poi, scrutata la lista del pesce, fissò la sua scelta su un haddok, specie di merluzzo affumicato che gli sembrò egregio. E, preso da subitanea fregola mangereccia a veder gli altri impinzarsi, divorò un rosbiffe con contorno di mele e lo inaffiò di due pinte di «ale», invitato dal gusto di vaccheria muschiata che emana questa fine e pallida birra.

La sua fame si placava. Peluzzicò un niente di formaggio turchino di Stilton, dolce e amaro ad un tempo; pecchiò una torta al rabarbaro; e, per cambiare, si dissetò col «porter», quella birra inglese che, lo zucchero in meno, sa di succo di regolizia.

Rifiatava. Non gli capitava da anni di bere e pacchiare a quel modo; quello scarto nelle abitudini, quell’assortimento di cibi imprevisti e sostanziosi, aveva tirato lo stomaco dal suo sonno.

Si sprofondò nella sedia, accese una Muratti e si preparò a gustare la tazza di caffè che battezzò abbondantemente di gin.

Seguitava a piovere. Udiva l’acqua crepitare sui vetri che soffittavano in fondo il locale, ingorgar le grondaie donde cadeva a cascatelle.

Nessuno si moveva nella sala: tutti si crogiolavano come lui all’asciutto, davanti al bicchierino.

Le lingue si sciolsero. Siccome quasi tutti alzavano parlando gli occhi al soffitto, Des Esseintes ne concluse che commentavano il tempaccio. Non uno di quegli inglesi rideva; tutti eran vestiti di lana scozzese rigata di giallo nanchino e di rosa cartasuga.

Compiaciuto si guardò l’abito; per tinte e per taglio, non differiva gran fatto da quello degli altri. Fu lieto di non stonare là dentro, d’essere in qualche modo e superficialmente naturalizzato londinese.

A un tratto sobbalzò: e l’ora del treno? Consultò l’oriolo: mancavan dieci alle otto: «Ho ancora quasi una mezz’ora di tempo da restar qui.» E una volta di più il pensiero gli andò al viaggio progettato.

Nella sua vita due soli paesi lo avevano tentato: l’Olanda e l’Inghilterra. La prima curiosità l’aveva esaudita. Un bel giorno, non reggendo più, aveva lasciato Parigi e visitato una ad una le città dei Paesi Bassi. Da quel viaggio, tirate le somme, aveva riportato crudeli disillusioni.

Dell’Olanda s’era fatto un’idea sui quadri di Teniers e di Steen, di Rembrandt e di Ostade; foggiandosi a proprio uso ghetti dorati dal sole come corami di Cordova; immaginando sbalorditive kermesse, continue ribotte in campagna; aspettandosi di trovarvi quella bonomia patriarcale, quella ridaciana licenza di costumi che gli antichi maestri avevano celebrato.

Certo, Harlem ed Amsterdam gli erano piaciute; il popolo, non ancora dirozzato dell’autentica campagna, somigliava sì a quel dipinto da Van Ostade, coi suoi bambini tagliati con l’accetta e non rimondati; con le lardose comari prominenti di grosse tette e ventrute; ma niente sfrenate esultanze, niente grandi sbornie in famiglia.

Allo stringer dei conti, gli era giocoforza riconoscere che la scuola olandese del Louvre l’aveva ingannato, ch’era solo servita di trampolino ai suoi sogni. Slanciatosi al galoppo su quella falsa pista, pieno il capo di visioni impareggiabili, Des Esseintes non aveva per nulla scoperto il paese magico eppure reale che aveva sperato; non aveva affatto assistito, su prati seminati di botti, a danze di villani e villane lagrimanti di gioia, scalpitanti di felicità che si scompisciassero dal troppo ridere brache e sottane.

Ah no: nulla di simile gli era stato possibile vedere. L’Olanda era un paese come ogni altro e, quel che è peggio, un paese niente affatto primitivo, niente affatto bonaccione; ché anzi il protestantesimo vi infieriva con le sue rigide ipocrisie, con la sua solenne intransigenza.

Adesso l’amaro di quel disinganno si riaffacciava al ricordo. Consultò daccapo l’oriolo: non mancavano più che dieci minuti alla partenza del treno. «Se non voglio mancarlo, ho appena il tempo di chiedere il conto e di filare» si disse.

Sentiva un peso allo stomaco ed una gravezza in tutte le membra, grandissimi.

«Suvvia» s’incoraggiò «beviamo il bicchiere della staffa.» E mentre se lo mesceva, di arzente, domandò il conto.

Un tizio in abito nero, con la salvietta sul braccio, una specie di maggiordomo dal cranio appuntito e calvo, una barba imponente più bianca che grigia, il labbro raso, si presentò con la matita all’orecchio. Si postò, avanzando una gamba come in procinto di cantare; tolse di tasca un calepino; e, fissando anziché il foglio, il soffitto in direzione d’un lampadario, sgorbiò gli addendi e tirò la somma.

«Ecco» disse, strappando il foglietto e porgendolo al cliente.

Des Esseintes incuriosito lo contemplava come una bestia rara.

«Che splendido campione di John Bull!» si diceva, considerando il flemmatico personaggio che la bocca rasa faceva somigliare ad occhio e croce ad un timoniere della marina americana.

In quella, la porta d’ingresso s’apri; gente entrò recando seco un odore di can bagnato, cui si mescolò fumo di carbonfossile, ricacciato dal vento nella cucina la cui porta senza nottolino sonò come uno schiaffo.

Des Esseintes era incapace di muover le gambe. Un caldo e soave senso di inesistenza gli legava le membra, gli impediva sinanco di stender la mano per accendersi il sigaro.

S’esortava: «Andiamo, suvvia: è tempo di filare.» Ma subito obbiezioni sorgevano a contraddire i suoi ordini.

A che pro muoversi quando si può viaggiare tanto bene restandosene su una sedia? Non era egli già a Londra? Odori, aria, abitanti, cibi, suppellettili non eran già intorno a lui quelli che troverebbe alla meta? Che poteva mai sperare recandovisi davvero, se non nuovi disinganni come gli era successo in Olanda?

Non gli restava più che il tempo di correre al treno; ed ecco che una insormontabile avversione per i viaggi, un imperioso bisogno di starsene tranquillo s’imponevano alla sua con una volontà sempre più decisa, di minuto in minuto più cocciuta.

Sovrappensiero, lasciò scorrere i minuti, tagliandosi così la fuga, dicendosi: «Ormai dovrei precipitarmi agli sportelli, fare a gomitate per recuperare i bagagli. Che seccatura! che sfacchinata sarebbe!» E una volta di più ripeté: «Non ho forse provato e visto tutto quello che volevo provare e vedere? Di vita inglese ho fatto, dacché son qui, una vera scorpacciata. Dovrei essere matto per andare a perdere, a prezzo di un trasferimento balordo, delle sensazioni indimenticabili! Quale aberrazione non è stata la mia quando tentai di rinnegare le mie vecchie convinzioni, di condannare il pegaso della fantasia che mi porta dovunque voglio! Quale stoltezza aver creduto, come un vero baggiano, alla necessità, all’interesse che presenterebbe per me lo spostarmi!

E guardando un’ultima volta l’oriolo: «Veh, ma è l’ora di rientrare a casa!»

Stavolta si rizzò sulle gambe; uscì, ordinò al cocchiere di ricondurlo alla stazione di Sceaux; e con valigie, pacchi, borse, coperte, ombrelli e bastoni tornò a Fontenay; risentendo tutti i sintomi della stanchezza fisica e morale d’un uomo che reintegra il domicilio alla fine d’un lungo e periglioso viaggio.

XII

Nei giorni che seguirono il ritorno, Des Esseintes sostò in lunghe contemplazioni davanti ai suoi libri; e, all’idea che avrebbe potuto restarne separato per molto tempo, il rivederli gli diede una tale gioia che maggiore non avrebbe provato dopo una lunga assenza. Sentimento che glieli mostrò sotto una luce nuova, gli fece in essi scoprir pregi che gli erano caduti di mente dal tempo che li aveva comprati.

Né solo i libri; dal mobilio ai ninnoli tutto acquistò un incanto particolare. Il letto gli parve più soffice paragonato con quello in cui avrebbe dormito a Londra: il modo discreto e silenzioso con cui i domestici disimpegnavano il servizio lo incantò, stanco com’era, nell’immaginazione, del chiasso e della loquacità dei camerieri d’albergo; la regola di vita che s’era imposta, più che accettabile, gli parve degna d’invidia ora che diventava possibile l’imprevisto dei viaggi.

S’immerse di nuovo nella solita vita come in un bagno che artificiali rimpianti rendevano più tonico e corroborante.

Ma la preoccupazione maggiore rimasero i libri. Li riprese in mano ad uno ad uno; li ordinò di nuovo negli scaffali; si sincerò che a Fontenay calore e umidità non ne avessero sciupato la bella carta o deteriorato la rilegatura.

La prima a venir messa sossopra fu la collezione latina; quindi nuovo assetto ricevettero le opere di cabala e di scienze acculte di Archelao, d’Alberto il Grande, di Lullo, d’Arnaldo di Villanova; fu infine la volta dei libri contemporanei, che ebbe la gioia di trovar tutti in perfetto stato di conservazione.

Questa collezione gli era costata parecchio. Non ammetteva infatti che gli autori prediletti figurassero nella sua biblioteca vestiti di fustagno e calzati di scarponi chiodati come montanari dell’Alvernia.

A Parigi in passato s’era fatto stampare, per suo uso personale, libri con torchi a braccia da maestranze assunte a questo scopo. Talora ricorreva a Perrin, a Lione; ai suoi caratteri svelti e puri, quel che v’era di meglio per la ristampa in caratteri arcaici di piccoli antichi libri; talora, ed era quando si trattava di opere contemporanee, faceva venire nuove fogge di caratteri dall’Inghilterra e dall’America; talvolta ancora si rivolgeva ad una casa di Lilla che possedeva da secoli un assortimento completo di caratteri gotici; talvolta infine s’accaparrava l’antica stamperia Enschedé di Harlem, che conservava in fonderia i punzoni ed i coni dei caratteri detti di civiltà.

Non diversamente aveva proceduto per la carta. Ristucco un bel giorno delle Chine argentate, delle Giappone madreperlacee e dorate, dei bianchi wathmans, delle Olanda bigie, dei turkey e dei seychalmill color camoscio; stufo del pari della carta a macchina, s’era commissionato carte vergate in appositi formati dalle antiche cartiere di Vire dove ci si serve tuttora dei pestelli adoperati per pestare la canapa.

Per introdurre un po’ di varietà nelle sue collezioni, a più riprese s’era fatto venire da Londra stoffe manganate, carte lanuginose, carte lineate orizzontalmente; e perché il suo cliente potesse guardare con sovrano disprezzo gli altri bibliofili, un cartaio di Lubecca gli preparava una carta à chandelle perfezionata, turchiniccia, sonora, un po’ vetrina, nel cui impasto tenevano il posto del detrito vegetale pagliuzze d’oro simili a quelle che punteggiano l’acquavite di Danzica.

Era in questo modo venuto in possesso d’edizioni senza rivali adottando insoliti formati che da Lortic, da Trautz-Bauzonnet, da Chambolle, dai successori di Capé faceva rivestire d’impeccabili rilegature in seta antica, in cuoio stampato, in pelle di becco del Capo; di rilegature piene a scomparti e mosaici, foderate di tabì o di moerro; ecclesiasticamente fregiate di canti e di fermagli; a volte persino adornate da Gruel-Engelmann di argenti ossidati e di splendidi smalti.

Così, coi mirabili caratteri episcopali dell’antica casa Le Clere s’era fatto stampare le opere di Baudelaire, in un formato arieggiante quello dei messali, su lievissimo feltro del Giappone, spugnoso, soave al tatto come midolla di sambuco, con un sospetto di rosa nel latteo biancore.

Questa edizione in unico esemplare, stampata nel nero vellutato dell’inchiostro di China, era stata vestita al di fuori e ricoperta dentro d’una autentica meravigliosa pelle di scrofa: scelta fra mille, color carne; picchiettata al posto delle setole e adorna di merletti neri impressi a freddo, assortiti con squisito gusto da un autentico artista.

Quel giorno Des Esseintes tolse dallo scaffale l’impareggiabile volume. Se lo palpeggiava religiosamente; si rileggeva poesie che, in quella semplice ma inestimabile cornice, gli parevano più inebrianti del solito.

Per questo scrittore Des Esseintes nutriva una ammirazione sconfinata.

Dell’anima, sino a Baudelaire, i letterati s’erano a suo avviso limitati ad esplorare la superficie; e se si erano avventurati nel suo sottosuolo ciò era avvenuto per le parti di facile accesso e in luce.

Qua e là avevano segnalato giacimenti di peccati mortali, ne avevano studiato i filoni, il modo di svilupparsi; avevano messo in evidenza, come a esempio Balzac, lo stratificarsi dell’anima sotto il dominio di una passione che tutta l’assorbe: l’ambizione, l’avarizia, la dabbenaggine paterna, l’amor senile.

Ma si era ancora, in fin dei conti, ai vizi e alle virtù che scoppiano di salute, al tranquillo funzionamento di cervelli normalmente configurati, sul terreno pratico delle idee correnti, senza curiosità di morbose depravazioni, senza desiderio di maggiori approfondimenti. Ciò che insomma questi analisti avevano scoperto non andava oltre gli schemi, buoni o cattivi, cui era giunta nelle sue speculazioni la Chiesa. Si trattava ancora di semplice ricerca; dell’ordinaria attenzione con cui il botanico segue d’appresso il preveduto svilupparsi in natura della solita flora.

Baudelaire era andato più in là. Si era calato sino in fondo all’inesauribile miniera, cacciato per cunicoli abbandonati o ignorati, s’era spinto in quei recessi dell’anima in cui si ramificano le mostruose vegetazioni del pensiero.

Colà, ai confini oltre i quali soggiornano le aberrazioni e le malattie, il tetano mistico, la quartana della lussuria, le tifoidee e i vomiti del crimine, aveva trovato, a covare sotto la tetra campana del tedio, la spaventosa menopausa dei sentimenti e delle idee.

Egli ci aveva rivelato la psicologia morbosa dello spirito che ha toccato l’ottobre delle sensazioni; narrato i sintomi dell’anima che il dolore s’accaparra, che lo spleen privilegia; additato la progressiva tabe che mina la sensibilità allorché gli entusiasmi si raffreddano, le fedi della gioventù inaridiscono; allorché all’intelletto, schiacciato da un destino assurdo, più non resta che l’arido ricordo dei mali sopportati, dei rifiuti subiti, degli oltraggi sofferti.

In ogni sua fase aveva seguito il lamentevole autunno di cui è vittima la creatura umana, facile ad inasprirsi, abile a frodare se stessa; l’uomo che costringe i suoi pensieri a corbellarsi a vicenda per meglio patire; che si guasta in anticipo ogni possibile gioia a forza di esaminarla da ogni parte e di anatomizzarla.

Poi in quell’anima dalla sensibilità così esasperata portata dalla riflessione a respingere con ferocia una abnegazione tanto più imbarazzante quanto più calorosa, a guardarsi dagli amorevoli oltraggi di un affetto dettato da carità, egli vedeva poco a poco sorgere spaventose quelle passioni in ritardo, quei maturi amori in cui uno si abbandona ancora mentre già l’altro si tiene in guardia; in cui la stanchezza dell’uno chiede all’altro carezze filiali che seducono per la loro apparente novità, candido affetto materno che riposi per la sua dolcezza e lasci in pari tempo gustare i piccanti rimorsi di un vago incesto.

In magnifiche pagine aveva esposto questi ibridi amori, esasperati dall’impossibilità in cui sono di appagarsi; le pericolose menzogne degli stupefacenti e dei tossici cui l’infermo ricorre per addormentare la sofferenza e domare la noia.

In un tempo in cui la letteratura imputava quasi interamente il dolore di vivere al disinganno di un amore non corrisposto o alle gelosie dell’adulterio, egli aveva trascurato queste scarlattine e sondato invece le ferite tanto più difficili a rimarginarsi, tanto più dolorose e profonde, che apre la sazietà, la delusione, il disprezzo in quelle anime in isfacelo che l’oggi tortura, l’ieri colma di disgusto, l’indomani atterrisce e dispera.

E più Des Esseintes rileggeva Baudelaire più avvertiva un ineffabile fascino in questo scrittore che, in un tempo in cui il verso non serviva più che a ritrarre l’aspetto esterno di esseri e cose, era riuscito ad esprimere l’inesprimibile, grazie ad una lingua tutta muscoli e polpa; che meglio di ogni altro scrittore possedeva la meravigliosa dote di rendere nel modo più chiaro gli stati d’animo morbosi, meno definibili, più oscillanti degli spiriti spossati e delle anime tristi.

A partire da Baudelaire, si diradavano nella scansia i libri francesi. Des Esseintes era del tutto insensibile alle opere per le quali è indizio di gusto avvertito estasiarsi. «Il grande riso di Rabelais» e «la solida comicità di Molière» non riuscivano a spianare sulla sua fronte una ruga; e l’antipatia che provava per questi buffoni era così spinta che gli facea temere di confonderli, dal punto di vista dell’arte, con le esibizioni di quegli scimuniti che fanno del loro meglio per rallegrare le fiere.

Dei poeti antichi leggeva quasi solo Villon, del quale lo commovevano le malinconiche ballate; e qualche brano di D’Aubigné che qua e là gli sferzava il sangue con l’incredibile virulenza delle sue apostrofi e dei suoi anatemi.

Tra i prosatori, poco conto faceva di Voltaire e di Rousseau, nonché di Diderot, di cui i tanto magnificati «salons» trovava pieni, al di là di ogni discrezione, di scemenze morali e di aspirazioni balorde. In odio a tutta questa farragine, si rifugiava quasi unicamente nella lettura dell’eloquenza cristiana, di Bourdaloue e di Bossuet; il loro periodare sonoro ed abbigliato gli incuteva rispetto; ma più ancora gustava i pensieri di Nicole, che nel giro della frase incisiva e disadorna condensano tanta vitale sostanza; e soprattutto Pascal, il cui austero pessimismo, la cui dolorosa attrizione gli andavano al cuore.

A parte questi pochi libri, la letteratura francese cominciava, nella sua biblioteca, col secolo.

Si divideva in due gruppi: uno abbracciava la letteratura propriamente detta, quella profana; l’altro la letteratura cattolica: una letteratura di un genere speciale, pressoché ignorata nonostante gli sforzi che grandi secolari case editrici facevano per divulgarla in tutto il mondo.

Egli non aveva arretrato davanti all’impresa di percorrere quelle catacombe e, come era avvenuto per l’arte laica, sotto valanghe di carta da macero aveva scoperto qualche autentico autore.

Contrassegnava questa letteratura la fedeltà a certe idee e l’uso costante di un certo linguaggio. Come la Chiesa s’era inibita qualunque variante alla forma, fissata una volta per sempre, degli oggetti sacri, allo stesso modo con le reliquie dei dogmi aveva religiosamente serbato il tabernacolo che le accoglieva: la lingua oratoria del secolo d’oro. Come anche dichiarava uno dei suoi scrittori, Ozanam, lo stile cristiano non sapeva che farsi della lingua di Rousseau, esso doveva valersi unicamente del dialetto di Bourdaloue e di Bossuet.

A dispetto di questa affermazione, la Chiesa, più tollerante, chiudeva gli occhi su certe espressioni, certi giri di frase, tolti in prestito alla lingua laica del secolo; ed il linguaggio cattolico s’era un po’ alleggerito del suo periodare massiccio che appesantivano, specie in Bossuet, le interminabili parentesi ed il faticoso allacciamento, affidato ai pronomi, di frase con frase; ma le concessioni s’erano fermate lì; ed altre sarebbero risultate superflue perché, così sveltita, quella prosa bastava egregiamente ai limitati soggetti che la Chiesa si condanna a trattare.

Incapace di riallacciarsi alla vita del suo tempo, di rendere con efficacia il più semplice aspetto di esseri e cose, inetta a spiegare le complicate astuzie d’un cervello refrattario alla grazia, quella lingua vinceva però ogni altra nel trattare soggetti astratti. Utile nella discussione di un punto controverso, nella dimostrazione di una teoria, nell’incertezza di una interpretazione, più di ogni altra pure essa aveva l’autorità necessaria per affermare senza discussione la verità di una dottrina.

Disgraziatamente, come sempre anche qui, una folla di tangheri aveva invaso il santuario e ne aveva con la propria ignoranza e mancanza di talento insudiciato l’austerità e la nobiltà. Per colmo di disdetta, pie donne se n’erano immischiate e i loro lamentevoli cicalecci erano stati esaltati come opere di genio da malaccorte sacristie e da incauti salotti.

Fra queste, aveva incuriosito Des Esseintes l’opera della Swetchine, la generalessa russa, la cui casa era stata a Parigi la meta dei più ferventi cattolici. Quella lettura lo aveva massacrato di noia: peggio che brutti libri, eran quelli dei libri qualunque; pareva di trovarsi in una chiesuola dove tutto un pubblico altezzoso e bigotto borbottasse preci, sottovoce si scambiasse notizie, si ripetesse con aria di mistero e con importanza luoghi comuni sulla politica, sulle previsioni del barometro, sul tempo che faceva.

Ma c’era chi batteva la Swetchine: una laureata con tanto di diploma di istituto, la signora Augusta Craven, l’autrice del Récit d’une soeur, di un’Eliane, di un Fleurange; opere che la stampa cattolica ortodossa esaltava in coro con accompagnamento d’organo e di fagotto.

No, mai e poi mai Des Esseintes avrebbe supposto che si potessero scriver di simili scemenze. Stupidi dal punto di vista del contenuto, quei libri erano per sovramercato scritti in una lingua che finiva per renderli quasi quasi personali, poco meno che delle rarità.

Del resto non era certo in libri di donne che Des Esseintes, scarsamente sentimentale com’era e lettore punto novellino, poteva trovare un pascolo letterario adatto ai suoi gusti.

S’accostò tuttavia, con la migliore disposizione e armato d’un buon volere che doveva aver ragione d’ogni scatto d’impazienza, all’opera del genio in gonnella, della Vergine sdottorante del gruppo. Non servì; non trovò alcun piacere nella lettura di quel «Diario» e di quelle «Letture» dove Eugénie de Guérin esalta al di là di ogni discrezione il portentoso talento di un fratello che verseggiava con una grazia, con un candore, che bisognava risalire al signor De Jouy e al signor Écouchard Lebrun per trovare qualche cosa che gli stesse a paro per audacia e originalità.

Invano egli aveva cercato di capire in che consistesse il pregio di quei libri in cui si incontravano notizie come queste: «Ho appeso stamane al capezzale del babbo la croce che una bimbetta gli diede ieri» – «Siamo invitati Mimì ed io ad assistere domani in casa del signor Requiers alla benedizione di una campana; è una gita che non mi dispiace»; dove si apprendono avvenimenti di questa importanza: «Mi sono ora appesa al collo una medaglia della SS. Vergine che Luisa mi ha spedito perché mi preservi dal colera»; dove si notano lampi poetici di questo genere: «Oh il bel raggio di luna venuto a posarsi sul vangelo che stavo leggendo!»; infine delle osservazioni acute e delicate come questa: «Quando un uomo che passa davanti ad una croce lo vedo segnarsi o togliersi il cappello, mi dico: Ecco un cristiano che passa.»

E su questo tono l’autrice seguitava, senza dare al lettore un momento di respiro; finché Maurice De Guérin moriva e la sorella lo piangeva in nuove pagine, scritte in uno stile acquoso, seminato qua e là di saggi di poesia d’una così mortificante povertà da finire per muovere Des Esseintes a pietà.

Oh non si poteva dire davvero che il partito cattolico fosse difficile nella scelta dei suoi pupilli né che in fatto d’arte si mostrasse di gusti esigenti!

Queste sue colombelle per le quali manifestava tante premure, alle quali aveva aperto i suoi fogli sino a stancare la pazienza dei redattori, scrivevano tutte come educande in una lingua incolore, come prese da una diarrea contro la quale non valessero astringenti.

Ce n’era d’avanzo perché Des Esseintes distornasse la faccia inorridito; ma a compensarlo di quel disgusto, a fargli la bocca meno amara, non bastavano certo i grandi sacerdoti in cattedra del suo tempo.

Eran costoro, certo, predicatori o polemisti impeccabili e corretti; ma la lingua che adoperavano nei loro libri o sermoni aveva finito per perdere ogni personalità, per fissarsi in una rettorica dai movimenti e dalle pause previste, in sfilze di periodi calcati tutti su un unico modello.

Tutti gli uomini di chiesa scrivevano infatti alla stessa guisa; e se si distinguevano fra loro, era per un po’ più o meno d’enfasi e d’abbandono. Quasi nessuna differenza s’avvertiva tra le pagine egualmente grigie dei Monsignori Dupanloup o Landriot, La Bouillerie o Gaume; del benedettino Guéranger o del padre Rastibonne, di Monsignor Freppel o di Monsignor Perraud, dei Reverendi Padri Ravignan o Gratry, del gesuita Olivain, il carmelitano Dosithée, il domenicano Didon o dell’ex priore di San Massimino, il reverendo Chocarne.

Non era la prima volta che Des Esseintes se lo diceva: per disgelare quella lingua, per dar vita a quello stile per tutti, incapace a reggere il peso di un’idea che non fosse prevista, a sostenere una tesi che fosse coraggiosa, occorreva in chi l’adoperava un talento di prim’ordine, una originalità ben profonda, una fede ben radicata.

Eppure qualche scrittore c’era che col calore dell’eloquenza sapeva fonderla e atteggiarla a modo suo; primo fra questi Lacordaire, uno dei pochissimi veri scrittori che da anni avesse dato la Chiesa.

Imprigionato come tutti i suoi colleghi nell’angusta cerchia dell’ortodossia, obbligato com’essi a muoversi in quell’ambito, a non valersi che di concetti enunciati e sanciti dai Padri della Chiesa e svolti dalle cattedre e dai pulpiti, egli riusciva a dare l’illusione che così non fosse, a ringiovanire quei concetti, a modificarli quasi, dando loro una forma più personale e più viva. Qua e là nelle sue conferenze a Notre-Dame, genialità d’espressioni, audacie di vocaboli, accenti d’amore, balzi, gridi d’esultanza, effusioni incontenibili facevano vibrare sotto la sua penna quello stile impassibile da secoli.

Poi, oltre l’oratore di talento che c’era in questo mite e valente frate, il quale aveva consacrato ogni suo sforzo, messa tutta l’intelligenza nell’impossibile compito di conciliare le dottrine d’una società liberale con i dogmi autoritari della Chiesa, c’era in Lacordaire un cuore traboccante di contenuta tenerezza, di fervida dilezione. Nelle lettere che indirizzava ai giovani si trova la dolcezza d’un padre che esorta i figli: sorridenti reprimende, amorevoli consigli, indulgenti perdoni.

Incantevoli le lettere dove confessa candidamente la sua ingordigia d’affetto; quasi imponenti altre, scritte per sostenere il coraggio in chi vacilla e dissiparne i dubbi con le incrollabili certezze della sua Fede. Insomma quell’affetto di padre che dava alla sua parola una delicatezza poco meno che femminea, conferiva alla sua prosa un accento che la distingueva da tutta la letteratura clericale.

Ben rari si facevano dopo lui i frati e gli ecclesiastici che mostravano una loro, per quanto modesta, personalità. Tutto al più, si prestava ancora alla lettura qualche pagina del suo allievo, l’abate Peyreyve. Questi aveva lasciato del maestro commoventi biografie, scritto qualche bella lettera, composto qualche articolo nella sonora lingua dei sermoni, pronunciato dei panegirici in cui si avvertiva però troppo il tono declamatorio.

Certo, l’abate Peyreyve non possedeva né il cuore né gli entusiasmi del maestro. Egli era troppo prete e troppo poco uomo; pure nella sua oratoria sorprendevano, qua e là, degli accostamenti interessanti, un periodare largo e consistente, dei voli quasi imponenti.

Ma bisognava giungere agli scrittori che non avevano ricevuto gli Ordini, agli scrittori laici, fautori del cattolicesimo e devoti alla sua causa, per trovare dei prosatori meritevoli di sosta.

Lo stile episcopale, così scaduto nell’uso fattone dai prelati, s’era ritemprato ed aveva acquistato un certo maschio nerbo col conte di Falloux.

Sotto un aspetto mite, questo accademico trasudava fiele. Se nei discorsi pronunciati al parlamento nel 1848 era prolisso e grigio, gli articoli apparsi sul Correspondant e riuniti poscia in libro, erano invece di una asprezza e causticità che l’esagerata cortesia della forma non bastava a mascherare. Concepiti come arringhe, li permeava un certo amaro brio e sorprendevano per l’intransigenza della convinzione.

Polemista pericoloso per i trabocchetti che tendeva, loico scaltro che arrivava per vie traverse e coglieva l’avversario di sorpresa, il conte di Falloux aveva pure scritto qualche acuta pagina sulla morte della Swetchine, ch’egli venerava come una santa e della quale aveva raccolto gli opuscoli.

Ma dove il suo talento di scrittore si rivelava veramente, era in due opuscoletti comparsi l’uno nel ’46, l’altro nell’80; quest’ultimo intitolato l’Unité nationale.

Animato di fredda rabbia, l’irreducibile legittimista combatteva questa volta, contro il solito, a viso aperto e lanciava in faccia agli increduli, a mo’ di perorazione, di queste invettive fulminanti:

«E voi, utopisti per sistema, che astraete dalla natura umana, fautori d’ateismo nutriti d’odio e di chimere, emancipatori della donna, sovvertitori della famiglia, genealogisti della razza delle scimmie, voi, che chiamare per nome era ancora poco fa un’ingiuria, esultate; voi sarete stati profeti e i vostri scolari saranno i pontefici d’un abominevole avvenire!»

L’altro opuscolo recava il titolo: Le parti catholique ed era diretto contro il despotismo dell’Univers e contro Veuillot, del quale disdegnava di fare il nome.

Qui gli attacchi indiretti ricominciavano. Ogni riga schizzava veleno con cui il gentiluomo, coperto di lividi, rispondeva con sprezzanti sarcasmi alle calciate dell’avversario.

Da soli, Falloux e Veuillot, rappresentavano a meraviglia i due partiti della Chiesa dove i dissensi sfociavano in odii insanabili; il primo, sulle sue e più prudente, apparteneva a quella setta liberale che già contava Montalembert e Cochin, Lacordaire e Broglie; apparteneva interamente alle idee del Correspondant, una rivista che si sforzava di coprire d’una vernice di tolleranza l’intransigenza della Chiesa; Veuillot, con meno peli sulla lingua, più franco, rigettava quella maschera, riconosceva senza esitare il dispotismo delle volontà d’oltralpe, confessava ed invocava a gran voce l’implacabile giogo dei suoi dogmi.

Egli s’era foggiato per il combattimento una lingua sua, nella quale entrava del La Bruyère e del plebeo Du Gros-Caillou. Questo stile tra solenne e canagliesco, acquistava in mano di quell’energumeno, il terribile peso di una clava. Cocciuto e coraggioso come lui solo, aveva con questo arnese accoppato così i liberi pensatori che i vescovi, menando colpi all’impazzata, avventandosi a capo basso come un toro contro tutti i nemici, a qualunque partito appartenessero.

Guardato con diffidenza dalla Chiesa, che non ammetteva né quello stile di contrabbando né quel frasario da malvivente, questo teppista della religione s’era lo stesso imposto per la forza del suo ingegno, sollevandosi contro, lungo il cammino, tutta la stampa ch’egli strigliava a sangue negli «Odori di Parigi», tenendo testa a tutti gli assalti, sbarazzandosi a calci di tutti i mediocri scrittori che cercavano di afferrarglisi alle gambe.

Disgraziatamente, il suo incontestabile talento veniva fuori solo nel fervore della mischia; da calmo, Veuillot non era più che uno scrittore come tanti altri. La sua poesia, i suoi romanzi facevano pietà; quel linguaggio tutto pepe svaporava, perdeva ogni piccante, diventava pappa; il gradasso cattolico si mutava, in riposo, in un cachettico che tossiva dozzinali litanie e balbettava cantici infantili.

Più agghindato, più contenuto, più grave era l’apologista diletto della Chiesa, il censore della, lingua cristiana, Ozanam.

L’imperturbabilità con cui questo scrittore, senza preoccuparsi di recar prove a sostegno di quanto contro ogni verosimiglianza asseriva, discorreva degli imperscrutabili disegni di Dio, non finiva di sbalordire Des Esseintes, pure così poco facile a lasciarsi sorprendere. Col più ammirevole sangue freddo, costui alterava i fatti; contraddiceva, anche più impudentemente dei panegiristi degli altri partiti, i dati della Storia; asseriva che mai la Chiesa aveva dissimulato quanta stima facesse della Scienza; definiva le eresie miasmi impuri; trattava il buddismo e le altre religioni con tale disprezzo da scusarsi d’insudiciare la prosa cattolica con l’accennare loro, fosse pure per accusarle. Qua e là, la passione religiosa riscaldava quell’oratoria, sotto il cui gelo si sentiva ribollire sordamente una corrente impetuosa. Nei numerosi scritti su Dante, su San Francesco, sull’autore dello Stabat, sui poeti francescani, sul socialismo, sul diritto commerciale, su ogni argomento, egli perorava la difesa del Vaticano ch’egli riteneva indefettibile. Imperterrito, giudicava buona o cattiva ogni causa a seconda che s’accostava alla sua o se ne scostava.

Allo stesso sistema di considerare ogni quistione da un unico punto di vista, s’atteneva lo stitico scrittorello che alcuni gli opponevano a rivale: Nettement.

Questi era meno azzimato ed affettava ambizioni meno alte e più mondane. Più volte era uscito dalla clausura letteraria, in cui invece si chiudeva Ozanam, per fare, in veste di giudice, scorribande nella letteratura laica. Là si era avventurato a tastoni come un fanciullo in una cantina, senza vedere intorno a sé altro che buio, un buio diradato solo dalla candela che gli rischiarava il cammino. Ignaro del luogo, aveva inciampato ad ogni passo: per Murger aveva potuto parlare di «preoccupazione di uno stile cesellato e polito all’estremo»; dire di Hugo che andava in cerca dell’infetto e dell’immondo e paragonargli nientemeno che Laprade; di Delacroix, che s’infischiava dei canoni pittorici; esaltare Paul Delaroche ed il poeta Reboul perché gli parevano in possesso della fede; opinioni che facevano spallucciare Des Esseintes e che ricopriva una prosa rabberciata, d’un ordito ormai logoro dall’uso, che si stracciava ad ogni svolta di frase.

Né granché di più lo interessava l’opera di Poujoulat e di Genoude, di Montalembert, di Nicolas e di Carne; sentiva inclinazione per la storia trattata con competenza ed in una lingua decorosa dal Duca di Broglie e propensione per le quistioni sociali e religiose affrontate da Henry Cochin; ma s’asteneva del giudicarli.

Era tanto che non prendeva più in mano quei libri e del tempo n’era passato parecchio da quando aveva gettato nelle cartacce le puerili elucubrazioni del sepolcrale Pontmartin e dello strimenzito Féval ed in cui aveva affidato ai domestici, che ne facessero l’uso che credevano, le storielle degli Aubineau e dei Lasserre, questi agiografi da strapazzo dei miracoli operati dal signor Dupont di Tours e dalla Madonna.

In conclusione, da tutta questa letteratura Des Esseintes non ricavava nemmeno un po’ di distrazione alla noia; per cui aveva relegato quel mucchio di libri – non ripresi in mano da quando era uscito di collegio – nel cantuccio più buio della biblioteca.

«Questi qui poi non avrei dovuto neanche portarmeli dietro» si disse; e tirava fuori, snidandoli di dietro ad altri, alcuni volumi che gli erano particolarmente odiosi. Si trattava delle opere dell’abate Lammenais e di quell’impermeabile settario, insuperabilmente e pomposamente noioso e vacuo, che è il conte Joseph de Maistre.

Un solo volume restava a portata di mano sur un palchetto: L’Homme di Ernest Hello.

Questo qui era l’esatta antitesi dei suoi correligionari.

Quasi isolato nel devoto crocchio che il suo modo di fare indisponeva, Ernest Hello aveva finito per lasciare la grande strada maestra che mena dalla terra al cielo. Disgustato senza dubbio dalla banalità di quella via, dalla chiassosa calca dei letterati che gli uni dietro gli altri vi seguivano da secoli la stessa pista, camminando sulle orme un dell’altro, fermandosi negli stessi punti per scambiarsi gli stessi luoghi comuni sulla religione, sui Padri della Chiesa, sulle loro stesse credenze, sui loro stessi maestri, – egli ave va preso per scorciatoie ed era venuto a sbucare nell’inamena radura di Pascal; e dopo esservi a lungo indugiato per riprender lena, aveva seguitato per suo conto il cammino, spingendosi più innanzi del giansenista, al quale del resto non risparmiava aspre critiche nel campo del pensiero non religioso.

Contorto e prezioso, dottorale e complesso, Hello ricordava a Des Esseintes, per la penetrante sottigliezza dell’analisi, gli scavi in profondità, le acute intuizioni di alcuni dei psicologi del suo e del precedente secolo.

C’era in lui una specie di Duranty cattolico, ma più dogmatico e più acuto; un osservatore esperto nel maneggio della lente, un dotto ingegnere dell’anima, un abile orologiaio del cervello che pigliava gusto a scrutare il meccanismo d’una passione, a scomporlo in tutti i suoi minuti ingranaggi.

In quella mente bizzarramente conformata, si producevano associazioni di idee, accostamenti e contrapposizioni impreviste; poi tutto un curioso procedimento che dell’etimologia delle parole si serviva da trampolino alle idee il cui tessuto diventava a volte tenue, ma restava quasi sempre ingegnoso e vivo.

Aveva così, nonostante l’instabile equilibrio delle sue costruzioni, smontato pezzo per pezzo con singolare acume «L’Avaro», «L’uomo mediocre»; analizzato «Il piacere della mondanità», «La passione della sventura»; messo in luce gli interessanti paragoni che si possono istituire tra i processi della fotografia e quelli del ricordo.

Hello aveva un’anima a due facce; dietro il diritto appariva il rovescio ch’era quello d’un fanatico religioso, d’un profeta biblico.

Come Hugo, di cui ricordava a tratti le slogature di frasi e di idee, Ernest Hello s’era divertito a fare il piccolo San Giovanni a Patmos: pontificava e vaticinava dall’alto d’una roccia confezionata nelle sacristie di via Saint-Suplice, arringando il lettore in un linguaggio apocalittico, cui dava qua e là sapor di sale l’amarezza d’un Isaia.

Ma questa abilità nel maneggiare il perfezionato istrumento dell’analisi ch’egli aveva tolto di mano ai nemici della Chiesa, non era che un lato del temperamento di quest’uomo.

Affettava allora sproporzionate ambizioni di profondità. Dei compiacenti gridavano al genio, fingevano di ritenerlo il luminare, il pozzo di scienza del secolo; ed un pozzo magari lo era, ma ben spesso nel suo fondo non si scorgeva stilla d’acqua.

Nel suo volume Paroles de Dieu, in cui parafrasava le Sacre Scritture e si sforzava di complicarne il senso pressapoco chiaro; nell’altro suo libro, L’Homme; nell’opuscolo Le Jour du Seigneur, scritto in uno stile biblico, singhiozzante ed oscuro, appariva quale un apostolo vendicativo, orgoglioso, roso dalla bile; ma si scopriva pure quale un chierico affetto da epilessia mistica, un De Maistre che non mancasse di talento, un settario ringhioso e feroce.

Senonché, pensava Des Esseintes, quella sfrontatezza di ammalato tappava spesso la vista all’acuto casista. Con più intransigenza ancora di Ozanam, egli negava risolutamente valore a tutto ciò che non apparteneva alla sua cricca; proclamava gli assiomi più stupefacenti, sosteneva con sconcertante sicumera che «la geologia aveva preso parte per Mosè»; che la storia naturale, la chimica, tutta la scienza moderna comprovava l’esattezza scientifica della Bibbia.

Non c’era pagina dove non sbandierasse l’Unico Vero, il sapere sovrumano della Chiesa; condendo il tutto di aforismi peggio che avventati e di schiumanti imprecazioni, vomitate sull’arte dell’ultimo secolo.

A questo stravagante miscuglio, s’aggiungeva in Hello un debole per gli sdilinquimenti bacchettoni, che l’aveva portato a tradurre le Visioni di Angela -di Foligno, un libro d’una stupidità senza pari; e le opere scelte di Giovanni Rusbrock l’Ammirabile, un mistico del Duecento, la cui prosa offriva una incomprensibile ma attraente amalgama d’esaltazioni tenebrose, d’effusioni carezzevoli, di slanci veementi.

Tutta la posa dell’arrogante pontefice ch’era Hello, sgorgava fuori dall’abracadabrante prefazione scritta per questo libro. Com’egli faceva notare “le cose sublimi si possono solo balbettare”; ed egli balbettava infatti quando dichiarava che «la sacra tenebra dove Rusbrock spiega le sue ali d’aquila, è il suo oceano, la sua preda, la sua gloria e che i quattro orizzonti sarebbero per lui troppo incomodo vestito.»

Comunque, Des Esseintes si sentiva attratto da questo spirito male equilibrato ma sottile. La fusione non aveva potuto farsi tra l’abile psicologo e il pedante bigotto; ma questa stessa incongruenza costituiva la sua personalità.

Sotto la sua bandiera s’era arruolato lo sparuto gruppo degli scrittori che combattevano sul fronte clericale. Non appartenevano costoro al grosso dell’esercito; erano più esattamente, i battistrada, le avanguardie d’una religione che diffidava degli uomini di talento, come Veuillot, come Hello, perché non li trovava ancora abbastanza docili né abbastanza piatti. Ad essa occorrevano soldati che non ragionassero, bande di combattenti ciechi, di quei mediocri dei quali Hello parlava con l’indignazione d’un uomo che ha subìto il loro giogo.

Tanto che il cattolicesimo s’era affrettato ad allontanare dai suoi fogli uno dei suoi partigiani, un libellista arrabbiato, che scriveva una lingua al tempo stesso esasperata e preziosa, sempliciotta e feroce: Léon Bloy; ed aveva messo alla porta delle sue librerie come un appestato e un immorale un altro scrittore che s’era pure sgolato a cantar le sue lodi: Barbey d’Aurévilly.

È vero che costui era troppo compromettente e troppo poco docile. Gli altri, insomma, piegavano la testa alle ramanzine e rientravano nelle file; lui era il discolo che fa la disperazione dei genitori e il partito lo rinnegava per suo. Come scrittore, correva dietro alle sgualdrine e discinte le introduceva nel tempio.

Ci voleva anzi tutto l’immenso disprezzo di cui il cattolicesimo gratifica l’ingegno, perché ancora una scomunica in piena regola non avesse colpito quell’insolente servo, il quale col pretesto d’onorare i padroni tirava sassi nei vetri della cappella, improvvisava giochi di destrezza coi santi cibori, eseguiva balletti intorno al Santissimo. Delle opere di Barbey d’Aurévilly due soprattutto calamitavano Des Esseintes: il Prete con moglie e Le Diaboliche.

Altre, come Lo stregato, Il Cavalier di Touches, Una vecchia amante, eran certo più equilibrate, meglio finite; ma lasciavano più freddo questo lettore che non portava un vero interesse se non alle opere malaticce, minate ed esasperate dalla febbre.

Con questi volumi quasi sani, Barbey d’Aurévilly s’era barcheggiato tra misticismo e sadismo, questi due fossati della religione cattolica che finiscono per confluire.

Nei due libri che ora Des Esseintes sfogliava, Barbey aveva messo da parte ogni prudenza. Data briglia sciolta alla sua cavalcatura, era partito, ventre a terra, ed aveva percorso la sua strada sino in fondo.

Tutto l’arcano orrore medievale grandeggiava nell’inverosimile «Prete con moglie»; la magia vi si mescolava alla religione, il libro della cabala a quello della messa; e più spietato, più feroce del Diavolo, il Dio del Peccato Originale s’accaniva contro l’innocente Callista, la reproba, la marchiava in fronte d’una croce rossa, della stessa di cui già aveva fatto contrassegnare da uno dei suoi angeli le case degli infedeli che aveva in animo di sterminare.

Concepite dalla fantasia d’un monaco digiuno colto da delirio, quelle scene ti passavano sott’occhio nello stile a sbalzi d’un esagitato. Disgraziatamente, tra quelle creature squilibrate, ricordanti le mesmerizzate Coppelia di Hoffmann, ce n’erano che, come il Néel de Néhou, sembravano concepite nei momenti di prostrazione che tengon dietro alle crisi e stonavano su quello sfondo di cupa follia, recandovi l’involontaria nota comica che dà la vista d’un signorinetto di zinco, in stivali flosci che suona il corno sullo zoccolo d’una pendola.

Smaltite queste divagazioni mistiche, lo scrittore aveva avuto un periodo di bonaccia; ma ad esso era seguita una tremenda ricaduta.

Il credere che l’uomo è un asino di Buridano, un essere disputato tra due potenze d’egual forza, volta a volta vittoriose e vinte; questa credenza che la vita umana altro non è che una lotta di esito incerto che si combatte tra cielo e inferno; questa credenza in due entità antitetiche, Satana e Cristo, non poteva a meno di sfociare in un intimo dissidio, in cui l’anima esaltata dall’incessante battaglia, infiammata in certo qual modo dalle promesse e dalle minacce, finisce per darsi vinta e prostituirsi a quella delle due parti che la perseguita con maggiore accanimento.

Nel Prete con moglie Barbey d’Aurévilly aveva bruciato incensi al Cristo, tentatore vittorioso; nelle Diaboliche egli soccombeva al Diavolo, lo celebrava; e faceva allora la sua comparsa il sadismo, questo figlio spurio che il cattolicesimo ha, sotto qualunque forma si presentasse, perseguitato attraverso secoli con esorcismi e con roghi.

Un’inclinazione curiosa e mal definita come il sadismo non potrebbe infatti nascere nell’animo d’un miscredente. Sadismo non è solo avvoltolarsi in eccessi carnali acuendoli con cruente sevizie: non si tratterebbe allora che d’uno scarto del senso genetico, d’una forma di satiriasi spinta all’eccesso. Sadismo consiste prima di tutto in una pratica sacrilega, in una rivolta morale, in un’orgia dello spirito, in una aberrazione tutta cerebrale, tutta cristiana. Esso risiede inoltre in una gioia frenata dal timore, in una gioia analoga al piacere malvagio che trova il ragazzo nel disobbedire, nel giocar con cose proibite, pel semplice motivo che gli è stato intimato dai genitori di tenersene lontano.

Infatti, se non si complicasse d’un sacrilegio, il sadismo non avrebbe ragion d’essere; d’altra parte, il sacrilegio, che suppone necessariamente l’esistenza di una religione, non può essere di proposito ed in realtà commesso che da un credente, perché nessuna esultanza si proverebbe nel profanare una fede che ci fosse indifferente o sconosciuta.

La forza del sadismo, la sua attrattiva consiste dunque interamente nel piacere vietato di tributare a Satana gli omaggi e le preghiere che si debbono a Dio; consiste dunque nell’inosservanza dei precetti cattolici che il sadico arriva a mettere in pratica al rovescio, commettendo, al fine di dileggiare più atrocemente il Cristo, i peccati che egli ha più espressamente maledetto: la polluzione del culto e l’orgia della carne.

A dire il vero, questo pervertimento cui il Marchese de Sade ha legato il suo nome, era antico quanto la Chiesa; aveva infierito nel Settecento, rinnovando, a non volere rifarsi più in su, per un semplice fenomeno di atavismo, le empie pratiche del sabbato medioevale.

Bastava a Des Esseintes aver consultato il Malleus maleficiorum, questo terribile codice di Jacob Sprenger che permise alla Chiesa di mandare sul rogo migliaia di negromanti e di stregoni, perché egli trovasse nel sabba tutte le pratiche oscene e tutti i blasfemi del sadismo.

Oltre le sconce scene care al Maligno, le notti di fila consacrate agli accoppiamenti leciti ed illeciti, le notti insanguinate dalla bestialità della foia, egli incontrava in quel codice la parodia delle processioni, la pervicacia degli insulti e delle minacce a Dio, la dedizione al suo Rivale, quando, maledicendo il pane e il vino, si celebrava la messa nera sul dorso d’una donna carponi, che col deretano scoperto e via via polluto fungeva d’altare e che, a scherno dell’Eucaristia, veniva dai presenti imboccata d’un’ostia nera in cui traspariva l’immagine d’un caprone.

Questo rigurgito d’immondi scherni, d’insozzanti obbrobri si mostrava senz’ombra di veli nell’opera del marchese De Sade che drogava d’oltraggi sacrilegi le sue spaventose voluttà. Egli inveiva contro il cielo, invocava Lucifero, trattava Dio di miserabile, di scellerato, d’imbecille; sputava sulla Eucaristia; s’ingegnava in ogni modo per contaminare con le più basse turpitudini una Divinità che sperava lo precipitasse nell’Inferno, pur proclamando, per provocarla meglio, la sua inesistenza.

Questo stato d’animo, Barbey d’Aurévilly lo rasentava da presso. Se lui non arrivava agli eccessi del divino marchese, non proferiva contro il Salvatore atroci imprecazioni; se più prudente o meno coraggioso, pretendeva di onorar sempre la Chiesa, rivolgeva però egualmente, come nel Medio Evo, le sue suppliche al Diavolo; e scivolava anche lui, per sfidar Dio, nell’erotomania demoniaca, inventando mostruosità sessuali; giungendo, nel «Pranzo d’un ateo», a togliere in prestito alla Philosophie dans le boudoir un episodio ch’egli drogava ancora, come non bastasse, di nuove spezie.

Questo libro eccessivo andava a sangue a Des Esseintes; tanto che ne aveva fatto tirare in paonazzo vescovile incorniciato di porpora cardinalizia, su autentica pergamena benedetta dagli Uditori della Santa Ruota, un esemplare stampato in caratteri di civiltà. Gli sghembi contorti di quelle lettere, i loro paraffi torti in code e zanne ostentavano una forma satanica.

Con alcune poesie di Baudelaire, che, ad imitazione dei canti innalzati durante le notti del sabba, celebravano litanie infernali, questo volume era, fra tutte le opere della letteratura apostolica del tempo, il solo che testimoniasse di quello stato d’animo, devoto ed empio insieme, verso il quale i ritorni del cattolicesimo, stimolati dagli accessi di nevrosi, avevano spesso spinto Des Esseintes.

Con Barbey d’Aurévilly si chiudeva la serie degli scrittori religiosi.

A ver dire, questo paria apparteneva, da qualunque punto di vista lo si volesse considerare, alla letteratura laica, piuttosto che all’altra, dov’egli si rivendicava un posto che gli veniva rifiutato. La sua lingua d’un romanticismo scapigliato, piena di locuzioni contorte, di giri di frasi inusitati, di paragoni barocchi, faceva scattare a scudisciate i periodi che esplodevano come petardi, tra uno strepito di sonagli, lungo tutto il testo.

In una parola: d’Aurévilly irrompeva come uno stallone tra i castrati che popolano le scuderie oltremontane.

Questo pensava Des Esseintes, rileggendosi qua e là qualche brano del libro; e, confrontando quello stile nervoso e vario a quello linfatico e stereotipo degli altri scrittori cattolici, riandava con la mente a quella evoluzione delle lingue che Darwin ha così giustamente messo in evidenza.

Nel suo commercio coi profani, cresciuto in mezzo alla scuola romantica, al corrente della nuova letteratura, Barbey si trovava necessariamente in possesso di un dialetto che aveva subito numerose e profonde modificazioni, che dal tempo del grande secolo s’era rinnovato.

Per contro, confinati nelle loro sacristie, imbalsamati dalla lettura di vecchie opere che dai tempi dei tempi eran sempre le stesse, all’oscuro dell’evoluzione letteraria e ben deliberati all’occorrenza d’accecarsi pur di non vederla, gli ecclesiastici adoperavano – e non poteva essere altrimenti – una lingua immutabile, come quella lingua settecentesca che i pronipoti dei francesi stabiliti nel Canada parlano e scrivono ancora correttamente, senza che alcuna selezione di costrutti o di vocaboli si sia potuta produrre nel loro idioma, isolato dall’antica madre patria e attorniato d’ogni parte da gente che parla inglese.

Rivolgeva in mente questi pensieri, quando lo squillo argentino d’una campana che rintoccava l’avemaria del giorno annunziò a Des Esseintes che la colazione era pronta.

Lasciò i suoi libri; si terse la fronte; si avviò alla sala da pranzo, dicendosi che di tutti i volumi che aveva finito di mettere a posto, le opere di Barbey d’Aurévilly eran le sole dove stile e idee presentassero quei segni d’infrollimento, quelle macchie di corruzione, quelle ammaccature sulla buccia e quel sapore sfatto ch’egli amava tanto negli scrittori decadenti, latini e monastici, delle età decrepite.

XIII

La stagione s’andava guastando; una usurpava il posto all’altra, quell’anno. Dopo ventacci e nebbioni, ecco inarcarsi cieli incandescenti, d’un bianco opaco di lamiera.

In due giorni, al freddo umido delle nebbie, al ruscellar delle pioggie, succedeva, senza il minimo preavviso, un calor torrido, un’atmosfera di piombo, asfissiante. Entrato di colpo in combustione, il sole apriva la sua bocca di forno, vomitando una luce che toglieva la vista.

Si levò dalle strade calcinate una polvere ardente che seccava e abbrustoliva gli alberi, strinava l’erba ingiallita. Il riverbero dei muri scialbati di calce, l’incendio appiccato allo zinco dei tetti ed ai vetri delle finestre accecò. Una temperatura da alto forno s’appesantì sulla casa di Des Esseintes.

Seminudo, aprì una finestra; ricevette in viso un alito di fornace. La stanza da pranzo dove cerco scampo scottava; l’aria rarefatta pareva bollire.

Sedette disperato. Ormai coi libri che aveva finito di sistemare e con le fantasticherie che quel lavoro alimentava in lui, anche l’animazione fittizia che lo teneva in piedi era caduta.

Come tutti i nevropatici, il caldo lo atterrava. L’anemia tenuta a bada dal freddo, riprendeva il suo corso; lo spossava indebolendolo con le copiose sudate.

La camicia incollata al dorso, il perineo bagnato, gambe e braccia madide, la fronte grondante che gli rigava la faccia di stille salate, Des Esseintes giaceva sulla sedia annientato. La vista, in quel momento, della carne nel piatto, gli diede un urto di stomaco. Gridò che gliela togliessero davanti e gli portassero invece delle uova intiepidite. Tentò d’intingervi delle listerelle di pane; gli sbarrarono la gola. Sforzi di vomito lo assalirono. Volle aiutarsi ad inghiottire con un sorso di vino; il vino gli bruciò come fuoco lo stomaco. Si asciugò la faccia; il sudore raffreddandosi fumava lungo le guance. Si provò, per ingannare il mal di cuore, a suggere qualche pezzetto di ghiaccio. Invano.

Una prostrazione da non dire lo obbligò ad appoggiarsi alla tavola.

In cerca d’aria, s’alzò; ma il poco pane trangugiato gonfiava, risaliva in gola, la ostruiva. Mai s’era sentito così inquieto, così a disagio, così a mal partito. Per di più, gli occhi gli si intorbidarono; vide gli oggetti sdoppiarsi, roteare su se stessi. Perdette il senso delle distanze; il bicchiere era a un chilometro da lui. Capiva, sì, d’essere vittima d’un inganno dei sensi, ma non riusciva a reagirvi.

Andò in sala a sdraiarsi sul sofà. Senonché, appena sdraiato, ecco il sofà diventare una tolda di nave, beccheggiare, rullare. Il cuore non resse; si tirò di nuovo su. Per liberarsi di quelle uova che lo strozzavano pensò di ricorrere a un digestivo.

Rientrato nella stanza da pranzo, in quella cabina da bastimento, malinconicamente gli venne fatto di paragonarsi ad un passeggero in preda al mal di mare. Traballando si diresse all’armadio; indugiò lo sguardo sull’organo a bocca, ma non l’aprì. Dal palchetto più alto tolse una bottiglia di benedettino.

Conservava questa bottiglia per la sua foggia: una foggia che gli suggeriva riflessioni al tempo stesso lussuriosette e vagamente mistiche.

Non adesso, però: indifferente, adesso fissava d’uno sguardo atono la bottiglia panciuta, d’un verde scuro cupo.

In altri momenti, con l’annosa pancia monacale, il cappuccio di pergamena, il bollo di ceralacca inquartato di tre mitre d’argento su campo azzurro e fissato al collo, come una bolla papale, da fili di piombo, con la sua etichetta dettata in sonoro latino, stampata su carta ingiallita e come stinta dal tempo: liquor Monachorum Benedictorum Abbatioe Fiscanensis, quella bottiglia gli aveva evocato le priorie medioevali. Sotto quella tonaca rigorosamente abbaziale, segnata d’una croce e della sigla ecclesiastica P.O.M., al pari d’un’autentica Carta protetta da pergamene e legature, dormiva un liquore color zafferano d’una squisita finezza. Si sprigionava da quel liquido un aroma quintessenziato di angelica e di issopo, mescolati con erbe di mare di cui gli zuccheri avevano attenuato il sentor d’iodio e di bromo. Mordeva il palato la fiamma del suo alcole, dissimulata sotto la buccia adescante d’un dolciore tutto verginale, tutto novizio; lusingava l’olfatto con una punta di corruzione, fasciata in una carezza insieme infantile e devota.

Questa ipocrisia che risultava dallo stridente contrasto tra contenente e contenuto, tra la sagoma liturgica della bottiglia e l’anima compiutamente femminea, affatto moderna, lo aveva un tempo fatto fantasticare. Davanti a quella bottiglia aveva a lungo pensato ai monaci che la spacciavano, ai benedettini dell’Abbazia di Fécamp, i quali appartenevano alla congregazione di San Benedetto, senza tuttavia seguire i riti dei monaci biancovestiti di Cîteaux e di quelli nerovestiti di Cluny.

Irresistibilmente se li figurava occupati, come nel Medio Evo, a coltivare semplici, dietro a riscaldare storte, a concentrare dentro alambicchi sovrane panacee, incontestabili magisteri.

Bevve una goccia di quel liquore e ne risentì per qualche momento un sollievo; senonché poco dopo il bruciore riprendeva, che una lacrima di vino era bastata ad accendergli nelle viscere.

Si strappò dal collo il tovagliolo; tornò nello studio, lo percorse in lungo e in largo. Gli pareva d’essere sotto una campana pneumatica dove gradatamente si facesse il vuoto; un mancamento, avvertito dapprima nel cervello, di là gli si propagava per tutto il corpo: d’una soavità intollerabile.

Cercò di tenergli testa. Non reggendovi, per la prima volta dacché era a Fontenay, cercò scampo nel giardino e chiese asilo alla poca ombra che pioveva da un albero.

Seduto sull’erba, l’occhio ebete gli cadeva sui quadratini di legumi piantati dai domestici. Guardava, ma una nebbia verdastra gli ondeggiava davanti agli occhi; non gli lasciava scorgere che forme confuse, di tinte e contorni mutevoli.

Solo in capo ad un’ora riuscì a vedere quello che guardava. Erano delle cipolle e dei cavoli. Più oltre distingueva un campicello di lattughe e, laggiù, lungo la siepe, una fila di gigli bianchi, immobili nell’afa.

Un sorriso gli sfiorò le labbra. Gli si era affacciato alla memoria il curioso paragone che l’antico Nicandro stabilisce tra il pistillo del giglio e i genitali dell’asino; e quell’altro punto dove Alberto il Grande, il taumaturgo, insegna un assai buffo espediente per conoscere, grazie alla lattuga, se una fanciulla è ancora intatta.

Questi ricordi lo esilararono un po’. Esaminò l’orto, interessandosi alle piante avvizzite dal calore, al terreno riarso che fumava nell’infiammato pulviscolo dell’aria. Quindi, di là della siepe, che separava l’appezzamento dalla strada sopraelevata che saliva al forte, scorse dei monelli che si rotolavano all’aperto, in pieno sole.

Li osservava, quando un altro monello si mostrò, più piccino, d’una sporcizia ributtante; i capelli, pieni di sabbia, si sarebbero detti di varech; aveva due pustole verdi sotto il naso, una bocca ripugnante che impiastricciava di bianco addentando una fetta di pane, sulla quale era stato schiacciato del formaggio molle e della cipollina verde tritata.

Des Esseintes aspirò l’aria. Una laida voglia da partoriente, depravata, subitanea s’impadronì di lui; l’immonda fetta di pane gli fece venire l’acquolina in bocca. Credette che lo stomaco, ribelle ad ogni cibo digerirebbe quella sconcezza; che il palato l’aggradirebbe come un boccone da re.

D’un balzo fu in piedi; corse in cucina; spedì il vecchio nel villaggio in cerca di quel formaggio, d’un filoncino di pane, di cipolline; e, dato ordine che gli preparassero una fetta assolutamente eguale a quella che mordeva il monello, tornò a sedersi sotto l’albero.

Adesso i monelli stavano picchiandosi; si disputavano quel pane, se lo strappavano, e, ficcandosene pezzi in bocca, si succhiavano le dita. Calci e pugni piovevano; i più deboli, gettati a terra e calpestati, tiravan calci e frignavano, strusciando il deretano nel pietrisco, conciandosi i calzoni per le feste.

Quello spettacolo ridiede a Des Esseintes tutti i suoi spiriti. L’interesse che prendeva alla zuffa lo distraeva dal suo male; davanti all’accanimento di cui davan prova quei ragazzacci, il suo pensiero andò alla spietata, sconcia lotta per l’esistenza. E per quanto ignobili quei monelli gli apparissero, non poté impedirsi d’interessarsi alla lor sorte, e di dirsi che meglio per essi sarebbe stato se la madre non li avesse partoriti.

Che potevano infatti attendersi? Appena venuti al mondo croste lattee, coliche, febbri, morbillo e ceffoni; sui tredici anni, un lavoro abbrutente e pedate; inganni di donne, malattie e corna coniugali, appena adulti; sul declino, acciacchi e l’agonia in un ricovero di mendicità o in un ospizio.

Né quelli più agiati potevano attendersi miglior destino; tanto che appena un po’ più di buon senso avrebbe dispensato sì gli uni che gli altri dall’invidiarsi.

Anche ai ricchi la vita riserbava in diverso ambiente, le stesse passioni, lo stesso arrabbattarsi, le stesse pene, le stesse malattie; e mediocri restavano anche per essi i piaceri, li tirassero dall’alcole, dal cervello o dalla carne. Che se qualche vantaggio esisteva a pro dei ricchi, s’incaricava di ristabilire l’equilibrio una specie di giustizia, la quale risparmiava di preferenza ai poveri le sofferenze fisiche che s’abbattono implacabilmente sui ricchi, più deboli di costituzione e più consunti.

«Quale aberrazione mettere al mondo dei bambini!» pensava Des Esseintes. «E dire che i preti che fan voto di castità, hanno spinto l’incoerenza sino a canonizzare San Vincenzo di Paola perché manteneva in vita degli innocenti per serbarli a che? ad inutili patimenti.»

Grazie alle sue odiose cure, questo Santo aveva differito d’anni e d’anni la morte di esseri deficienti ed insensibili, affinché divenuti col tempo in grado di capire o, quantomeno, di soffrire, potessero rendersi conto di quello che li aspettava, attendere e temere quella morte di cui ignoravano testé anche il nome; alcuni magari invocarla, in odio a quella condanna ad esistere ch’egli infliggeva loro in virtù d’un codice teologico assurdo.

Morto lui, le sue idee avevano prevalso. Invece di lasciarli spegnersi in pace senza che se ne accorgessero, si raccoglievano bambini abbandonati, sebbene l’esistenza cui si destinavano diventasse ogni dì più arida e più dura.

Quasi già non bastasse, col pretesto del progresso e della libertà, la Società aveva trovato il modo di rendere anche più lamentevole la condizione dell’uomo, strappandolo alla famiglia, affagottandolo in una divisa grottesca, consegnandogli armi apposite, abbruttendolo in una schiavitù non da meno di quella da cui per pietà s’erano un tempo affrancati i negri; e tutto ciò, per metterlo in grado di assassinare il suo simile senza rischiare il patibolo, come per lo meno lo rischiano i comuni delinquenti che ammazzano sì, ma da soli, senza uniformi, e con armi più spicce e meno rumorose.

«Strana epoca» si diceva Des Esseintes «che, invocando il bene dell’umanità si scervella ad escogitare anestetici sempre più efficaci per sopprimere il dolore fisico ed intanto fa di tutto per accrescere quello morale!

Ah se un tempo c’è in cui si dovrebbe impedire, in nome della pietà di procreare inutilmente, quel tempo è ben questo!

Ma anche qui le leggi decretate dai Portalis e dagli Homais apparivano feroci e sconcertanti. La Giustizia trovava ben naturali le frodi adoperate nell’accoppiamento: nulla da ridire: precauzioni consentite; c’era coppia di coniugi, per quanto agiata, che non affidasse i nascituri all’acqua delle lavande? o che non usasse oggetti ed artifizi che si vendono liberamente e che a nessuno verrebbe in mente di riprovare?

Ma se viceversa quelle cautele o quei sotterfugi restavano inefficaci, se la frode falliva il suo scopo e per rimediare si ricorreva a mezzi più perentori, oh allora, apriti cielo! Non c’erano più prigioni bastevoli, case di pena, ergastoli per chiudervi gli individui che condannavano – in buona fede del resto – altri individui, i quali la sera stessa nel letto coniugale baravano del loro meglio per non mettere al mondo figli.

Non era dunque la frode, un crimine in sé; ma lo era il ripararvi.

Insomma la Società considerava un delitto sopprimere un essere dotato di vita; eppure, espellendo un feto, si distruggeva un animale meno formato, meno vitale e più deforme d’un cane o d’un gatto che impunemente ci possiamo permettere di sopprimere appena nasce.

«Conviene aggiungere» pensava Des Esseintes «che, per maggior giustizia, non è l’uomo inetto, per Solito, che s’affretta a scomparire, ma la donna, vittima di quella inettitudine, che espia il misfatto d’aver scampato dalla vita un innocente!»

Bisognava comunque che il mondo fosse pieno di pregiudizi per voler reprimere degli atti così naturali che è portato a praticare, guidato dal semplice istinto, l’uomo primitivo, il selvaggio della Polinesia.

Il domestico interruppe queste filantropiche riflessioni recando sur un piatto d’argento dorato la ghiottoneria di cui il suo padrone aveva manifestato il desiderio.

A quella vista Des Esseintes si sentì rovesciare le budella. Non ebbe più il coraggio di metter i denti in quel pane; lo stomaco lo rifiutava. Gli ripiombò addosso un senso di sfacelo atroce. Dovette alzarsi; ormai il sole arrivava anche lì, il caldo si faceva al tempo stesso più vivo e più peso.

«Butta codesta roba a quei ragazzi che si stanno accoppando là sulla strada. Auguro loro che i più deboli n’escano storpiati senza ottenerne una briciola; e per sovrammercato le tocchino di santa ragione dalla famiglia, rincasando con gli occhi pesti e i calzoni strappati. Servirà a dar loro un’idea della vita che li aspetta!» E, rientrato in casa, s’afflosciò come svenuto in una poltrona.

«Bisogna comunque che mi sforzi a buttar giù qualche cosa.» E s’azzardò ad inzuppare un biscotto in un annoso Constantia di J. P. Cloete; in cantina gliene restava qualche bottiglia.

Quel vino d’un color tunica di cipolla un tantino strinato, d’un sapore che stava tra quello del Malaga stagionato e del Porto, con in più una fragranza zuccherina tutta sua, e che lasciava in bocca un sentor d’uva d’una succolenza quintessenziata dalla forza del sole, l’aveva qualche volta ristorato, e spesso persino aveva infuso nuovo vigore allo stomaco affievolito dai forzati digiuni cui si sottometteva.

Ma il cordiale, di solito così fedele, stavolta si mostrò inefficace. Sperò allora che un emolliente mitigasse la pirosi che lo travagliava; e ricorse al Nalifka, un liquore russo, questo, contenuto in una bottiglia smerigliata d’oro spento: anche questo sciroppo untuoso, dal gusto di lampone, fallì il suo scopo.

Ahimé! il tempo era lontano che, ancora in buona salute, Des Esseintes in pieno solleone tornava a casa e lì, in una slitta, ingegnandosi di battere i denti: «Ah è un vento polare che tira! Si gela, qui, si gela!» riuscendo per poco a persuadersi che faceva freddo davvero.

Ahimé, da quando i suoi mali divenivano reali, questi rimedi non agivano più.

E non aveva neanche la risorsa di ricorrere al laudano; in luogo di calmarlo, questo calmante lo irritava al punto da togliergli il sonno.

In passato, aveva cercato di procurarsi delle visioni coll’oppio e con l’haschish ma era riuscito solo a procurarsi dei vomiti e dei violenti disturbi nervosi. Dovette smettere alla prima e, rinunziando a quei grossolani eccitanti, chiedere unicamente al cervello di portarlo lontano dalla vita, nel sogno.

«Che giornata!» si diceva ora, asciugandosi il collo che grondava come una spugna, sentendo andarsene in sudore il po’ di forza che gli restava.

Ancora un’inquietudine febbrile gli impediva di rimanere dov’era; di nuovo lo spingeva ad errare di stanza in stanza, a sedersi ora qui ora là, in cerca d’una posizione in cui trovar tregua.

Non potendone più finì per abbandonarsi sullo scrittoio; aggomitato ad esso, senza pensare a quello che faceva, tolse in mano un astrolabio posato, a mo’ di fermacarte, sur un cumulo di libri e di note.

Quell’astrolabio di rame inciso e dorato, di fabbricazione tedesca, e che datava dal Seicento, l’aveva acquistato a Parigi da un antiquario.

Usciva quel giorno da una visita al Museo di Cluny, dove s’era a lungo incantato in contemplazione d’un bellissimo astrolabio in avorio scolpito d’una foggia cabalistica che lo aveva estasiato.

Il fermacarte diede l’aire a tutto uno sciame di ricordi. Prendendo le mosse da quel gioiello d’arte, il pensiero da Fontenay lo portò a Parigi nel negozio d’anticaglie; e di lì, a ritroso lo condusse al Museo delle Terme e gli rimise sott’occhio l’astrolabio d’avorio, sostituendolo a quello di rame che i suoi occhi guardavano senza più vederlo.

Poi uscì dal Museo e andò a zonzo per la capitale; vagò per via Du Sommerard, pel grande passeggio alberato di Saint Michel; si ingolfò per le vie che corrono in quei paraggi e sostò davanti a locali che l’avevano tante volte colpito pel loro aspetto insolito e per la loro frequenza.

Iniziatosi da un astrolabio, il viaggio finiva nei caffeucci del Quartier Latino.

Quanti ce n’erano di quei locali in via Monsieur le Prince, nel tratto di via Vaugirard che raggiunge l’Odéon! A volte si susseguivano così fitti da ricordare i vecchi riddeck di via Canale d’Aringhe a Anversa, affacciando uno di seguito all’altro sul marciapiede i loro ingressi pressoché uguali.

Attraverso porte semiaperte e finestre male oscurate da vetri di colore o da tendine, Des Esseintes ricordava d’aver intravvisto donne che s’aggiravano pel locale tirandosi dietro i piedi e avanzando il collo al modo delle oche; altre, buttate su panche, lucidavano coi gomiti il marmo dei tavoli o ruminavano canticchiando, con le tempie tra i pugni; altre ancora si dondolavano in piedi davanti a specchi passando le punte delle dita sulle chiome finte uscite allora dalle mani del parrucchiere; altre infine cavavano da borsette che non chiudevano più gran numero di monete d’argento e di spiccioli che allineavano con cura in tanti mucchietti.

Avevano per la maggior parte lineamenti grossolani, la voce rauca, il petto cascante, occhi bistrati; e tutte, simili ad automi ricaricati a tempo, lanciavano con identiche intonazioni gli stessi inviti, emettevano con lo stesso sorriso le stesse frasi balorde, le stesse riflessioni insulse.

Ora, abbracciando col ricordo in una volta tutte quelle vie e quei caffeucci, di idea in idea Des Esseintes veniva ad una conclusione.

Quei locali rispondevano allo stato d’animo di una intera generazione; dal loro prosperare c’era da trarre la sintesi dell’epoca.

I sintomi da cui egli moveva per arrivare alla diagnosi erano certi e manifesti: le case di tolleranza si andavano diradando e, ad ognuna che si chiudeva, uno di quei caffè s’inaugurava.

Un simile decrescere della prostituzione legale a vantaggio di quella clandestina non poteva che aver radice nelle inverosimili illusioni che l’uomo si fa quando si tratta di rapporti sessuali. Per quanto mostruoso potesse apparire il fatto, quel tipo di locali esaudiva un ideale.

Sebbene le inclinazioni utilitarie ereditate dai giovani e nei loro animi precocemente sviluppate dalle cattive maniere e dalla costante brutalità usata nei collegi, avessero reso la gioventù del tempo singolarmente maleducata e l’avessero cresciuta paurosamente positiva e tetragona agli entusiasmi, essa non aveva meno per questo conservato in fondo al cuore un vecchio fiore azzurro, una dura a morire aspirazione verso un amore vago e passato di moda.

Oggigiorno, quando il sangue le ribolliva, quella gioventù non sapeva risolversi ad entrare, consumare pagare ed uscire; sarebbe stato ai suoi occhi fare come il cane che senza preamboli copre la cagna. Inoltre la vanità scappava inappagata dalla casa di tolleranza, dove non c’era stato né simulacro di resistenza né parvenza di vittoria, né speranza di preferenza, e neppure generosità da parte della mercantessa che commisurava le sue carezze allo scotto.

Invece la corte fatta alla ragazza di birreria, risparmiava tutte le suscettibilità dell’amore, tutte le delicatezze del sentimento. Quella ragazza, si poteva disputarsela; e coloro cui accordava – a caro prezzo – un abboccamento si figuravano in buona fede d’averla portata via ad un rivale, si credevano l’oggetto d’una distinzione che andasse a loro onore, d’un favore raro.

Eppure quel l’arrendevolezza era altrettanto stupida, altrettanto interessata, bassa e scevra di desiderio di quella che pregiudicava la casa di tolleranza. L’una ragazza come l’altra beveva senza sete, rideva senza convinzione, andava matta per le carezze d’un cialtrone, s’accapigliava e s’insultava senza motivo con le sue pari.

E, malgrado tutto questo, in tanti anni la gioventù parigina non s’era ancora accorta che le cameriere di caffè erano per risorse fisiche, per abilità professionale, per modo d’abbigliarsi di gran lunga inferiori alle donne irregimentate nei serragli di lusso.

«Dio mio» si diceva Des Esseintes «come sono scimuniti questi giovani che sfarfallano intorno alle birrerie! A parte le ridicole illusioni che si fanno, arrivano sino a scordare il pericolo che si nasconde in quelle esche sospette e da strapazzo; a non mettere in conto il danaro buttato in tante bibite il cui numero è fissato in precedenza dalle padrone; del tempo perso ad aspettare una consegna differita per accrescerne il prezzo, delle proroghe chieste per provocare e rendere più redditizio il gioco delle mance!»

Quel sentimentalismo imbecille che s’accompagnava ad una feroce praticità, era il segno distintivo del secolo; quegli stessi individui che, per guadagnare dieci soldi, avrebbero strappato un occhio al prossimo, perdevano ogni lucidità, ogni fiuto quando si trattava di quelle losche chellerine che li bersagliavano senza pietà e li ricattavano senza respiro.

Si mandavano avanti industrie; famiglie si lesinavano tra loro il necessario col pretesto del commercio, per lasciarsi poi portar via il danaro dai figli, che se lo facevano alla lor volta scroccare da quelle donne, spogliate in ultimo dagli amanti del cuore. Per tutta Parigi, da un capo all’altro della città, era una catena ininterrotta di truffe, una serie di furti organizzati a danno del vicino; e tutto questo perché, invece di accontentare la gente subito, si sapeva farla pazientare ed attendere.

In fondo, il nocciolo della saggezza umana consisteva nel tirare in lungo le cose; nel dir di no, per dire alla fine di sì; perché gli uomini non si sanno maneggiare veramente che tenendoli a bada con frottole.

«Ah potessi fare lo stesso anch’io con lo stomaco!» sospirò Des Esseintes, preso da un crampo che, di dov’era col pensiero, lo riconduceva bruscamente a Fontenay.

XIV

Tirò innanzi alla men peggio alcuni giorni, riuscendo con ripieghi ad ingannare la diffidenza dello stomaco.

Ma un mattino ributtato dall’odor di grasso e di sangue che le salse non arrivavano più a mascherare, si chiese con spavento se, aggravandosi, la debolezza non finirebbe per costringerlo a letto.

Allora gli sovvenne – il ricordo lo illuminò di speranza – d’un amico che in cattive condizioni di salute, aveva potuto, grazie ad un sostentatore, conservare il po’ di forza che gli restava, scongiurando l’anemia ed arrestando il deperimento.

Spedì in tutta fretta il domestico a Parigi alla ricerca del prezioso apparecchio.

Era una pentola di stagno. Sulla scorta dell’istruzione che lo accompagnava, insegnò lui stesso alla donna il modo di servirsene: si trattava di tagliare in pezzettini dell’arrosto di manzo sanguinante, di metterlo tal quale, senza aggiunta d’acqua, con porro e carota, nella marmitta; di avvitarne indi il coperchio e di lasciar cuocere a bagnomaria. In capo a quattr’ore, la carne – o meglio i filamenti che ne restavano – si strizzava, ottenendo una cucchiaiata di sugo denso, salato. A berlo, sentivi scendere in gola, accarezzarla, un tepore vellutato.

Quel cibo quintessenziato arrestava i crampi e le nausee dello stomaco e lo persuadeva persino ad accettare qualche cucchiaio di minestra.

L’effetto fu che la nevrosi ebbe un arresto. «È sempre tanto di guadagnato» si disse Des Esseintes. «Chi sa che il caldo non scemi, che questo atroce sole che mi spossa non si mitighi e ch’io arrivi così, senza troppe scosse, alle prime nebbie e ai primi freddi.»

In quello stato di torpore, nel tedio in cui lo sprofondava la forzata inattività, divenne una spina al cuore la biblioteca che ancora non aveva finito di ordinare.

Siccome non si moveva dalla poltrona, tutto il tempo aveva sott’occhio quei libri. Ve n’erano che stavano nella scansia di sghimbescio, che crollavano uno sull’altro, che si puntellavano a vicenda, altri abbattuti addirittura; disordine che lo urtò, tanto più che contrastava col perfetto allinearsi delle opere religiose, schierate di costa, come per una rivista, lunghesso le pareti.

Tentò di rimediare; ma in capo a dieci minuti era inondato di sudore. Quel lavoro lo spossava. Affranto, andò a sdraiarsi su un divano e sonò.

Il vecchio servo si mise in vece sua all’opera: gli recava uno a uno i volumi e via via li ricollocava al posto che il padrone gli indicava.

Quel lavoro non richiese molto tempo; erano infatti ben poche le opere contemporanee di carattere profano che la biblioteca di Des Esseintes accoglieva.

E si capisce: come una lastra di metallo a forza di passare e ripassare nel laminatoio, si riduce di spessore sino a non esser più che una foglia, ben poco della produzione contemporanea aveva resistito al vaglio delle ripetute letture; ed a queste opere sole, le meglio temprate, le pochissime ancora in grado di affrontare una nuova prova, s’era ridotta la biblioteca di Des Esseintes.

Con un gusto così esigente, di necessità il piacere del leggere s’era rarefatto: rarefazione che ancora una volta poneva in evidenza l’irrimediabile conflitto esistente tra le idee d’un lettore cosiffatto ed il sentire del secolo in cui il caso l’aveva fatto nascere.

Ormai era giunto a tale che un libro il quale appagasse la sua intima aspettativa, disperava di scoprirlo; ma, quel che è peggio, sentiva la sua ammirazione scemare per quegli stessi libri che indubbiamente avevano concorso ad affinargli a tal punto il gusto, a renderlo così sospettoso ed incontentabile.

Eppure, nella valutazione dell’arte, il criterio da cui partiva era semplice. Per lui non esistevano scuole; solo il temperamento dello scrittore contava; qualunque fosse il soggetto che affrontava, solo il modo con cui lo trattava aveva importanza.

Senonché un criterio di stima così evidentemente giusto da esser degno di La Palisse, diventava pressoché inapplicabile per il semplice motivo che, per quanto desideri di liberarsi da preconcetti, per quanto aspiri ad essere imparziale, ognuno va di preferenza alle opere che rispondono più intimamente al suo temperamento e finisce per disprezzare tutte le altre.

Questo lavoro di selezione era avvenuto in lui lentamente.

Egli aveva non è molto adorato il grande Balzac; ma via via che il suo equilibrio fisico s’era andato dissestando, che i nervi avevano preso il sopravvento, i suoi gusti s’erano modificati, ad altri era andata la sua ammirazione. Presto anzi – e pur rendendosi conto di quanto fosse ingiusto verso il prodigioso autore della Comédie humaine – aveva finito per non aprirne più i libri; e l’innegabile arte che in essi riconosceva non faceva che irritarlo.

Altre aspirazioni gli fermentavano dentro, in certo modo indefinibili. Interrogandosi a fondo, tuttavia, capiva che per attrarlo, un’opera doveva anzitutto rivestire quel carattere di stravaganza che Edgar Poe considerava indispensabile. Ma su questa strada egli s’avventurava volontieri più in là e esigeva arditezze e bizantismi nei concetti, complicazioni decadenti nella lingua; auspicava una imprecisione sconcertante, che lasciasse la possibilità alla sua mente di sfumarla dell’altro o di precisarne i contorni, a piacer suo, a seconda dello stato d’animo del momento.

L’opera d’arte la voleva, insomma, non solo per quello che essa è in sé e per sé, ma anche per quello che di nostro permette le prestiamo. Grazie all’opera d’arte, quasi da essa assistito, quasi da essa portato, voleva assurgere ad una sfera dove gli fosse dato provare una commozione inattesa della quale, per quanto cercate, gli restassero oscure le cause.

Insomma, dacché aveva lasciato Parigi, si allontanava ogni giorno più dalla realtà e specialmente dagli uomini del suo tempo, per i quali nutriva una sempre crescente avversione; avversione che aveva di necessità influito sui suoi gusti letterari ed artistici e che gli faceva storcere risolutamente gli occhi dai quadri e dai libri che rispecchiavano unicamente aspetti di vita contemporanea.

Cosicché, perduta la possibilità d’ammirare indifferentemente il bello dovunque si trova, qualunque sia la forma che veste, preferiva di Flaubert, la Tentazione di Sant’Antonio all’Educazione sentimentale; di Goncourt, la Faustin a Germinie Lacerteux; di Zola, il Fallo dell’Abate Mouret allo Scannatoio.

Questo punto di vista lo riteneva legittimo; se anche meno immediate, queste opere pure così vive, così umane, lo ammettevano nella più gelosa intimità dell’autore, gli davan modo di penetrarne l’anima a fondo; in esse quei maestri scoprivano con maggiore abbandono le aspirazioni più segrete dell’esser loro; innalzando anche lui in più spirabil aere, fuori dell’esistenza triviale di cui era stanco. Non solo: grazie a quelle opere egli entrava in comunione di idee con gli scrittori che le avevano concepite: perfetta comunione, perché quando le avevano concepite, si trovavano in uno stato d’animo analogo al suo.

Infatti, quando il tempo in cui l’uomo di talento si trova forzato a vivere è stupido e piatto, l’artista, anche a propria insaputa, è assillato dalla nostalgia di un altro secolo. Non potendo che raramente e per poco accordarsi con l’ambiente in cui cresce, esaurito che abbia il godimento che può dargli lo studio di quell’ambiente, l’osservazione e l’analisi esercitate su chi lo subisce – piacere che bastava a distrarlo -; sente sorgere in sé e sbocciare una confusa brama di emigrare: aspirazione che studio e riflessione portano poi a chiarirsi. Istinti, sensazioni, tendenze ataviche si risvegliano, si precisano, s’impongono, divengono imperiosa esigenza. S’affacciano in lui reminiscenze di cose e persone estranee alla sua personale esperienza; finché l’ora scocca che a forza egli evade dal reclusorio del suo tempo per aggirarsi in piena libertà in un altro tempo, che crede per un’estrema illusione a sé più consono.

C’è così chi torna ad età defunte, a civiltà scomparse, a secoli perenti; chi si avventa nei mondi della fantasia e del sogno, vivendo con più o meno intensità il miraggio d’un tempo a venire; d’un tempo che rispecchia, senza ch’egli lo sappia, per influenze ataviche, l’immagine di epoche trascorse.

In Flaubert si trattava d’imponenti e vasti affreschi, dove dalla smagliante cornice d’una sfarzosa barbarie si staccavano soavi creature frementi di vita, enigmatiche e altere; donne che a una compiuta bellezza accoppiano un’anima tormentata, nel cui segreto Des Esseintes ravvisava una paurosa inettitudine a vivere, folli aspirazioni scaturite dalla desolante consapevolezza che già esse avevano della mediocrità delle gioie che potevano aspettarsi dalla vita.

La genialità del grande artista sbocciava in pieno nelle incomparabili pagine della Tentazione di S. Antonio e di Salambò dove, dimentico della nostra meschina esistenza, egli evocava gli splendori asiatici del passato, gli amori di quegli antichi, i loro mistici scoramenti, le follie che suggeriva l’ozio, gli atti di ferocia cui li spingeva il pesante tedio che nasce, prima ancora che se ne veda il fondo, dall’opulenza e dal fanatismo.

In De Goncourt, era la nostalgia del secolo precedente, un viaggio a ritroso alla ricerca delle eleganze d’una società per sempre perduta. La grandiosa cornice d’un mare che flagella i moli, di deserti che si perdono a vista d’occhio sotto torridi cieli, mancava alla sua opera nostalgica; ad essa bastava, presso un parco aristocratico, il salottino che intiepidisse l’effluvio voluttuoso di una donna dal sorriso stanco, dall’espressione perversa, dallo sguardo irrasegnato e pensoso.

L’anima dei suoi personaggi non era più quella che Flaubert prestava ai propri: un’anima nauseata in anticipo dalla spietata certezza che nessuna felicità nuova è possibile; quella dei suoi, era un’anima disillusa, dopo averne fatto la prova, di tutti gli inutili sforzi tentati per creare legami spirituali inediti, per non rassegnarsi al piacere che, da che mondo è mondo va a finire nella sazietà, più o meno ingegnosamente procacciata, dell’accoppiamento.

Sebbene vivesse in mezzo a noi ed appartenesse in tutto e per tutto al tempo nostro, la Faustin era, per influssi atavici, una creatura del settecento; di quel secolo aveva il piccante nell’anima, la stanchezza cerebrale, la spossata sensualità.

Questo, di Edmond De Goncourt, era uno dei libri che Des Esseintes amava di più; e in verità, di inviti al sogno – che è ciò ch’egli alla lettura chiedeva – quest’opera traboccava; sotto ogni riga stampata, un’altra traspariva visibile solo all’anima; suggerita da un aggettivo che apriva spiragli a fughe appassionate; da una reticenza che lasciava intravvedere abissi che nessun linguaggio può colmare.

Poi, non era più la lingua di Flaubert, quella lingua d’una inimitabile magnificenza; sì, uno stile avvertito e morbido, nervoso e scaltrito, preciso nel rendere lo stimolo impercettibile che determina la sensazione; uno stile che sapeva rendere con esattezza e grazia insieme le complicate sfumature di un’epoca già di per sé singolarmente complessa. Era il verbo, insomma, indispensabile alle civiltà decrepite che, per esprimere i loro bisogni, esigono, qualunque sia l’età in cui fioriscono, delle eccezioni, delle movenze sintattiche nuove, la fusione di nuovi modi di dire e di nuovi vocaboli.

A Roma, sul morire, il paganesimo aveva modificato la prosodia, trasformato la lingua con Ausonio, con Claudiano, con Rutilio, il cui stile attento e scrupoloso, avvincente e sonante, dove soprattutto descrive riflessi, ombre, mezze tinte, presentava un’analogia, che non poteva non sorprendere, con lo stile dei De Goncourt.

A Parigi s’era per tal modo verificato un fenomeno unico nella storia delle letterature. L’agonizzante società del settecento, che aveva visto i suoi gusti e il suo pensiero interpretati da pittori, scultori, musici, architetti, non aveva saputo esprimere dal suo seno un autentico scrittore che fermasse nelle lettere le sue grazie moribonde, che consegnasse alla parola scritta l’essenza delle sue gioie febbrili, così duramente espiate, era occorso aspettare la comparsa di De Goncourt – di quest’uomo dal temperamento fatto di ricordi, di rimpianti acuiti ancora dal doloroso spettacolo della miseria spirituale e delle basse aspirazioni dei suoi contemporanei – perché, non solo in volumi di storia, ma anche in un’opera nostalgica come la Faustin, potesse resuscitare l’anima stessa di quell’epoca, incarnare la sua isterica sensibilità in quella attrice, così tormentata da strizzarsi il cuore e da martoriarsi il cervello per assaporare i dolorosi revulsivi dell’amore sino allo spossamento e sino all’arte.

Di tutt’altro genere era la scontentezza di Zola. Nessuna velleità in lui di emigrare verso modi di vita scomparsi, mondi perduti nella notte dei tempi. Tutto preso dallo spettacolo della vita e delle sue esuberanze, innamorato dell’uomo moralmente sano, cui scorre nelle vene un sangue impetuoso, il suo temperamento solido e possente lo distraeva tanto dalle grazie artefatte e dalle imbellettate clorosi del settecento che dalla solennità ieratica, dalla ferocia brutale e dai sogni effeminati e ambigui dei vecchio Oriente.

La volta che anche lui era stato aggredito dalla nostalgia, dal bisogno – che fa tutt’uno insomma con la poesia – di fuggire lontano da quel mondo che stava studiando: quel giorno egli s’era rifugiato in una campagna idealizzata, dove in pieno sole le linfe ribollono; aveva fantasticato d’una terra che spasima nell’amplesso d’un cielo in amore; di polline che cade in pioggia su organi di fiori anelanti d’essere fecondati. Aveva messo capo ad un colossale panteismo: con l’Eden dove pone ad abitare il suo Adamo e la sua Eva, aveva, forse senza saperlo, creato un prodigioso poema indù; un poema che in uno stile prodigo di smaltati colori, d’uno spicco da pittura indiana, celebra l’apoteosi della carne, la materia animata, vivente, nell’atto che rivela alla creatura umana, con la sua frenesia generatrice, il frutto proibito dell’amore, le sue soffocazioni, le sue naturali positure, le sue carezze istintive.

Nella letteratura francese, moderna e profana, questi tre erano, con Baudelaire, i maestri che avevano influito di più sulla mentalità di Des Esseintes, che avevano meglio contribuito a formarla. Senonché, a forza di rileggerseli, di pascersi delle loro opere, aveva finito per conoscerle da cima a fondo a memoria; ed aveva dovuto, per non togliersi di trarne altro nutrimento, sforzarsi di scordarle, lasciarle per un certo tempo dormire negli scaffali.

Cosicché adesso che il domestico gliene recava, egli le apriva appena; e si limitava ad indicargli dove doveva collocarle, avendo cura che venissero a trovarsi tutti insieme, a lor agio e nell’ordine dovuto.

Un nuovo apporto di volumi lo imbarazzò di più.

Erano libri pei quali s’era preso d’interesse poco a poco; libri, che grazie appunto ai loro difetti, lo riposavano della perfezione dei primi. Pure in questi, così sottilmente li aveva letti, pure nel grigiore di quelle pagine, Des Esseintes era giunto a scoprire, inattese, delle frasi che, pel contrasto con la sordità del resto, l’avevano fatto trasalire come a una scossa elettrica.

Anche l’imperfezione gli piaceva, purché non fosse parassitaria né servile. E qualche cosa di vero c’era probabilmente nella sua teoria: che lo scrittore meno dotato della decadenza, lo scrittore imperfetto ma ancora personale, distilla un balsamo più mordente, più acre, più suggestivo dell’artista veramente grande, veramente perfetto che gli è contemporaneo.

A suo credere, era nei confusi abbozzi di siffatti scrittori che si coglievano gli spasimi più acuti della sensibilità, i capricci più morbosi della psicologia, i pervertimenti più azzardati della lingua incaricata di confinare, di sequestrare in libri di scarto le più estrose effervescenze delle sensazioni e delle idee.

Fra questi scrittori era Paul Verlaine, il quale, molto tempo prima, aveva esordito con un volume di versi: i Poèmes Saturniens: un libretto tenue tenue, dove accanto ad imitazioni di Leconte de Lisle, incontravi esercitazioni di retorica romantica; ma dove pure in taluni componimenti come nel sonetto Rêve familier, s’annunciava un’autentica personalità poetica.

Nell’incertezza di quei primi abbozzi, Des Esseintes ravvisava un talento già profondamente imbevuto di Baudelaire, la cui influenza s’era in seguito meglio precisata, senza tuttavia che il viatico concessogli dall’impeccabile maestro fosse evidente.

I libri dello stesso ch’erano seguiti, la Bonne Chanson, le Fêtes Galantes, Romances sans paroles, infine il suo ultimo volume Sagesse racchiudevano poemi dove l’originalità dello scrittore si affermava, staccandolo nettamente dalla folla dei colleghi.

Avvalendosi come rima di forme che il verbo assume nella sua flessione, talvolta persino di lunghi avverbi, traboccanti da un monosillabo come dall’orlo d’una pietra una pesante massa d’acqua, il suo verso, spezzato da inverosimili cesure, diventava spesso singolarmente astruso per l’audacia delle elissi e per strane scorrettezze non prive tuttavia di grazia.

Signore come nessuno della metrica, aveva cercato di ringiovanire le forme poetiche a schema fisso, capovolgendo il sonetto, che con lui prendeva l’aspetto di quei pesci giapponesi di terracotta policroma che posano sullo zoccolo con le branchie in basso; oppure corrompendolo, con l’accoppiare fra loro solo rime mascoline, per le quali pareva avere un debole. Così aveva inaugurato uno schema bizzarro, del quale si valeva spesso: tre versi, dove quello di mezzo non rimava; ed una terzina monorima, seguìta da un verso solitario che, a mo’ di ritornello, faceva eco a sé stesso, come negli streets: «Dansons la Gigue»; sino a servirsi di ritmi il cui timbro quasi sordo, non era ripigliato che in strofe lontane e vi moriva come un suono che si spegne di campana.

Ma la sua originalità risiedeva principalmente in questo: nell’aver saputo rendere vaghe e squisite confidenze, scambiate sottovoce nel crepuscolo. Lui solo era riuscito a suggerire certe conturbanti intimità dell’anima, pensieri men che sussurrati, confessioni così a fior di labbro ed interrotte che l’orecchio di chi le percepisce resta esitante, mentre nell’anima gli si diffonde un languore avvivato dal mistero di quel soffio, più che udito, indovinato.

L’inconfondibilità dell’accento di Verlaine era tutta in questi versi – adorabili – delle Fêtes Galantes:

Le soir tombait, un soir équivoque d’automne.

Les belles se pendant rêveuses à nos bras

Dirent alors des mots si specieux tout bas,

Que notre âme depuis ce temps tremble et s’étonne.

Non era più l’orizzonte che si godeva, sconfinato, dagli indimenticabili balconi spalancati da Baudelaire in un chiar di luna; era uno spiraglio dischiuso su un panorama più angusto e più intimo, di privata proprietà dell’autore, insomma; il quale aveva del resto fissato la sua poetica nei versi che Des Esseintes si ridiceva spesso:

Car nous voulons la nuance encore,

pas la couleur, rien que le nuance

Et tout le reste est littérature.

Con godimento Des Esseintes l’aveva seguito nella sua opera ch’era delle più varie. Dopo le Romances sans paroles – che avevan visto la luce nella stamperia d’un giornale di Sens – Verlaine s’era per molto tempo taciuto; per poi uscire a cantare, in deliziosi versi nei quali passava l’accento dolce e smarrito di Villon, la Vergine loin de nos jours d’esprit charnel et de chair triste.

Des Esseintes si rileggeva spesso Sagesse e quella poesia gli suggeriva segrete fantasticherie: si fingeva un taciuto amore per una Madonna bizantina; che, ecco, si mutava in una Cidalisa sperduta nel nostro secolo, così misteriosa e conturbante ch’era impossibile dire se agognava a depravazioni talmente mostruose da diventare, appena consumate, irresistibili; o se si lanciava anch’essa nel sogno, in un sogno immacolato, dove, senza mai confessarselo, perennemente pura, l’anima le aleggerebbe intorno, adorando.

In altri poeti trovava ancora accoglienza: in Tristan Corbière che, nel 1783, tra l’indifferenza generale, aveva lanciato Les Amours jaunes, un libro dei più insoliti.

Des Esseintes che, in odio a tutto ciò che è banale e comune avrebbe accettato le intemperanze più spinte, le stravaganze più barocche, passava ore di beatitudine in compagnia di questo libro, dove la stramberia si sposava a una tumultuosa forza; dove versi sconcertanti lampeggiavano in mezzo a poesie oscurissime, come le litanie del «Sonno» che il poeta ad un certo punto chiamava:

«Obscène confesseur des dévotes mort-nées

La lingua che adoperava era a stento francese. L’autore parlava il gergo dei negri; si valeva di uno stile da telegramma, sopprimeva oltre ogni discrezione i verbi; sfoggiava un’ostentata buffoneria, s’abbandonava a barzellette da commesso viaggiatore, intollerabili; poi ecco, in quel guazzabuglio, improvvisamente, tra contorcimenti di concettuzzi ridicoli ed equivoche smancerie, esplodeva di punto in bianco uno straziante grido di dolore, come corda di violoncello che si spezza.

Eppure in quello stile duro e diseguale, arido, scarnito all’osso, irto di termini desueti, di neologismi inaspettati, sfolgoravano a tratti espressioni geniali, solitari versi monchi della rima, magnifici; infine – a parte la profonda definizione della donna che Des Esseintes coglieva nei «Poèmes Parisiens»:

Eternel féminin de l’eternel jocrisse

Tristan Corbière aveva, in uno stile d’una concisione che si poteva dire potente, celebrato il mar di Bretagna, i postriboli per marinai, il pellegrinaggio di Sant’Anna d’Auray; ed aveva attinto l’eloquenza dell’odio nell’invettiva che gettava in faccia, a proposito del campo di Conlie, a coloro che chiamava «forains du Quatre Septembre».

Il cibo frollo che appetiva e che trovava in questo poeta dagli epiteti pregnanti, dalle veneri sempre un po’ sospette, Des Esseintes lo trovava eziandio in un altro poeta, Théodore Hannon, allievo di Baudelaire e di Gautier: squisitamente sensibile alle affettate eleganze e alle gioie artificiali. Ma, mentre Verlaine derivava direttamente da Baudelaire, soprattutto dal punto di vista psicologico, pel capzioso modo in cui atteggiava il pensiero, per la distillata quintessenza del sentimento, Théodore Hannon si riattaccava al maestro soprattutto pel modo di vedere esseri e cose e di ritrarli plasticamente.

Destino voleva che la sua seducente depravazione si accordasse con le tendenze di Des Esseintes; il quale nei giorni grigi e piovosi si rifugiava nel ritiro creato dalla fantasia di questo poeta e si ubbriacava gli occhi dei cangianti riflessi delle stoffe di cui l’aveva addobbato, dei fuochi di quelle pietre, di tutta quella sontuosità puramente materiale che scaldava l’immaginazione; e che, come un pizzico di cantaride in una tepida nuvola d’incenso, vaporava verso un Idolo Brussellese dal viso truccato, dal ventre conciato di profumi.

Tolti questi poeti – e Stephane Mallarmé che al domestico ordinò di metter da parte per assegnargli un posto a sé – gli altri esercitavano su Des Esseintes ben scarsa attrattiva.

Nonostante la magnificenza della forma, il maestoso incedere del verso, d’uno spicco che gli stessi esametri d’Hugo apparivano al confronto grigi e sordi, Leconte de Lisle non poteva ormai appagarlo. Quell’antichità che Flaubert aveva così splendidamente resuscitato, restava nelle sue mani inerte e fredda. Nulla palpitava in quei versi tutta facciata che così di rado esprimevano un pensiero; nulla viveva in quei vacui poemi, la cui impassibile mitologia finiva per gelarlo.

Così, dopo averlo a lungo prediletto, anche di Gautier Des Esseintes era giunto a disinteressarsi; la sua ammirazione per questo incomparabile pittore era andata di giorno in giorno scemando; ed oggi egli restava più sbalordito che incantato delle sue descrizioni che lo lasciavano pressoché indifferente. Quella retina così sensibile coglieva con nettezza gli oggetti; ma lì la loro immagine si fermava, non andava oltre, non interessava il cervello, l’uomo. Come uno specchio prodigioso Gautier non aveva mai fatto altro che riflettere con impersonale nettezza delle parvenze.

Certo Des Esseintes amava ancora l’opera di questi poeti, come amava le gemme rare, la materia preziosa e morta; ma non un verso di quei perfetti artefici poteva più rapirlo, perché nessuno dava ali al sogno, nessuno offriva occasione, per lui almeno, ad una di quelle inebrianti fughe nel sogno che affrettano il lento passar delle ore.

Se dalla loro lettura usciva affamato come prima, non diversamente accadeva con Hugo. In questi, quei ch’era Oriente e patriarca lo sentiva troppo vuoto e di maniera per soffermarvisi; la parte dell’opera poi dove il poeta diventava al tempo stesso nonno e bambinaia, lo metteva fuori dei gangheri.

Doveva giungere sino alle Chansons des rues et des bois per trovar di che esclamare; qui, sì, prorompeva in gridi a vedergli trattar la metrica come un infallibile prestigiatore; ma con che piacere, tirate le somme, tutti quei miracoli di abilità li avrebbe dati in cambio d’un’opera che non deludesse le aspettative, di Baudelaire, il solo, o poco meno, nei cui versi si trovasse sotto la smagliante forma il balsamo d’un vitale nutrimento!

Ma se dalla forma priva di idee passava d’un salto alle idee prive di forma, Des Esseintes non si trovava meno freddo e meno circospetto.

I laberinti psicologici di Stendhal, le penetranti analisi di Duranty lo attraevano; ma il linguaggio commerciale, arido, incolore che adoperavano, quella prosa presa a nolo, buona a dir molto per l’ignobile industria del teatro, lo ributtava.

Senza dire che tutto quell’ingegnoso e interessante lavoro d’introspezione si esercitava su personaggi in preda a passioni che non lo toccavano più. Poco gli caleva dei patemi d’animo, delle associazioni di idee della grande maggioranza degli uomini, ora che il suo appartarsi toccava l’esagerazione e ch’egli più non ammetteva che sensazioni ultrasquisite, che crisi cattoliche e sensuali.

Per trovare un’opera che unisse, com’era nei suoi voti, ad uno stile incisivo un’analisi penetrante e scaltrita, gli era giocoforza arrivare al maestro dell’Induzione; a quel profondo e inquietante Edgar Poe che nessuna rilettura era ancora riuscita a far scadere nella sua ammirazione. Nessuno forse quanto Poe rispondeva per intima affinità alle esigenze spirituali di Des Esseintes.

Se nei geroglifici dell’anima Baudelaire aveva decifrato la menopausa dei sentimenti e delle idee, lui aveva, nella psicologia morbosa, scrutato più particolarmente il dominio della volontà.

Nella letteratura egli aveva per primo, sotto il titolo emblematico: «Il démone della perversità» scrutato quegli impulsi irresistibili che la volontà subisce senza conoscerli e che oggi la patologia del cervello spiega in modo pressoché irrefutabile. Per primo pure, aveva, se non scoperto, almeno divulgato l’influsso della paura che agisce come deprimente sulla volontà; e così gli anestetici che paralizzano la sensibilità ed il curaro che distrugge i centri nervosi che presiedono al movimento.

Era qui, su questa caduta in letargo della volontà, che egli aveva fatto convergere i suoi studi, analizzando gli effetti di quel veleno morale, indicando i sintomi del suo progresso, i dissesti che produce a cominciare dallo stato ansioso, per passare all’angoscia, esplodere infine nel terrore che istupidisce la volizione, senza che l’intelligenza, per quanto scossa, s’arrenda.

La morte, di cui tutti i drammaturghi han tanto abusato, l’aveva in certo modo resa più raccapricciante, trasformata in qualcosa d’altro, con introdurre in essa un elemento algebrico e sovrumano. Ma più che l’agonia in sé, egli veramente descriveva l’agonia morale di chi al moribondo sopravvive, del superstite, ossessionato, davanti al lamentevole letto, da paurose allucinazioni, partorite dal dolore e dalla stanchezza.

Con un’arte fascinatrice implacabile, calcava sulle manifestazioni dello spavento, sul cedimenti della volontà; vi ragionava su con freddezza, prendendo poco a poco alla gola il lettore, strozzato, ansante – davanti a quegli incubi, colto automaticamente da terzana.

Squassate da nevrosi ereditarie, in preda a coree morali, le sue creature vivevano a spese dei nervi. Le sue figure femminili, le Morelle, le Ligeia, possedevano una immensa erudizione, erano imbevute delle nebbie della filosofia tedesca, al corrente dei misteri cabalistici dell’antico Oriente, e tutte avevano petti lisci ed inerti d’angeli; tutte erano, per così dire, asessuali.

Baudelaire e Poe, questi due spiriti tante volte accoppiati a motivo della poetica che hanno in comune, dell’inclinazione che condividono per l’indagine delle affezioni mentali, differivano radicalmente per le concezioni affettive che avevano nella loro opera tanto posto: Baudelaire col suo amore depravato ed anormale, che gli dava una nausea così atroce da far pensare s’accanisse su di lui una specie d’Inquisizione; Poe, coi suoi amori bianchi, aerei, in cui il senso non entrava, dove solo il cervello erigeva, senza interessare organi che, se esistevano, restavano costantemente frigidi e vergini.

Questa sala operatoria del cervello dove, procedendo alle sue vivisezioni, in una atmosfera soffocante, questo chirurgo dell’anima, diventava, appena la sua attenzione si allentava, preda della propria immaginazione che faceva balenare, come deliziosi miasmi, apparizioni sonnambulesche ed angeliche, – era per Des Esseintes una inesauribile sorgente di congetture; ma adesso che la sua nevrosi si aggravava, venivano giorni in cui, con un tremito nelle mani, restava con l’orecchio all’erta, sentendosi invadere, come il desolante Usher, da un’ansia irragionevole, da un terror sordo.

Dimodoché doveva imporsi una regola, assaggiare appena di quei filtri pericolosi; allo stesso modo che non poteva più trattenersi impunemente nel vestibolo rosso e inebriarsi la vista delle tenebre di Odilon Redon e dei supplizi di Jean Luyken.

Eppure quando si trovava in questo stato d’animo ogni letteratura gli sembrava sciapa, paragonata a quei tremendi beveraggi importati dall’America. Allora si rivolgeva a Villiers de Lisle-Adam. Nel disordine della sua opera scoppiavano ancora, sotto forma d’osservazioni, gridi sediziosi, spasimi percorrevano ancora qua e là la pagina, ma non suscitavano più un sì sconvolgente orrore.

Fatta tuttavia eccezione per la sua Claire Lenoir. Apparsa nel 1867 sulle colonne della Rêvue des Lettres et des Arts, Claire Lenoir inaugurava una serie di novelle che andava sotto il titolo generico di Histoires moroses. Su uno sfondo di oscure elucubrazioni tolte in prestito al vecchio Hegel, s’agitavano esseri male in sesto: un dottor Tribulat Bonhomet, solenne e puerile; una Claire Lenoir, farsesca e sinistra, munita di lenti turchine tonde e grandi come scudi, che ne celavano gli occhi quasi spenti.

La novella s’aggirava su un semplice adulterio; ma la conclusione cui giungeva era terrificante. Al letto di morte di Clara, Bonhomet, frugandole con mostruose sonde, violava le pupille della donna, e impressa nella retina scorgeva nettamente l’immagine del marito di lei che brandiva a braccio teso il mozzo capo dell’amante della defunta, intonando, come un Canaco, un canto di guerra.

Questo racconto che prendeva le mosse dall’osservazione, esatta o meno, che l’occhio di certi animali, quello del bove per esempio, serba sinché non si decomponga, tal quale come una lastra fotografica, l’ultima immagine che lo impressionò – derivava manifestamente da Edgar Poe; del procedimento dell’americano s’appropriava l’arte di spaventare e la discussione cavillosa.

Il che accadeva anche per l‘Intersigne, racconto compreso in seguito fra i Contes cruels; raccolta questa d’un indiscutibile valore, che accoglieva «Véra» una novella che Des Esseintes considerava un piccolo capolavoro.

Qui l’allucinazione s’improntava di squisita delicatezza. Non eran più i tenebrosi miraggi dell’americano; era una visione tiepida e fluida, quasi celeste. In un genere identico, Véra era il contrario delle Beatrici e delle Ligeia: di questi tristi e bianchi fantasmi generati dal nero incubo dell’oppio.

Anche in questa novella protagonista era la volontà; ma non la volontà che s’arrende e soccombe alla paura; sì la volontà esaltata da una fede che rasenta l’idea fissa. La volontà vi trionfava; riusciva persino a saturar di sé l’aria intorno, ad imporre all’ambiente la sua credenza.

Isis, un altro libro di Villiers, lo interessava per altre ragioni. Come Claire Lenoir, ingombrava anche questo libro il peso morto della filosofia; vi incontravi alla rinfusa osservazioni verbose e confuse reminiscenze di vecchi melodrammi, trabocchetti, pugnali, scale di corda, tutto il ciarpame romantico che l’autore non era riuscito a ringiovanire in Elen ed in Morgane; tentativi questi dimenticati, venuti alla luce per i tipi di certo Francisque Goyon, stampatore a Saint-Brieuc.

L’eroina di questo libro, la marchesa Tullia Fabriana, che passava per accoppiare la scienza caldea delle protagoniste di Edgar Poe alle finezze diplomatiche della Sanseverina-Taxis di Stendhal, v’assumeva per sovrammercato l’enigmatico contegno di una Bradamante complicata dell’antica Circe. Tante e così poco conciliabili personalità compendiate in una donna sola, emanavano un fumo fuligginoso, in mezzo al quale si urtavano influssi filosofici e letterari che non eran chiari neanche alla mente dell’autore quando aveva messo mano ai prolegomeni di quest’opera, che doveva abbracciare non meno di sette volumi.

Ma nel talento di Villiers un altro filone esisteva, ben altrimenti valido, ben altrimenti puro: una vena di canzonatura macabra e di beffa feroce. Non erano più allora le paradossali mistificazioni di Poe, sì uno scherno d’una comicità lugubre, dettato, come in Swift, dalla indignazione.

Tutta una serie di novelle: Les demoiselles de Bienfilâtre, L’Affichage celeste, La Machine à gloire, Le plus beau diner du monde, rivelava uno spirito beffardo, singolarmente caustico ed inventivo. Tutta la laidezza dell’utilitarismo contemporaneo, tutta la ignominia mercantile del secolo, erano esaltate con una ironia così pungente che entusiasmava Des Esseintes.

D’una satira sorniona così solenne e scarnificante, non c’era in Francia altro esempio. Tutt’al più una novella di Charles Gros, La science de l’amour, apparsa parecchi anni prima sulla Revue du Monde-Nouveau, poteva stupire per le sue stravaganze chimiche, il suo spirito di maniera, le sue buffonesche osservazioni a freddo; ma il piacere che dava era relativo, sciupato come era dalla forma scadentissima. In essa lo stile fermo, colorito, spesso originale di Villiers spariva per lasciare il posto ad un intruglio carpito dal tavolo del primo scrittore venuto.

«Dio mio! come son dunque pochi i libri che si possono rileggere!» sospirò Des Esseintes.

Il domestico, nel discendere la scaletta su cui s’era arrampicato, si traeva da parte per permettergli d’abbracciare d’uno sguardo l’intero scaffale. Del capo, Des Esseintes approvò.

Sul tavolo non restavano che due libriccini.

Congedato d’un segno il vecchio, Des Esseintes ne tolse in mano uno: rilegato in pelle d’onagro cui la pressa idraulica aveva dato il liscio ed il lucido del raso e che l’acquarello aveva fiorito di nuvole d’argento. Ne salvaguardava all’interno le pagine del vecchio lampasso, dai rabeschi un po’ stinti che avevano la grazia, celebrata da Mallarmé in una deliziosa poesia, delle cose vizze.

Le pagine – nove in tutto – erano ricavate da undici esemplari dei due primi Parnasi tirati su pergamena, ed erano precedute dal titolo: Qualche poesia di Mallarmé, tracciato in bellissima grafia, in caratteri onciali, a colori, punteggiati d’oro come quelli degli antichi manoscritti.

Più d’uno dei componimenti che racchiudeva, lo calamitava: Les fenêtres, L’Epilogue, Azur; ma c’era tra gli altri un frammento dell’Hérodiade che lo soggiogava, a certe ore, come un sortilegio.

Quante volte, la sera, nella luce della lampada che, discreta, rischiarava il silenzio della stanza, egli s’era sentito sfiorare da quella Erodiade che, nella tela di Gustave Moreau, ora in ombra, si ritraeva, diventava leggera, di sé non lasciava più che confusamente intravvedere, in un bracere di gemme spente, il candore di statua! L’oscurità faceva sparire il sangue, addormentava gli ori ed i riflessi, aboliva le lontananze del tempio, inghiottiva le scialbe figure dei carnefici; e, risparmiando solo i bianchi dell’acquarello, traeva la donna dalla guaina dei suoi gioelli, la denudava maggiormente.

Irresistibilmente, egli alzava gli occhi a lei, ne riconosceva gli indimenticabili contorni; la donna riviveva e richiamava al suo labbro i versi strani e soavi che Mallarmé le pone in bocca:

Que de fois, et pendant les heures, desolée

Des songes et cherchant mes souvenirs qui sont

Comme des feuilles sous ta glace au trou profond

Je m’apparus en toi comme une ombre lointaine!

Mais, horreur! des soirs, dans ta sévère fontaine,

J’ais de mon rêve épars connu la nudité!

Questi versi li amava come amava il poeta che, nel secolo del suffragio universale e in un’era di mercanti, viveva appartato dal mondo letterario, salvaguardato dalla stupidità che lo circondava dal proprio disdegno, chiedendo le sue gioie, non già alla società, ma alle sorprese dell’intelletto, alle visioni che gli offriva la fantasia; lavorando di bulino un pensiero già di per sé specioso, intarsiandolo di bellezze bizantine, cogliendone via via gli echi in deduzioni appena accennate, legate fra loro da un impercettibile filo.

Queste idee preziose formanti unità, le consegnava in una lingua aderente, personalissima e segreta, tutta scorci elissi tropi audaci.

Avvertendo le più lontane analogie, l’essere o l’oggetto – che, indicato col semplice nome proprio, sarebbe occorso sovraccaricare di epiteti, per darne tutti gli aspetti, per renderne tutte le sfumature – lo designava spesso con un termine, che, per virtù di similitudine, ne evocava tutto in una la forma, l’odore, il colore, la qualità, lo spicco. Riusciva così a far a meno di esprimere i termini del paragone che s’istituiva da sé nella mente del lettore per forza d’analogia, non appena aveva penetrato il simbolo; cosicché invece di disperdere l’attenzione su ciascuna qualità – ciò che avrebbe ottenuto allineando una filza d’aggettivi – la concentrava su un’unica parola, sur un tutto, che – a mo’ d’un quadro per esempio – presentava un aspetto unico e completo, una sintesi.

Otteneva così una scrittura intensa, liberata da tutte le scorie, essenziale.

Questo modo pregnante di scrivere, già inaugurato con discrezione nelle prime opere, Mallarmé lo aveva arditamente innalzato a regola in un saggio su Théophile Gautier e nell’Après midi d’un faune: un’ecloga, dove la gioia sensuale che permeava sottilmente i versi, esplodeva tutto ad un tratto nel grido selvaggio e delirante dal fauno:

Alors m’éveillerai-je à la ferveur première,

Droit et seul sous un flot antique de lumière,

Lys! et l’un de vous tous pour l’ingénuité.

Questo verso che col monosillabo «lys» riportato a capo, evocava qualche cosa di rigido, di slanciato, di bianco – sensazione accentuata ancora dal sostantivo «ingénuité» in funzione di rima – esprimeva allegoricamente in un vocabolo solo la passione, l’effervescenza, lo stato momentaneo del fauno vergine, accecato di voglia alla vista delle ninfe.

In quel mirabile poema s’aveva ad ogni verso la sorpresa d’immagini nuove ed inedite, laddove il poeta descriveva gli slanci, i rammarichi del capripede che contemplava dal margine dell’acquitrino il folto di canne che serbava ancora, fugace calco, l’impronta delle najadi.

Aggiungi il capzioso diletto che Des Esseintes provava a palpare il minuscolo libriccino: la coperta di feltro giapponese, bianca come latte cagliato, era fermata da due cordoncini di seta, uno rosa di China, nero l’altro. Dissimulata dietro la copertina, la trecciola nera raggiungeva quella rosa che metteva uno spolvero di cipria, un sospetto di belletto giapponese moderno, un che di libertino sul candore antico, sul bianco incarnato del libro e lo chiudeva, sposando in una fatua gala il suo color buio al color chiaro – ad ammonire senza parere, a mettere appena in guardia il lettore contro il rimpianto e la malinconia che seguono ai trasporti appagati, alla febbre dei sensi esaudita.

Des Esseintes ripose sul tavolo l’Après-midi d’un faune e sfogliò qualche pagina d’un altro libriccino, fatto stampare per suo conto: un’antologia del poemetto in prosa: una piccola cappella dedicata a Baudelaire, da servire d’introibo alla sua poesia.

Conteneva dei brani scelti dal Gaspard de la nuit, di quello stravagante Aloysius Bertrand che trasferì nella prosa i procedimenti di Leonardo e che dipinge, coi suoi ossidi metallici, quadretti dove la cangiante vivezza dei colori emula il luccichio degli smalti.

Des Esseintes vi aveva aggiunto il Vox populi di Villiers, un componimento magistrale martellato in uno stile d’oro alla maniera di Leconte de Lisle e di Flaubert; ed una scelta di quel delicato Livre des Jade in cui l’esotixo sentore del ginseng e del tè si mesce all’olezzante frescura dell’acqua che, lungo tutto il libro, bisbiglia al chiar di luna.

Il florilegio accoglieva poi alcuni peomi salvati da riviste che avevano cessato la pubblicazione: Le Démon de l’analogie, La Pipe, Le pauvre Enfant pâle, Le Spectacle interrompu, Le Phénomène futur; e, in prima fila, Plaintes d’automne e Frisson d’hiver; i quali, oltre ad essere i capolavori di Mallarmé, prendevan posto tra i capolavori del poemetto in prosa, perché ad una lingua riccamente scandita da bastar da sé a cullare come un malinconico incantesimo, un’inebbriante melodia, sposavano irresistibile la seduzione dei pensieri, palpiti d’anima di sensitivo i cui nervi vibrano con una intensità che penetra sino a darti l’estasi, sino a farti male.

Di tutte le forme letterarie, questa del poemetto in prosa, era la forma che Des Esseintes prediligeva. In mano ad un alchimista di genio, il poemetto in prosa poteva, a suo avviso, racchiudere nel suo breve giro, sotto specie di essenza, l’efficacia del romanzo, facendo a meno delle sue lungaggini d’analisi e delle sue superfluità descrittive.

Sovente Des Esseintes s’era chiesto se non fosse, per quanto arduo, possibile condensare un romanzo in poche righe, distillate al punto da contenere il succo di centinaia di pagine che vengon spese immancabilmente a dare l’ambiente, a disegnare i caratteri, a renderli persuasivi, con grande rincalzo di osservazioni e di minuti particolari.

Allora le parole scelte si presterebbero così poco a sostituzioni da supplire tutte le altre; l’aggettivo, collocato in posizione così ingegnosa e definitiva da non poter essere spostato di dov’è schiuderebbe al lettore prospettive da farlo fantasticare per settimane sul suo significato, preciso e multiplo insieme; gli darebbe il presente, gli permetterebbe di ricostruire il passato e d’indovinare l’avvenire spirituale dei personaggi, rivelati dai bagliori di quell’unico epiteto.

Così concepito, compendiato così in due o tre pagine, il romanzo diverrebbe una comunione di pensiero fra un magico scrittore ed un lettore ideale; una collaborazione di spiriti consentita fra dieci creature d’elezione sparpagliate pel mondo, una gioia offerta ai raffinati e solo ad essi accessibile.

Insomma il poemetto in prosa rappresentava agli occhi di Des Esseintes il succo concreto, l’osmazoma della letteratura, l’olio essenziale dell’arte.

Questo nutrimento sostanziale condensato in una goccia, già si trovava in Baudelaire; come pure nei poemetti di Mallarmé ch’egli si centellinava con sì intenso godimento.

Chiusa che ebbe l’antologia, Des Esseintes si disse che, se anche si fosse compendiata in quel libro, la sua biblioteca aveva scarse probabilità d’accrescersi. E in verità la decadenza d’una letteratura minata irrimediabilmente nel suo organismo, affievolita dalla decrepitezza delle idee, spossata da eccessi di sintassi, capace solo di curiosità quali son quelle che animano gli infermi e smaniosa insieme di fare in tempo ad esprimer tutto, di lasciare al letto di morte in testamento i pur minimi ricordi delle sue gioie e dei suoi dolori, ansiosa di non ometter nulla, s’era incarnata in Mallarmé nel modo più compiuto e squisito.

C’era in Mallarmé, spinta alle ultime possibilità dell’espressione, l’essenzialità di Poe e di Baudelaire; da lui, i preziosi e possenti filtri del francese e dell’americano ancora una volta erano stati sottoposti a distillazione e sprigionavano nuovi aromi, nuove ebbrezze.

Era l’agonia della vecchia lingua, che, dopo essersi andata corrompendo di secolo in secolo, finiva per dissolversi, per raggiungere la deliquescenza del latino che esalava il suo ultimo respiro nei concetti astrusi e nelle enigmatiche espressioni di San Bonifacio e di Sant’Adelmo.

Insomma, la decomposizione della lingua francese s’era prodotta di colpo. Per la latina, era occorso un lungo periodo di transizione, un intervallo di quattrocento anni, per passare dallo scrivere screziato e sontuoso di Claudiano e Rutilio a quello ormai frollo del settimo secolo. Nella lingua francese lo stesso fenomeno non era stato preparato da alcun intervallo di tempo, da nessuna età di mezzo: lo stile screziato e magnifico di De Goncourt e lo stile frollo di Verlaine e di Mallarmé erano contemporanei, venivano usati nello stesso tempo, nella stessa epoca, nello stesso secolo.

E Des Esseintes, con l’occhio ad uno degli in-folio aperti sul leggio della cappella, sorrise al pensiero che giorno verrebbe che un erudito allestirebbe per la decadenza della lingua francese un glossario come quello in cui il dotto Du Change aveva registrato gli ultimi spasimi, gli ultimi lampeggiamenti, le estreme balbuzie del latino che stava rantolando di decrepitezza nel buio dei chiostri.

XV

Divampato come un fuoco di paglia, il suo entusiasmo pel sostentatore si spense altrettanto presto.

Azzittitasi a tutta prima, la dispepsia nervosa si ridestò; poi, quel concentrato nutritivo, riscaldante di per sé, provocò nell’intestino una tale irritazione, che Des Esseintes dovette in tutta fretta rinunciarvi. La malattia riprese il suo corso e la aggravò la comparsa di nuovi sintomi. Dopo gli incubi, le allucinazioni olfattive, i turbamenti della vista, la tosse secca che compariva puntuale, il rombo delle arterie, del cuore e i sudor freddi, fecero la loro comparsa le illusioni uditive, le ultime a comparire nel decorso del male.

Bruciato dalla febbre, Des Esseintes percepì di punto in bianco un mormorar d’acque, uno sciamar di vespe: rumori che si fusero quindi in uno solo: si sarebbe detto il ronzar d’un tornio. Quel ronzio si schiarì, s’attenuò; divenne poco a poco il suono argentino d’una campana.

Onde sonore, musiche allora esaltarono il suo cervello di febbricitante; lo immersero, lo travolsero nei vortici mistici dell’infanzia.

Riudì i canti appresi dai gesuiti; bastò perché sorgesse innanzi a lui il collegio, la cappella dove avevano echeggiato; finché, propagandosi l’allucinazione agli organi dell’odorato e della vista, percepì e gli velò gli occhi fumo d’incenso; balenarono vetrate sotto alti archi irradiando la tenebra di bagliori.

Presso i Padri, le cerimonie religiose venivano celebrate con gran pompa; un ottimo organista ed una cantoria non meno notevole facevano degli esercizi spirituali, a tutto profitto del culto, un vero godimento artistico.

L’organista aveva una passione per i vecchi maestri, e, nei giorni feriali sonava messe di Palestrina e d’Orlando Lasso, salmi di Marcello, oratori di Haendel, mottetti di Sebastiano Bach; ed a preferenza delle languide e facili compilazioni del Padre Lambillotte, tanto in favore presso il clero, eseguiva delle Laudi spirituali del Cinquecento, d’una maestà chiesastica che aveva tante volte conquiso Des Esseintes.

Ma indicibili gioie gli aveva dato più di tutto il canto fermo, cui a dispetto delle nuove idee, l’organista si serbava fedele.

Questo genere di musica, considerato oggi una forma caduca e gotica della liturgia cristiana, una curiosità archeologica, una reliquia dei vecchi tempi, era bene l’espressione dell’antica chiesa, l’anima stessa del Medio Evo; era la preghiera eterna, modulata sugli slanci dell’anima, l’inno duraturo innalzato da secoli e secoli verso l’Altissimo. Quella melodia tradizionale col suo imponente unisono, con le sue armonie solenni e massicce al pari di blocchi di pietra da taglio, era la sola che s’accordasse con le secolari basiliche e riempisse le volte romane delle quali pareva l’emanazione e la voce stessa.

Quante volte Des Esseintes non s’era sentito afferrare e piegare da una ventata irresistibile, quando il Christus factus est del canto gregoriano s’alzava nella navata e, tra le volubili nuvole sprigionate dai turiboli, i pilastri ne vibravano; o quando il falso bordone del De Profundis gemeva, lugubre come un singhiozzo trattenuto, straziante come un appello disperato dell’umanità che piange sul suo destino mortale, che implora pietà e misericordia dal suo Salvatore.

A petto di quel canto stupendo, creato dal genio della Chiesa, impersonale, anonimo come l’organo stesso di cui s’ignora l’inventore, ogni altra musica gli pareva profana.

A ben guardare, tutte le opere del Jomelli e del Porpora, del Carissimi e del Durante, le composizioni più mirabili di Haendel e di Bach, non rinunciano ad un successo di pubblico, non sacrificano un solo effetto d’arte; in esse non abdica l’orgoglio umano che si ascolta pregare.

Tutto al più, lo stile religioso s’affermava ancora, grave ed augusto, e per la spietata nudità s’avvicinava all’austera imponenza dell’antico cantofermo nelle maestose messe del Leseur celebrate a Saint-Roch.

Da allora, stomacato dai pretesti del Stabat escogitati dai Pergolesi e dai Rossini, da tutta quella intrusione d’arte mondana nell’arte liturgica, Des Esseintes s’era tenuto alla larga dalle musiche equivoche che l’indulgenza della Chiesa tollera.

Del resto questa condiscendenza, suggerita dal desiderio di buoni incassi ed ammantata dall’ingannevole pretesto di attirare i fedeli, dov’era benpresto arrivata? a togliere in prestito canti da opere italiane, ad irreverenti cavatine, a indecorose quadriglie sonate a grande orchestra nella chiesa convertita anch’essa in salotto equivoco, data in balia agli istrioni dei teatri che bramivano lassù, mentre in basso le donne gareggiavano tra loro con la vistosità degli abbigliamenti e si sdilinquivano agli strilli dei cattivi cantori, alla loro voce che profanava con la sua impurità quella sacra dell’organo.

Da anni ed anni egli si rifiutava d’intervenire a quelle pie orge; per fedeltà all’infanzia, rimpiangendo persino d’aver ascoltato qualche Te Deum di celebrati maestri, perché non lo lasciava il ricordo dell’ammirabile Te Deum del canto gregoriano; quell’inno così semplice, così grandioso, sgorgato dal cuore d’un Santo, S. Ambrogio o S. Ilario che sia; quell’inno che in mancanza di complicati mezzi orchestrali, non soccorso dalla tecnica musicale di cui va orgogliosa la scienza moderna, rivelava un’ardente fede, un giubilo delirante, esplosi dall’anima dell’intera umanità in accenti commossi, convinti, pressoché celestiali.

Del resto, le idee di Des Esseintes sulla musica erano in piena contraddizione con le teorie ch’egli professava sulle altre arti. In fatto di musica religiosa egli non approvava veramente che la musica monastica del Medio Evo; quella scarna musica che esercitava un fascino irresistibile sul suoi nervi non altrimenti di certe pagine degli antichi autori cristiani. Aggiungi – e lo confessava lui stesso – che non sarebbe stato in grado di riconoscere i trucchi che i compositori del suo tempo potevano avere introdotto nella musica sacra.

Intanto, la musica non l’aveva studiata con la stessa passione della pittura e delle lettere. Sonava il piano né meglio né peggio di chicchessia e solo con molte esitazioni riusciva a decifrare approssimativamente uno spartito, ma ignorava affatto l’armonia, la tecnica necessaria per cogliere veramente una sfumatura, apprezzare un pregio, gustare una squisitezza con cognizione di causa.

D’altra parte la musica profana è un’arte promiscua se non la si può leggere da solo in casa propria come si legge un libro. Per ascoltarla, sarebbe occorso mescolarsi al solito pubblico di cui rigurgitano i teatri e che assedia quel Cirque d’hiver dove sotto un sole di striscio, in un’atmosfera da lavatoio pubblico, si vede un tizio dall’aspetto di carrettiere che si sbraccia come sbattesse in aria una salsa e massacra episodi staccati di Wagner tra la delirante esultanza d’una moltitudine incosciente.

Des Esseintes non se l’era sentita di tuffarsi in quel bagno di folla per andare ad ascoltare della musica di Berlioz, sebbene alcuni frammenti di questo autore lo avessero soggiogato per la loro appassionata esaltazione, la loro foga balzante; e quanto a Wagner, sapeva con certezza che, non dico una scena, ma neppure una frase di questo prodigioso maestro può essere impunemente staccata dall’opera cui appartiene.

I brani trinciati via e serviti sul piatto d’un concerto, perdevano ogni significato, se è vero che a mo’ dei capitoli d’un libro completantisi a vicenda e concorrenti tutti ad un’unica conclusione, le melodie servivano a Wagner per disegnare il carattere dei personaggi, dar corpo ai loro pensieri, esprimerne i movimenti palesi o segreti; e che il loro sapiente e persistente ritorno era comprensibile solo a chi seguiva il soggetto dall’inizio e vedeva poco a poco i personaggi precisarsi, svilupparsi in un ambiente dal quale non si poteva toglierli, come non si può staccare dall’albero un ramo senza vederlo perire.

Ora, Des Esseintes si diceva, nella folla di melomani che la domenica si estasiava in platea, troveresti a stento venti persone a conoscenza dello spartito che si è dietro a massacrare e che del resto giunge all’orecchio solo quando le palchettiste hanno la cortesia di chetarsi.

Visto poi che un intelligente patriottismo vietava si rappresentassero in un teatro francese opere di Wagner, ai curiosi che ignoravano gli arcani della musica e non potevano o non volevano recarsi a Bayreuth, altro non rimaneva che restarsene a casa: ed era questo il ragionevole partito che Des Esseintes aveva adottato.

D’altronde né la musica più corrente, più facile, né i brani a sé stanti delle vecchie opere lo attiravano granché; i triviali gorgheggi di Auber e di Boïeldieu, di Adam e di Flotow, ed i luoghi comuni della rettorica musicale propugnanti dagli Ambroise Thomas e dai Bazin gli ripugnavano non meno delle affettazioni stantie e delle grazie popolaresche degli italiani.

Des Esseintes s’era quindi scostato deliberatamente dalla musica; e da quando se ne asteneva, da anni ormai, non ricordava con piacere che certe tornate di musica da camera, dove ne aveva ascoltato di Beethoven e soprattutto di Schumann e di Schubert; musiche che lo avevano fatto vibrare in ogni nervo non meno dei più intimi e tormentati poemi di Edgar Poe.

Certe parti per violoncello, di Schubert, lo avevano lasciato alla lettera senza fiato, strozzato in gola dal groppo isterico; ma erano i lieder di Schubert, in particolar modo, che lo avevano esaltato, messo fuori di sé; per poi gettarlo in una spossatezza simile a quelle che cagiona la dispersione di fluido nervoso conseguente ad un’orgia di misticismo.

Quella musica lo penetrava di brividi sino all’ossa: per essa gli rifluiva in cuore – nel cuore stupito di contenere tanta confusa angoscia, tanto confuso dolore – un’infinità di sofferenze scordate, d’antiche malinconie senza causa.

Quella musica di desolazione, che gridava dal più profondo dell’anima, lo terrificava ammaliandolo.

Mai aveva potuto ripetersi «I lamenti della fanciulla» senza che un pianto nervoso gli salisse agli occhi. C’era in quel lamento qualche cosa di più d’uno strazio, qualche cosa di strappato alle carni, qualche cosa come in un desolato paesaggio la fine d’un amore.

Ed ogni volta che gli tornavano alle labbra quei sublimi e funebri accenti, sempre gli evocavano un sito nei dintorni d’una città; un paesaggio arido, muto, dove in lontananza file di esseri spossati dalla vita, piegati in due, si perdono in silenzio nel crepuscolo; mentre, abbeverato di tristezza, strangolato dal disgusto, egli si sentiva, fra quella natura in pianto, solo, interamente solo, atterrato da un’indicibile malinconia, da un’ostinata angoscia così acuta e misteriosa da escludere ogni conforto, ogni pietà, da non lasciar sperare alcuna requie.

Simile ad un rintocco di campane a morto, quel canto senza speranza lo visitava ora che giaceva a letto, annientato dalla febbre ed in preda ad un’ansietà tanto più difficile a calmare in quanto egli non ne scorgeva più la causa.

Finiva per lasciarsi andare alla deriva, travolgere dal torrente d’angoscia che quella musica suscitava: torrente che arginava di colpo per la durata d’un attimo il sorgere in lui d’un canto, lento e sommesso, di salmi, scandito da battagli di campana che parevano martoriargli le tempie indolorite.

Un mattino tuttavia quei suoni s’attutirono; si sentì più padrone di sé e chiese al domestico di porgergli uno specchio.

L’aveva appena in mano che di mano lo specchio gli sfuggì. Vi si era riconosciuto a stento: aveva il viso terreo, le labbra enfiate e secche, la lingua cresposa, la pelle arrugata; i capelli e la barba, che il servo non aveva più fatti dacché egli era a letto, rendevano anche più impressionanti, in quel cranio di scheletro, l’incavarsi del viso e gli occhi ingranditi brucianti di febbre.

Più della prostrazione che avvertiva, più dei vomiti incoercibili pei quali restituiva checché tentasse d’inghiottire, più del marasma in cui si sentiva affondare, quel mutamento d’aspetto lo allarmò. Si credette perduto.

Poi nello scoramento che lo prese, l’energia che nasce nell’uomo che si sente spacciato, lo rizzò a sedere sul letto, gli diede la forza di scrivere una lettera al suo medico, d’ordinare al domestico di recarsi subito a Parigi, di cercare quel medico e di condurglielo a qualunque costo nella giornata.

Bastò perché passasse dal più completo abbattimento alla più rianimante speranza.

Era, quel medico, un celebre specialista, rinomato per le sue cure delle affezioni nervose. «Ha senza dubbio guarito casi più gravi ed ostinati che non sia il mio» si diceva Des Esseintes. «Certamente in pochi giorni mi rimetterà in piedi.» Ma non se l’era detto che alla fiducia succedeva un totale scetticismo:

«Per dotti, per perspicaci che siano, che sanno i medici della nevrosi?»

Anche questo qui, come gli altri, gli prescriverebbe il solito ossido di zinco, chinino, bromuro di potassio, e valeriana. «Ma chi sa!» concludeva, afferrandosi ad un’ultima speranza. «Può essere che se da questi rimedi non ho tirato nessun giovamento, ciò dipenda dal fatto che non ho saputo adoperarli nelle giuste dosi.»

Comunque, l’attesa del medico già di per sé lo rianimava. Ma ecco nascere un nuovo timore: «Purché sia a Parigi e voglia scomodarsi!» E l’idea che il domestico non ve l’avesse trovato, lo ributtò a terra.

Si sentì di nuovo come un uomo in mare. Saltava in un secondo dalla speranza più folle al più folle panico, vedendosi ora in punto di morte ora sulla soglia d’una subitanea guarigione.

Finché, passando invano le ore, venne il momento che, perduta ogni speranza ed allo stremo di forze, persuaso ormai che il dottore non verrebbe più, si disse con rabbia che certo, soccorso in tempo, si sarebbe salvato. Poi anche la sua stizza contro il servo, contro il medico che lo lasciava crepare, cadde; e se la prese allora con se stesso: si rinfacciò d’aver atteso all’ultimo a correre ai ripari, convinto che già sarebbe guarito se solo la vigilia avesse ricorso a cure energiche ed ai medicinali del caso.

Poco a poco quell’altalena di speranze e di allarmi che s’agitava nel vuoto del cervello, prese fine. La tensione aveva finito di spezzarlo. Piombò in un sonno di sfinitezza, attraversato da sogni incoerenti, in una specie di sincope rotta da risvegli in cui non ricuperava la conoscenza. E allorché il medico giunse, egli sapeva così poco ormai di quel che temesse o sperasse, che rimase, a vederlo, intontito, non provò né stupore né gioia.

Indubbiamente il domestico aveva informato il dottore della vita che Des Esseintes menava, dei sintomi ch’egli stesso aveva notato nel padrone dal giorno che lo aveva raccolto presso la finestra, accoppato dalla violenza dei profumi; perché rivolse all’infermo ben poche domande; del cliente conosceva del resto e da lunga data gli antecedenti.

Lo visitò, auscultò. Esaminò attentamente le orine e le strie biancastre che vi scoperse gli rivelarono una delle cause determinanti della nevrosi.

Sgorbiò una ricetta e, senza dir motto, partì, annunziando un prossimo ritorno.

La visita ridiede animo a Des Esseintes: il quale tuttavia, allarmato dal silenzio del medico, scongiurò il domestico di non celargli la verità. Questi diede la sua parola che il medico non aveva manifestato alcuna preoccupazione, e mentre così lo rassicurava, Des Esseintes, per diffidente che fosse, non riuscì a cogliere sul placido viso del vecchio la minima esitazione che lasciasse subodorare una menzogna.

Allora la sua fronte si spianò. Non soffriva del resto più e la debolezza che avvertiva per tutto il corpo non era senza dolcezza; si sentiva come blandito da carezze lente e insieme esitanti.

Lo stupì poi e lo rallegrò non vedersi opprimere di droghe e di fiale; ed un’ombra di sorriso gli distese le labbra quando vide comparire il domestico col necessario per un serviziale a base di peptone, e lo udì dirgli che ricomparirebbe con quell’arnese tre volte ogni ventiquattr’ore.

L’operazione raggiunse il suo scopo; e Des Esseintes non poté a meno di congratularsi secostesso per l’avvenimento che coronava in certo modo l’esistenza che s’era foggiato. Con questo, la sua inclinazione per l’artificio si poteva dire esaudita appieno, senza anzi che la sua volontà ci fosse entrata per nulla. Più in là era impossibile andare: cibarsi da quella parte era il più grosso smacco che si potesse dare alla natura, l’ultima inversione che si potesse commettere.

«Che bella cosa» si diceva «se anche da sano si potesse seguitare un così semplice regime! Che risparmio di tempo! quale liberazione per sempre dall’avversione che ispira ai disappetenti la carne! che mezzo spiccio e definitivo per sbarazzarsi del disappunto che nasce a ogni pasto dal dover scegliere in un numero di cibi necessariamente limitato! quale energica protesta contro il basso peccato della ghiottoneria! Infine, quale perentorio oltraggio gettato in faccia a questa barbogia natura che vedrebbe eluse per sempre le sue monotone esigenze!»

E, parlandosi a mezza voce, rincarò: «Diverrebbe un gioco, per stuzzicar la fame, ingurgitare un potente aperitivo; poi, quando ci si potesse logicamente dire: ‹Che ora abbiamo fatto? Mi pare che sarebbe tempo di mettersi a tavola: ho lo stomaco nelle calcagna!› si imbandirebbe il pranzo, collocando bene in vista sulla tavola il magistrale arnese; ed ecco che la tediosa e plebea sfacchinata del pasto sarebbe liquidata nel tempo di recitare il Benedicite

Qualche giorno dopo, il serviziale con cui il servo si presentò aveva un colore e tramandava un odore che non eran più quelli di prima.

«Che nuovo manicaretto mi propini?» esclamò Des Esseintes, osservando preoccupato il liquido che quello versava nell’arnese.

E, come avrebbe fatto alla trattoria, domandò la lista.

E nella nuova ricetta del dottore che l’altro gli presentava, lesse:

Olio di fegato di merluzzo . . . 20 grammi

Brodo ristretto . . . . . . . . . . . . 200 grammi

Vin di Borgogna . . . . . . . . . . . 200 grammi

Tuorli d’uovo . . . . . . . . . . . . . uno

Quella lettura gli diede da pensare. Lui che non aveva mai potuto, per lo stato del suo stomaco, interessarsi come meritava all’arte culinaria, si sorprese a ruminare piatti complicati per uno pseudo ghiottone. Poi una stramba idea lo attraversò: non poteva darsi che il medico, nel timore d’aver ormai stancato coi peptoni l’insolito palato del cliente, avesse voluto, come un abile cuoco, variargli le pietanze, nell’intento di impedire che la monotonia dei pasti ingenerasse nell’avventore totale inappetenza?

Messosi per questa via, Des Esseintes si divertì a redigere ricette inedite; escogitò pasti di magro pel venerdì, aumentando la dose di olio di merluzzo e sopprimendo invece il brodo ristretto, cibo di grasso espressamente vietato dalla Chiesa.

Ma non poté durare a lungo in quel passatempo, perché poco a poco il medico riusciva a vincere i vomiti ed a fargli trangugiare un siroppo fatto con carne in polvere. Il vago aroma di cacao ch’esso aveva non sgradiva alla sua bocca: quella vera stavolta.

Qualche settimana ancora, e lo stomaco si decise a rimettersi a lavorare. Se momentanee nausee ricomparivano, riuscivano a contenerle la birra di zenzero e la pozione antiemetica di Rivière.

Alfine l’apparato digerente s’andò ristabilendo; con l’aiuto di preparati di pepsina lo stomaco riaffrontò la carne con successo. Il convalescente prese forza e poté tenersi ritto e muoversi per la camera, appoggiandosi ad un bastone e afferrandosi agli spigoli dei mobili.

Invece di rallegrarsene, Des Esseintes, dimentico delle passate sofferenze, s’irritò d’una convalescenza che si trascinava così; e rinfacciò al medico di non andare più per le spicce.

Ci furono, è vero, tentativi infruttuosi che rallentarono la cura: lo stomaco non tollerò né la china né il ferro, neppure corretto con laudano. Lo si dovette sostituire con arseniati, quando già s’era persa una quindicina di giorni inutilmente, come Des Esseintes constatava con impazienza.

Giunse finalmente il giorno che il convalescente poté restare alzato interi pomeriggi ed aggirarsi senza aiuto per la casa.

Allora lo studio cominciò a preoccuparlo. I difetti di arredamento cui aveva fatto l’occhio, ora, dopo la lunga assenza, lo aggredirono.

I colori che aveva scelto perché s’accordassero alla luce delle lampe, a quella del giorno trovò che stridevano. Pensò dunque a sostituirli; e per ore ed ore escogitò faziose armonie di tinte, ibridi accoppiamenti di stoffe e di coiami.

Constatando in sé il riapparire delle antiche preoccupazioni, delle vecchie attrattive: «Mi vado, si vede, rimettendo» si disse.

Ora, un mattino, stava appunto contemplando quelle pareti blu e arancio, fantasticando di tappezzarle di stole della Chiesa greca, di dalmatiche russe a ricami d’oro, di piviali di broccato rabescati di caratteri slavi formati con pietre dell’Ural e filze di perle, quando il medico entrò e gli chiese che stesse guardando.

Des Esseintes lo mise a parte dei suoi chimerici progetti; e già cominciava ad arzigogolare di nuove ricerche di colori, a intrattenerlo di connubi e divorzi di tinte che creerebbe, quando l’altro lo interruppe, assestandogli tra capo e collo una doccia fredda. In tono perentorio gli osservò che non sarebbe comunque in quella casa che metterebbe in atto i suoi progetti.

E senza dargli il tempo di recuperare il fiato, dichiarò che, nel minor tempo possibile, aveva ottenuto il ristabilimento delle funzioni digestive, e che ora occorreva attaccare la nevrosi, la cui guarigione, nonché essere un fatto compiuto, richiederebbe anni di regime e di cure.

Concluse che prima di tentare alcunché, prima anche d’iniziare un trattamento idroterapico – impossibile d’altronde a Fontenay – Des Esseintes doveva lasciare quell’eremo, tornare a Parigi, rientrare come ogni altro nella vita, cercare insomma di distrarsi come tutto il resto dell’umanità.

«Ma non mi distraggono affatto, me, i piaceri degli altri!» protestò Des Esseintes in un impeto di sdegno.

Senza discutere questa opinione, il medico affermò semplicemente che, ai suoi occhi, il radicale mutamento di vita che gli chiedeva era quistione di vita o di morte; scegliesse dunque tra il rimettersi in salute o la pazzia complicata a breve scadenza da tubercolosi.

«Come dirmi di scegliere tra la morte o l’invio al bagno penale!» proruppe Des Esseintes fuor di sé.

Il dottore, che era imbevuto di tutti i pregiudizi dell’uomo di mondo, sorrise, e, senza replicare, s’avviò all’uscita.

XVI

Si chiuse in camera sua. Si turava le orecchie per non udire i colpi di martello che inchiodavano le casse: ogni martellata gli si ripercoteva nel cuore; ogni chiodo era come glielo conficcassero nelle carni.

Des Esseintes s’era piegato all’ordine del medico. Il timore d’aver di nuovo ad affrontare sofferenze che non aveva scordato, la paura d’una fine atroce, avevano avuto il sopravvento sull’avversione che provava per l’esecrabile esistenza cui l’autorità dei medici lo condannava.

«Eppure» si diceva «quanta gente c’è che vive in solitudine, appartata dal mondo, senza scambiar parola con anima viva, come sarebbero i reclusi ed i trappisti. Né risulta che questi disgraziati e questi saggi finiscano per ciò pazzi o tisici!»

Inutilmente aveva citato al dottore il loro esempio.

Seccamente, in un tono che non ammetteva replica il dottore gli aveva ripetuto che il suo verdetto – convalidato del resto dall’unanime parere degli specialisti di malattie nervose – era che solo la distrazione, il divertimento, la gioia possono influire favorevolmente sulla malattia; all’anima, anch’essa attaccata, nulla giovando i rimedi; e, spazientito dalle difese che l’ammalato tentava, gli aveva per l’ultima volta dichiarato che si rifiutava di seguitare a curarlo, se non consentiva a cambiar aria, ad adottare un nuovo più igienico sistema di vita.

Des Esseintes s’era precipitato a Parigi, dove aveva prospettato obiettivamente il suo caso ad altri specialisti; e, poiché senza esitazione essi avevano unanimi approvato le prescrizioni del collega, aveva affittato un appartamento rimasto libero in una casa di recente costruzione; e, di ritorno a Fontenay, aveva ordinato, pallido di rabbia, ai due vecchi di fare i bauli.

Sprofondato nella poltrona, ora rimuginava tra sé l’espressa ingiunzione che veniva ad attraversare i suoi piani, gli faceva rompere con la vita che s’era scelta, mandava per sempre a monte i progetti accarezzati.

Cosicché, addio dunque vita felice! Gli era giocoforza abbandonare il porto in cui aveva trovato rifugio; riaffrontare il tempestoso pelago di stupidità dove già una volta aveva fatto naufragio!

I medici parlavano di distrazione, di svago: ma in che cosa, nella compagnia di chi volevan mai che trovasse svago o distrazione? Non s’era da sé messo al bando della società? Conosceva forse un altro uomo, uno solo, che agognasse come lui d’appartarsi in contemplazione, di confinarsi nel sogno? uno ne conosceva che fosse in grado d’apprezzare la finezza d’una frase, il riposto pregio d’una tela, l’essenzialità d’un pensiero, uno che avesse un’anima così disincantata da capire Mallarmé e da amare Verlaine?

In che luogo in che tempo, in che mondo doveva mettersi a cercare per scoprire un’anima come la sua, uno spirito che si fosse sbarazzato per sempre dal ciarpame dei luoghi comuni, che benedicesse il silenzio come un benefizio, l’ingratitudine del prossimo come uno sgravio, la sua diffidenza come un rifugio ed un porto?

Nella società forse in cui aveva vissuto prima di ritirarsi a Fontenay? Ma i nobilucci che aveva frequentato s’eran certo da allora – per la maggior parte se non tutti – vieppiù avviliti frequentando i salotti, abbrutiti ai tavoli da gioco, smidollati del tutto praticando le donne di mestiere.

I più di loro anzi avevan certo finito per accasarsi: dopo aver avuto i rifiuti dei malviventi, eran ora le loro mogli che si godevano i rifiuti della plebe, perché, padrone delle primizie, il popolo era il solo che non si cibasse di scarti.

«Che scambio edificante di dame e cavalieri, che grazioso trasvolare da braccia a braccia, quest’uso adottato da una società che fa tanto la schizzinosa!» si diceva Des Esseintes.

La nobiltà, poi, era morta di decomposizione; l’aristocrazia era finita nell’imbecillimento o nell’ignominia. Essa s’andava spegnendo nella incontinenza dei suoi discendenti le cui facoltà scemavano ad ogni generazione, per metter capo ad istinti di gorilla fermentati in crani di palafrenieri e di fantini; quando non avveniva, come era stato dei Choiseul-Praslin, dei Polignac, dei Chevreuse, che rotolasse nel fango dei processi che la rivelavano non meno turpe delle altre classi.

Anche i palazzi, gli stemmi secolari, l’alterezza nobiliare, i modi pomposi di quell’antica casta erano spariti. Le terre, che non rendevano più, eran state messe all’incanto in una coi castelli; ché agli ultimi inebetiti campioni delle antiche famiglie scarseggiava il danaro per procacciarsi le magagne veneree.

I meno scrupolosi, i meno ottusi, bandivano ogni ritegno; diguazzavano in truffe, scremavano la melma degli affari, comparivano come volgari furfanti in Corte di Assisi; con che, servivano se non altro a ridare una parvenza di credito alla giustizia degli uomini, che non potendo mostrarsi costantemente parziale, finiva per nominarli bibliotecari negli ergastoli.

Questo attaccamento al danaro, questa smania di lucro aveva contagiato pure quell’altra classe che alla nobiltà s’era sempre puntellata: il clero. Oramai sulle quarte pagine dei giornali si leggevano correntemente annunzi di guarigioni di calli operate da ecclesiastici. I monasteri s’eran trasformati in officine d’apoticari e di liquoristi. Gli ordini religiosi vendevano ricette o mettevano in commercio prodotti da essi stessi fabbricati: l’ordine di Cîteaux, cioccolata, treppistina, semola, tintura d’arnica; i Padri Maristi, bifosfato di calce e acqua d’Arquebuse; i Domenicani, elisir antiapoplettico; i monaci di San Bruno, certosino; benedettino, i seguaci di San Benedetto.

La Bottega aveva invaso i chiostri, dove sui leggii libri mastri di commercio usurpavano il posto degli antifonari. Al pari d’una lebbra, l’avidità del secolo devastava la Chiesa, curvava i monaci su inventari e fatture, trasformava padri guardiani e priori in confettieri e medicastri; laici e conversi in volgari imballamerci, in bassi intrugliadroghe.

Eppure, nonostante tutto, non c’era che gli uomini di chiesa coi quali Des Esseintes potesse sperare d’aver rapporti non troppo discordanti dai suoi gusti; solo nella società di canonici, colti in generale e bene educati, egli avrebbe ancora potuto trascorrere qualche amabile e piacevole serata.

Senonché sarebbe occorso per questo dividere le loro credenze, mentre egli ondeggiava perennemente tra crisi di scetticismo e slanci di fede; che riagallavano ogni tanto, sorretti dai ricordi dell’infanzia. Avrebbe dovuto pensarla esattamente nel loro stesso modo: non pencolare più – come nei momenti di fervor religioso si proponeva – verso un cattolicesimo inquinato di magia, quale quello che usava sotto Enrico III, o di un’ombra di sadismo, come di moda alla fine del Settecento.

Il clericalismo tutto particolare, il misticismo depravato e raffinatamente perverso verso il quale a certe ore inclinava, non poteva essere discusso con un prete che non lo avrebbe capito o l’avrebbe all’istante con orrore ripudiato.

Ancora una volta s’arrovellava a trovare una soluzione all’insolubile problema. Avrebbe voluto uscire dall’incertezza in cui si dibatteva dacché era a Fontenay. Ora che la necessità s’imponeva di far pelle nuova, avrebbe voluto possedere a qualunque costo la fede; appropriarsela in modo da non smarrirla più; farne sua carne e suo sangue; metterla al riparo da tutti i dubbi che la insidiavano, che minacciavano di sradicarla. Ma più una simile fede la invocava e meno si colmava il vuoto della sua anima, più il Cristo indugiava a visitarlo.

Anzi quanto più imperiosa diveniva la sua fame di credere, quanto più l’agognava, riscatto per l’avvenire, viatico per la nuova vita da affrontare, quella fede – che si lasciava vedere ma ad una distanza che lo sgomentava – tanto più alla sua mente perennemente febbricitante idee s’affollavano che facevano capitolare la malferma volontà, che lo portavano a ripudiare per ragioni di buon senso, per prove scientifiche, i dogmi ed i misteri.

«Bisognerebbe che riuscissi a far tacere queste dispute con me stesso» si disse con dolore. «Bisognerebbe che potessi chiuder gli occhi, abbandonarmi alla corrente, scordare le malaugurate scoperte che da due secoli han distrutto da capo a fondo l’edifizio religioso.»

«E ancora!» sospirò. «Impedissero di credere solo i fisiologi e gli increduli! Non son essi che distruggono il cattolicesimo; sono i suoi ministri stessi a demolirlo. La balordaggine dei loro scritti estirperebbe la più radicata convinzione.»

Non c’era tra gli scrittori domenicani un maestro di teologia, predicatore per di più, il Reverendo Padre Rouard de Card che nell’opuscolo «Sulla falsificazione delle specie sacramentali» aveva perentoriamente dimostrato nulla la maggior parte delle Messe, pel fatto che i commercianti fornivano al culto sostanze sofisticate?

Da gran tempo l’olio santo veniva adulterato con grasso di pollame; la cera con ossa calcinate; l’incenso, con resina comune e belzuino stantio.

Ma questo era ancor niente. Persino le sostanze indispensabili alla Santa Messa, le due sostanze senza delle quali nessuna oblazione a Dio è possibile, erano state anch’esse snaturate: il vino, con ripetute aggiunte d’acqua, correzioni con legno di Pernambuco, bacche d’ebbio, alcole, allume, salicilato, litargirio; il pane, quel pane eucaristico che va intriso con fior di frumento, con farina di fagioli, potassa e terra da pipa!

Adesso poi s’era andati anche oltre; s’era spinta l’impudenza sino a fare interamente a meno di grano; e sfacciati mercanti fabbricavano gran parte, se non tutte, le ostie con fecola di patate.

Ora, nella fecola Dio si rifiutava di scendere. Era un fatto incontrovertibile, pacifico. Nel secondo tomo della sua «Teologia Morale» Sua Eminenza il cardinale Gousset aveva anche lui trattato diffusamente della frode dal punto di vista divino. Stando all’incontestabile autorità di questo Maestro non si poteva consacrare pane di avena, di grano saraceno, né d’orzo; e, se qualche dubbio poteva sussistere pel pane di segala, nessuna discussione, nessuna controversia era ammissibile quando si trattava d’una fecola, che non era ad alcun titolo, per usare l’espressione della Chiesa, materia di spettanza del Sacramento.

Prestandosi la fecola ad una facile lavorazione ed ottenendosi con essa pane azimo d’ottima apparenza, l’impudente frode aveva talmente preso piede che il miracolo della Transustansazione non avveniva, si può dire, quasi più e che i sacerdoti come i fedeli si comunicavano, a loro insaputa, con specie neutre.

Ahimè! era lontano il tempo in cui Redegonda, regina di Francia, preparava di sua mano il pane destinato agli altari; il tempo che, a Cluny, in forza d’un diritto consuetudinario, tre sacerdoti e tre diaconi, indossato il camice e l’amitto, si lavavano viso e mani; e a digiuno sceglievano il frumento chiccho a chicco, lo stritolavano sotto una macina, lo intridevano in acqua fredda e pura, di lor mano lo cuocevano a una chiara fiamma, salmodiando! «La prospettiva comunque», si disse Des Esseintes «d’essere come sempre ingannati anche quando ci si accosta alla Mensa Eucaristica, non è fatta davvero per rafforzare credenze già vacillanti. Ma, a parte questo, come concepire una Onnipotenza che cessa d’esser tale in cospetto d’un pizzico di fecola, d’un sospetto d’alcole?»

Queste considerazioni gli fecero anche più tetra la prospettiva della vita che lo aspettava, gli abbuiarono ancora l’orizzonte, glielo mostrarono più minaccioso.

Inutile illudersi: nessuna proda, nessuna rada s’offriva allo sguardo, cui sperar d’approdare.

Che sarebbe di lui a Parigi, dove non contava né parenti né amici? Nulla più lo legava a quel sobborgo di Saint-Germain, sbriciolantesi in polvere per decrepitezza, tremante di marasma senile, vuota reliquia del passato superstite ad una società che gli ribolliva d’intorno. E che cosa d’altronde poteva esserci di comune tra lui e quella borghesia che s’era fatta a poco a poco, profittando per arricchirsi di tutti i disastri, suscitando catastrofi pur d’imporre il rispetto dei suoi misfatti e delle sue ruberie?

Dopo quell’aristocrazia del sangue, era oggi la volta dell’aristocrazia del danaro. Oggi su tutto imperava la Bottega, trionfava il dispotismo di rue du Sentier, spadroneggiava il mercante, vanitoso e truffatore per istinto, limitato e venale di animo.

Con meno scrupoli e maggiore codardia della nobiltà spogliata e del clero decaduto, la borghesia si appropriava delle due caste la frivola ostentazione e l’effimera prosopopea, avvilendole entrambe col suo manco di creanza; convertendo i difetti di quelle in ipocriti vizi. Autoritaria e sorniona, bassa e vigliacca, essa infieriva senza pietà contro l’eterna necessaria sua vittima, il popolino, cui pure aveva di sua mano tolta la museruola e che aveva appostato perché saltasse alla gola delle vecchie caste.

Ormai era cosa fatta. Ormai che il servizio lo aveva reso, la plebe era stata salassata per misura d’igiene sino all’ultima goccia: e il borghese rassicurato spadroneggiava allegramente, armato del suo danaro, forte della sua contagiosa stupidità.

Conseguenza della sua salita al potere, era stata la mortificazione d’ogni intelligenza, la fine di ogni probità, la morte d’ogni arte. Gli artisti umiliati, s’eran buttati ginocchioni a divorar di baci i fetidi piedi dei grandi sensali e dei vili satrapi, delle cui elemosine campavano.

Nella pittura, era un dilagare d’invertebrate scempiaggini, nella letteratura, il trionfo dello stile più piatto, delle idee più evirate. Come avrebbe infatti potuto fare a meno d’onorabilità l’affarista imbroglione? di virtù, il filibustiere che dava la caccia ad una dote pel figlio, mentre si rifiutava di sborsare quella della figlia? di amor celeste, il volterriano che accusava il clero di violenze carnali, mentre lui andava in stanze equivoche ad annusare, ipocritamente stupidamente acqua sporca di catinelle, sciapo pepe di sottane sporche?

Era insomma la galera in grande dell’America trapiantata nel nostro continente; era l’inguaribile incommensurabile pacchianeria del finanziere e del nuovo arrivato che splendeva, abbietto sole, sulla città idolatra che vomitava, ventre a terra, laidi cantici davanti all’empio tabernacolo delle Banche.

«E crolla dunque una buona volta, Società! Crepa dunque, barbogio mondo!» uscì a gridare Des Esseintes, stomacato dallo spettacolo che evocava.

Lo sfogo lo liberò dall’incubo.

«Ah» fece. «E dire che tutto questo non è un sogno! che davvero sto per rientrare nel pigia pigia di questo mondo turpe e servile!»

Non gli serviva richiamare a mente, per confortarsi, le consolanti massime di Schopenauer, ripetersi il doloroso assioma di Pascal: «Quando l’anima si mira intorno, nulla scorge che non la affligga.» Quelle parole echeggiavano ora in lui come suoni privi di senso, la sua angoscia le sbriciolava, toglieva loro ogni significato, ogni virtù di sollievo, ogni efficacia, ogni dolcezza.

S’accorgeva insomma che le conclusioni cui giungeva il pessimismo erano anch’esse impotenti a consolarlo; che solo l’impossibile fede in un’altra vita avrebbe potuto dargli la pace.

Tentava di trincerarsi nell’apatia, faceva sforzi per rassegnarsi: tentativi che spazzava ogni volta via un impeto d’ira, come foglie l’uragano.

Inutile dissimularsi la realtà. Più nulla, più nulla restava in piedi: tutto giaceva a terra; come già a Clamart, la borghesia mangiava a crepapelle su un tovagliolo di carta imbandito sulle ginocchia, sotto le maestose rovine della Chiesa, diventata luogo d’appuntamenti, cumulo di macerie, insozzato da turpi lazzi, da facezie oscene.

Che forse a dimostrare una buona volta che esisteva, il tremendo Iddio della Genesi e il pallido Dischiodato del Golgota erano in procinto di scatenare i mai più visti cataclismi? Stavano per riaccendere le piogge di fuoco che arsero un tempo le genti reprobe, le città morte? oppure la marea di fango avrebbe continuato a salire, a coprire della sua pestilenza questo vecchio mondo dove non attecchivano più che sementi d’iniquità, dove non lussureggiavan più che messi di obbrobrio?

Ad un tratto la porta di casa venne spalancata; laggiù, nel suo vano, uomini s’inquadrarono, che avevan le guance rase, una moschetta sotto il labbro inferiore, un berrettaccio per copricapo. Maneggiavano casse, trasportavano mobili. Quindi la porta si richiuse alle spalle del domestico, carico di pacchi e di libri.

Des Esseintes s’afflosciò su una sedia.

«Tra due giorni sarò a Parigi. Confessiamocelo: tutto è finito. Come in un maremoto, i flutti della umana mediocrità arrivano al cielo. Un momento ancora e inghiottiranno il porticciolo di cui io stesso apro le dighe.

Ah, che mi manca il coraggio! Ah, che il cuore mi si impenna!

Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che s’imbarca solo nella notte, sotto un cielo che non rischiaran più i consolanti fari dell’antica speranza!»

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