di Ernesto Ferrero
Nell’aprile 1932 il giovane editore parigino Robert Denoël si ritrovò sul tavolo un grosso dattiloscritto di novecento pagine a spazio due, che non portava nemmeno l’indicazione dell’autore. Cominciò a leggerlo con uno sbalordimento che sconfinava nell’esaltazione. Telefonò nottetempo al suo segretario, ingiungendogli di trovarsi presto in ufficio l’indomani perché bisognava arrivare ad una decisione rapida. Fu convocato anche il socio di Denoël, l’americano Bernard Steele, che condivise il giudizio entusiastico dell’amico, e telefonò alla madre negli Stati Uniti per farsi mandare i fondi necessari alla produzione del libro: la casa editrice, in quel periodo, aveva qualche problema di liquidità.
Si trattò poi di risalire, con qualche fatica, all’autore. Era un medico trentacinquenne che abitava dalle parti di Montmartre, in rue Lepic, e lavorava al dispensario di Clichy, un certo Louis Destouches. Più tardi, Denoël (che doveva cadere assassinato in circostanze misteriose nel dicembre 1945) ricorderà così quell’incontro: “Mi trovai davanti un uomo straordinario come il suo libro. Parlò per due ore da medico che sapeva tutto della vita, da uomo di estrema lucidità, disperato a freddo, e tuttavia passionale, cinico ma pietoso… Lo rivedo ancora nervoso, agitato, occhi azzurri, uno sguardo duro, penetrante, l’aria un po’ stralunata. Aveva soprattutto un gesto che mi colpiva. La mano destra andava e veniva come per fare piazza pulita, e ad ogni istante designava le cose con l’indice… Il suo modo di esprimersi era sempre forte, immaginoso, allucinato. L’idea della morte, la propria e quella del mondo, tornava nel suo discorso come un motivo conduttore. Mi descrisse un’umanità affamata di catastrofi, innamorata di massacri”.
Fu steso un contratto: nessun anticipo, 3000 copie di tiratura iniziale, una percentuale del 10% per le prime 4000 copie, che saliva in progressione fino al 18% oltre le 50’000 copie vendute. Il dottor Destouches s’era scelto uno pseudonimo: avrebbe firmato Louis-Ferdinand Céline. Un nome femminile: Céline si chiamava appunto la nonna materna Guillou, molto amata. Il dottore voleva continuare a fare il suo mestiere, e temeva le gelosie o il sarcasmo dei colleghi, a seconda che il libro fosse stato un successo o un fiasco.
Il dattiloscritto venne mandato in composizione, e i tipografi, stupefatti da quello stile inusitato, decisero di intervenire d’ufficio sulla punteggiatura, togliendo virgole, dando una sistemata grammaticale a quel che sembrava un po’ eccessivo. Il dottore, spossato da tre anni di stesura, non voleva nemmeno vedere le bozze, ma quando seppe del misfatto, fece una scenata all’editore: “Questi mi vogliono far scrivere come François Mauriac! Non aggiungete una sillaba senza dirmelo! Mi buttereste all’aria il ritmo come niente!… Ho un’aria scalcinata ma so perfettamente quel che voglio”. Il 15 ottobre il romanzo è pronto per la libreria e per il Premio Goncourt di prossima assegnazione: Denoël è sicuro di avere per la mani la grande occasione della sua vita di editore, e si prodiga in ogni modo per il successo del libro. Il comunicato stampa della casa editrice parla di un’opera “impossibile da classificare e da definire a causa della sua originalità”, di una satira che arriva alla ferocia ma non è un pamphlet. Pubblico presunto: i medici, che vi erano vivacemente attaccati, gli studenti, i lettori colti.
Nasceva così Voyage au bout de la nuit, e oggi che il secolo sta finendo fra tragedie e farse d’ogni genere, ci appare sempre più chiaro che questo è il romanzo che l’ha meglio capito e rappresentato, che il consapevole delirio céliniano ne ha saputo cogliere come nessun altro gli aspetti fondamentali: gli orrori della guerra e della retorica patriottarda di quelli che stavano a dirigere il macello nelle retrovie; la ferocia dello sfruttamento coloniale; la solitudine delle metropoli (New York) e gli incubi tayloristici delle catene di montaggio (la Ford a Detroit), il degrado urbano e l’abbrutimento operaio nella Parigi delle borgate, l’avvento di una piccola borghesia cinica e faccendiera, quella stessa di cui oggi contempliamo i guasti forse irreversibili nelle imprese dei figli e dei nipoti, al di qua e al di là delle Alpi.
Vita del dottor Destouches
Céline era nato in riva alla Senna a Courbevoie, nei pressi di Parigi, il 27 maggio 1894, da una famiglia normanna della piccola nobiltà del Cotentin, i Des Touches de Lentillière, il cui esponente di maggior spicco era stato il nonno di Louis, Auguste, professore a Le Havre, poeta e romanziere. Louis aveva rapporti difficili con il padre Fernand, una carriera mediocrissima di corrispondente presso una compagnia di assicurazioni, con una nomina a vice capoufficio l’anno prima del pensionamento, il 1923. Di quell’incomprensione sempre sull’orlo dello scontro fisico si può cogliere un’eco, anche se certamente esagerata, in Mort à crédit. Era troppo lontano, il figlio irrequieto e ribelle, dalla querula rassegnazione di un padre frustrato. E certo non è senza significato che Louis si decida a presentare il manoscritto del Voyage a Gallimard il 14 aprile 1932, a un mese esatto dalla scomparsa per congestione cerebrale del padre, che non avrebbe certo approvato il ghiribizzo di un’attività letteraria, per giunta scandalosa.
Bretone era invece la madre Marguerite, piccola commerciante di merletti e oggettini d’antiquariato al Passage Choiseul, in una mortificata penombra rotta dal sibilo asfissiante delle lampade a gas. Un ambiente angusto, angoscioso e angosciato, segnato dalle fatiche di una sempre incerta sopravvivenza, dalle frustrazioni ricorrenti, dall’ossessione del risparmio, con sogni di decoro, di cui nel Voyage sono uno specchio abbastanza fedele le angustie della famiglia Henrouille.
Il piccolo Louis è destinato, nelle speranze materne, a una carriera di commesso-compratore ai grandi magazzini. A soggiorni di studio in Inghilterra e in Germania alterna le dure pratiche dell’apprendistato presso alcuni gioiellieri di Parigi e Nizza. A diciott’anni, nel 1912, si arruola nel dodicesimo reggimento dei corazzieri di stanza a Rambouillet, anche se ha in odio i cavalli (la folle notte dell’arruolamento è stupendamente raccontata in Casse-pipe). Nel luglio 1914 il maresciallo d’alloggio Destouches viene dislocato al fronte, prima in Lorena, poi nelle Fiandre, dove partecipa a violenti combattimenti sul fiume Lys, e poi a Ypres. Scrive a casa: “Da tre giorni i morti sono rimpiazzati continuamente dai vivi al punto che formano dei monticelli che vengono bruciati e che in certi posti si può traversare la Mosa a guado sui corpi tedeschi di quelli che cercarono di passare”. Ad onta di questi spettacoli d’orrore, le lettere dei superiori dipingono Destouches come un esempio di slancio, coraggio, energia. Il 27 ottobre, a Poelkapelle, in territorio belga, si offre spontaneamente per una missione di collegamento “in condizioni particolarmente pericolose”. Ferito seriamente al braccio destro, si guadagna una medaglia militare e la copertina dell’Illustré National: nel disegno lo si vede piegato sul cavallo in corsa, cimiero al vento, che supera d’un balzo un albero schiantato, mentre il cielo si oscura di esplosioni e sullo sfondo due tedeschi lo prendono di mira.
Iniziano i vagabondaggi di Louis negli ospedali delle retrovie e della capitale. Nel 1915, congedato, è assegnato al consolato generale di Francia a Londra, dove frequenta gli ambienti del music-hall e della prostituzione, e sposa una entraîneuse che lascerà in capo a qualche mese. L’anno seguente firma un contratto con la Compagnie Française Sangha Oubangui per dirigere una piantagione di cacao in Camerun: tornerà in patria dopo nove mesi con la malaria. Seguono un impiego precario presso una rivistina di divulgazione scientifica (esperienza poi ampiamente descritta in Mort à crédit), gli studi in medicina e la provvisoria integrazione nella buona società di Rennes (con relativo secondo matrimonio con la figlia di un potente clinico locale, il dottor Follet); l’attività di conferenziere per la Società delle Nazioni e i viaggi in Europa, Africa e America per propagandare l’igiene, la profilassi contro la tubercolosi, le nuove frontiere della medicina sociale; infine l’esercizio della professione medica nei rioni più disastrati di Parigi. Un medico povero in mezzo a una clientela povera, cui si vergogna di estorcere i venti franchi della visita: “visitavo a occhio, soprattutto per curiosità”.
Il 1929, in cui Destouches inizia presumibilmente a scrivere il suo romanzo, è un anno difficile per lui e per la Francia. Gli scarsi clienti non gli consentono di pagare i debiti accumulati a Ginevra durante lo spensierato soggiorno alla Società delle Nazioni. E poi il dottore ha delle ambizioni letterarie che sono state puntualmente frustrate. Gallimard gli aveva respinto sia la tesi di laurea sul dottor Semmelweis (un eroe scientifico dell’Ottocento, il debellatore dell’infezione puerperale, con un destino di incomprensione e isolamento in cui Destouches doveva riconoscersi), sia il dramma L’Eglise, che ha per protagonista un giovane medico anarcoide, tra Africa, Stati Uniti e Società delle Nazioni, di cui lo stesso autore riconoscerà più tardi i limiti: eppure in quella pièce sfortunata c’è già tutto il Voyage. Uno smacco particolarmente doloroso per un uomo che sembrava accettare dalla vita soltanto la levità della finzione teatrale o meglio ancora del balletto (si vedano nel Voyage le pagine dedicate al Tarapout). Se a Ginevra aveva sperimentato l’inutilità delle commissioni di studio, delle conferenze e dei viaggi, a Clichy il dottore viveva sulla propria pelle l’impotenza della medicina contro la tubercolosi o le malattie sociali alimentate disastrosamente dalla miseria operaia; scopriva una miseria morale anche peggiore di quella materiale.
Anche se la Francia aveva risentito meno di altri paesi europei della Grande Crisi scoppiata in America in quello stesso 1929, i segnali del disagio erano evidenti dappertutto. Sono gli anni in cui, oltre ai problemi della disoccupazione crescente, si avverte con inquietudine che se il dopoguerra è forse finito, è già cominciato un anteguerra, che l’apocalisse è soltanto rimandata, e già incombe. È una consapevolezza che agita tanto gli intellettuali gauchisti riuniti da Emmanuel Berle sotto le bandiere della rivista Marianne, quanto i cattolici dissidenti di Esprit. Emmanuel Mounier parla di “un grido più aspro dell’angoscia, che nasce dalla fame e dalla sete, dalla collera del sangue, dalla disperazione del cuore”. Lo storico Henri Lefebvre ammonisce che il rifiuto degli intellettuali non può più bastare. Non è più questione di noia, come ai tempi di Baudelaire e Rimbaud: quello che ci si trova davanti è una società piena di dolore e di morte. “La guerra non appare più come un intermezzo tragico, ma come un fatto periodico e ciclico e naturale nel mondo com’è. Aspettando quella morte, si fa fatica perfino a tirare avanti. Non soltanto bisogna vendersi, ma non si trova più da vendersi”. Anche Paul Nizan pensava che “il mondo ha perso significato, è un mucchio di detriti su cui marciano con le loro vecchie vanità i finanzieri, i generali, i preti, i politici, le loro donne e i loro fabbricanti di piaceri”. Céline faceva dunque sua l’angoscia di un’intera generazione. Già il suo dottor Semmelweis era un isolato che viaggiava nella notte verso una conclusione mortale. Già il Bardamu dell’Eglise era un anarchico che si sente ovunque straniero, che non crede alla scienza e ai sistemi politici e proclama, come farà il Bardamu del Voyage, che “la verità di questo mondo è la morte”.
Nascita del Voyage
Le aspirazioni letterarie di Céline risalgono, allo stato attuale delle conoscenze, all’aprile 1917, quando a bordo del piroscafo Tarquah che lo porta per la prima volta in Africa scrive il racconto Des vagues, ritratto satirico e umoristico dei passeggeri, ancora goffo e convenzionale. Negli ultimi anni, Céline avrà la civetteria di negare le ambizioni giovanili: “Avevo la vocazione del medico, quella del letterato proprio per niente. Consideravo il mestiere del letterato come una cosa assolutamente grottesca, pretenziosa, imbecille, che non era fatta per me”. Certo, Céline non poteva avere niente del letterato istituzionale, di carriera, attento alla conquista di un suo piccolo potere. Si preparava a modo suo, dedicandosi a letture disordinate e furiose, da autodidatta, studiando il parlato quotidiano con un’attenzione da antropologo. Varie testimonianze ci parlano di un Céline a caccia di espressioni colorite sulla bocca dei personaggi che frequenta: amici vecchi e nuovi, gente di spettacolo, artisti, bottegai, barboni, esponenti della mala, popolani (si veda l’elogio della portinaia nell’episodio americano del Voyage). Questa fascinazione dell’oralità si univa all’urgenza della testimonianza, all’eterno piacere del reduce di raccontare le proprie avventure, abbellendole o degradandole, ma comunque trasformandole. Questo spiega anche perché, rispetto ai libri che seguiranno, pur con tutta la carica eversiva della sua scrittura, il Voyage sia il più tradizionale dei libri di Céline, quello in cui maggiormente contano “le cose da dire”. Il quale Céline dirà vent’anni dopo a Robert Poulet che, trovata la prima frase, tutto il resto era venuto da solo, con una sorta di naturalezza. Lui avvertiva come un sentimento del proibito, delle “cose che uno sente e non può confessare… C’erano delle interdizioni, uno steccato riservato. Questo steccato, l’ho superato senza saperlo, correndo dietro il tono giusto, il movimento vero, nella loro forma più espressiva”.
Nelle interviste del dopoguerra, Céline fornirà con il suo consueto gusto per il depistaggio e la mistificazione delle ragioni del tutto esterne e poco credibili per spiegare l’avvio del romanzo: tra cui principalmente il successo dell’amico Eugène Dabit con il suo Hôtel du Nord, uscito proprio da Denoël e ambientato nei quartieri popolari di Parigi. Fantasticando un’eguale riuscita, Céline pensava di risolvere il problema dell’affitto mensile che tanto lo affliggeva. Ma ovviamente c’era ben altro, e sull’urgenza del reduce di tante avventure pesavano dei precisi riferimenti culturali: l’impressione suscitata in lui dall’antologia freudiana uscita in Francia nel 1927, che gli farà dire, almeno fino al 1938, che Freud resta “il grande maestro di tutti noi”. Nel 1932 era uscito il lavoro di Otto Rank sul doppio, che calza perfettamente con i rapporti tra Bardamu e Robinson. Sappiamo poi, da quel che scrive Henri Godard nel primo tomo delle opere céliniane nella “Pléîade”, che Céline apprezzava Le Feu di Barbusse per la verità e l’immediatezza che avevano in quelle pagine i dialoghi dei soldati, ma anche per il tono di protesta, per il modo di evocare attraverso la trasposizione di esperienze vissute. Così come è molto probabile che a Céline non fosse sfuggito il Voyage au Congo di Gide, che è del 1927, e il libro-denuncia di Duhamel sugli Stati Uniti, Scènes de la vie future, che è del 1930.
Questo può spiegare perché il Voyage sia stato letto non tanto come un romanzo, ma come una testimonianza, una denuncia, un grido di rivolta. E certo non s’era mai vista una presa di posizione così netta contro un sistema ipocrita e violento, che credeva di essersela cavata con l’istruzione obbligatoria e il suffragio universale, che fingeva di non sapere su quali fatti e misfatti riposavano i propri privilegi. In Céline, la polemica sociale fa tutt’uno con la polemica letteraria. Del sistema che Céline aborrisce è specchio e sintomo il francese accademico, paludato, perbenista, compassato, compiaciuto dei propri effetti, il “bello stile” imparato dai gesuiti, quello “stile Paul Bourget” su cui non smetterà di ironizzare. Molti prima di lui avevano denunciato la guerra, il colonialismo, il degrado delle periferie urbane. Ma nessuno con l’originalità stilistica che mantiene intatta la sua efficacia a sessant’anni di distanza. Dove la sovversione non stava soltanto nel ricorso al linguaggio basso e colloquiale, alla langue verte, contaminata con un lessico “alto” di notevolissima estensione. Céline sa bene che l’argot invecchia presto, che un testo di puro gergo è indigesto, e procede a continui intarsi tra vari registri. Ma la sua vera innovazione sta nelle rotture sintattiche e semantiche che agitano il periodo, nella dislocazione delle parole, che vengono anticipate o posticipate nella frase, creando effetti di sorpresa, di straniamento, di sospensione, moltiplicando risonanze inedite; da cui quell’impressione di altalena emotiva che è uno degli obiettivi programmatici di Céline.
Quando, nelle prime interviste dopo l’uscita del Voyage, Céline dichiara che lui scrive come parla, fa torto a se stesso, e difatti presto correggerà il tiro, arrivando a precisare che l’apparente naturalezza della pagina è frutto di un complesso artificio, e utilizzerà spesso con i suoi interlocutori la famosa immagine del bastone immerso nell’acqua. Scrive nel 1947 dalla Danimarca al giovane professore americano Milton Hindus, che si riprometteva in pari tempo di redimerlo dai suoi peccati di antisemitismo e di rilanciarlo come scrittore: “Far passare il linguaggio parlato in letteratura – non è questione di stenografia – Alle frasi, ai periodi, occorre imprimere una certa deformazione, un artificio tale che quando uno legge il libro gli sembri che gli si stia parlando all’orecchio – Si arriva a questo mediante una trasposizione di ciascuna parola che non è mai del tutto quella che ci si aspetta, una sorpresina. È quello che accade a un bastone immerso nell’acqua; perché appaia diritto bisogna spezzarlo un pochettino prima di immergerlo, deformarlo preventivamente, se così si può dire. Un bastone regolarmente diritto invece, immerso in acqua, allo sguardo sembra piegato. Lo stesso vale per il linguaggio – il più vivace dei dialetti, stenografato, risulta sulla pagina piatto, complicato e pesante – Volendo rendere per scritto l’effetto di spontaneità della vita parlata bisogna torcere la lingua in puro ritmo, cadenza, parole, ed è una sorta di poesia che produce un grande sortilegio – l’impressione, il fascino, il dinamismo – e poi occorre scegliere il proprio soggetto – Non tutto si può trasporre”.
Era la prima volta che questo stile diretto veniva usato non soltanto nei dialoghi, ma nell’intera tessitura del racconto, come a sottolineare che l’autore faceva proprio il punto di vista dei reietti, che si abbassava al loro livello, e tuttavia senza mai idealizzarli, senza mai pensare che un ipotetico riscatto potesse passare dalle loro mani: fatto che non gli sarà perdonato dalla sinistra ufficiale.
I viaggi di Bardamu
Chi è Bardamu? è “un uomo tormentato dall’infinito”, intento a cercare una punizione per l’egoismo universale; uno che ne sa troppo e non ne sa abbastanza, che è “malato della voglia di saperne di più”, che cerca nella notte le risposte ultime, quelle che nessuno ha il coraggio di affrontare. “È forse questo che si cerca nella vita, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire”. Il masochismo céliniano, quello che gli ha fatto fare tanti gesti sbagliati, è la voluttà di abbandonare ogni volta le posizioni e la tranquillità già conquistate per rimettersi totalmente in gioco nei rischi mortali di una “cognizione del dolore” praticata sul campo: “quella voglia di scappare da ogni posto, alla ricerca di non so cosa, per uno stupido orgoglio senza dubbio, per la convinzione di una specie di superiorità”. Ma Bardamu è anche un uomo che ha “il vizio delle forme perfette”, che pratica un culto quasi classico della bellezza, e tuttavia non disdegna le pratiche del voyeurismo anche spicciolo (come nell’episodio in cui, acquattato tra le erbe, spia le tenerezze che si scambiano Robinson e Madelon).
Le storie raccontate nel Voyage hanno, come ha osservato Henry Godard, un andamento ciclico sempre uguale: incominciano con un errore, una gaffe, una sfida mal calcolata, uno scatto d’umore, che precipitano Bardamu in un tragicomico balletto di situazioni difficili o disperate, da cui esce sempre a fatica, sempre provvisoriamente. In mezzo, l’accumularsi degli ostacoli e delle minacce, i segni nefasti che annunciano il precipitare del dramma, il suo accelerarsi; e lo sconforto lucido e amaro delle riflessioni che Bardamu ne ricava. Céline-Bardamu si trova bene, anche stilisticamente, solo nei grandi disastri, nei fuochi d’artificio verbali che li accompagnano: è insomma un eterno sopravvissuto che per sentirsi vivo deve rinnovare ad ogni istante la minaccia di un’apocalisse. Non sarà un caso che alla fine di quello stesso decennio lo scrittore di successo, apolitico e antipolitico come si ritrova, finisca per schierarsi dalla parte sbagliata con i tre famosi libelli antisemiti (opere esasperatamente e dichiaratamente letterarie, sarà bene ricordare, talmente esagitate da risultare, alla fine, quasi altrettante caricature dell’antisemitismo) che faranno di lui un uomo in fuga per l’Europa in fiamme, un proscritto, un nemico della patria e degli uomini. “Sono diventato, oltre che stupratore della lingua francese, traditore, genocida, uomo delle nevi”, scriverà sarcastico nei Colloqui.
Il gesto céliniano per eccellenza (che è poi quello di Robinson a Tolosa, e del dottor Baryton che lascia la clinica per avventurarsi nel nord) è l’insoddisfazione, l’eterno partire. Che è poi il bisogno di punirsi di colpe oscure (il parricidio desiderato?), di sentirsi colpevole dei privilegi sociali che comporta una laurea in medicina, o, nel romanzo, della vaga complicità con gli Henrouille nel fallito attentato alla nonna. Céline-Bardamu-Robinson è un provocatore di se stesso, qualcuno che trova una sua disperata felicità in una sorta di ubriacatura da catastrofe, come ammetterà Céline nelle interviste degli ultimi anni: “Céline fa delirare Bardamu che racconta quel che sa di Robinson”. La cifra del racconto in prima persona è appunto un delirio che arriva là dove fallisce la presunta lucidità della ragione, è la lente deformante che consente a Céline di giungere alle verità estreme. “Delirio” è appunto la parola-chiave per capire Céline, ed egli stesso ne è consapevole: “Devo entrare nel delirio, devo raggiungere il livello Shakespeare”. E a più riprese dirà che le pagine meno riuscite del romanzo sono quelle meno toccate dal delirio, che l’autobiografia deve restare un punto di partenza da trasfigurare liberamente.
Tra le ossessioni che il romanzo ostenta, in primo piano resta quella per la terra, per la corruzione, per tutto quanto si disfa, cade, marcisce. Le parole che ricorrono di più nel lessico célinano sono quelle che fanno riferimento al marciume, all’ininterrotto sbavare e putrefarsi e corrompersi degli uomini prima ancora che delle cose (il baver, la pourriture). Di qui, per contrasto, l’attrazione per tutto quello che è leggero, mobile, aereo, che si distacca dalle servitù della legge di gravità: l’acqua, le nuvole, i fiumi, il mare, le navi, ma anche pochi esseri privilegiati, “musicali”, certe donne, certe danzatrici di cui Céline loda la “precisione” dei movimenti, l’esattezza matematica del gesto che riesce a negare se stesso per trasformarsi nell’arco astratto del movimento, nell’incanto di un attimo che diventa segno, ideogramma. Questo spiega perché l’aggettivo più insultante per Céline, fieramente astemio e avverso a ogni crapula, è “lourd”, tutto quanto designa la pesantezza, il lato greve della materia e del corpo umano, l’abominio delle “tripes”, altra parola odiata. Uomo di città che soffre la tristezza e la bruttezza della città, sogna la leggerezza del viaggio e la svelta precisione con cui una barca a vela può stringere il vento, ma detesta la natura, i suoi spettacoli eccessivi, la sua magniloquenza vischiosa e annichilente, i suoi eccessi barocchi, vagamente antropofaghi.
I suoi scenari prediletti sono, prima ancora che notturni, crepuscolari: i momenti in cui l’oscurità incombente della notte si impadronisce della Senna, delle chiatte, delle case, dei parchi, degli alberi, luoghi deputati del grande impressionismo céliniano, quella zona di nessuno che annuncia un incubo, una sconfitta, o uno smemoramento, ma anche l’inizio di un viaggio iniziatico nell’ombra e tra le ombre (una iniziazione condannata a ripetersi dolorosamente, che non arriva mai a certificare il raggiungimento di una maturità). Che non è soltanto il confronto con le verità insostenibili dell’abiezione e della morte, ma anche la ricerca di una base d’appoggio, di un appiglio, di uno spunto per darsi quel minimo di coraggio e di consapevolezza con cui tornare ogni mattina nel mondo.
“L’uomo è nudo, spogliato di tutto, perfino della fede in se stesso. Questo è il mio libro”, dichiara Céline in una delle prime interviste. Il suo disincanto, tante volte superficialmente condannato come una specie di resa incondizionata al nichilismo, è la classica reazione dell’innamorato deluso, di quanti hanno una così alta concezione dell’uomo da non sopportare lo spettacolo della sua reale miseria morale.
L’interesse che spinge Céline verso lo spettacolo della degradazione non è mai naturalistico o di verismo sociale: semplicemente, egli vi ritrova quello che può offrire alla propria immaginazione le ossessioni di cui ha bisogno. Ma il Voyage è ben altro che l’affermazione di un pessimismo cosmico e senza riscatto: è un romanzo potentemente comico, in cui farsa e tragedia si mescolano continuamente, in cui la rappresentazione dell’abiezione non frena e anzi semmai esalta la vis grottesca, un divertimento più forte dell’incubo. Non suonerà dunque eccessivo il richiamo che qualche critico ha fatto quando il libro uscì alla “haulte graisse” rabelaisiana. “Il linguaggio scritto era a terra, sono io che ho restituito l’emozione al linguaggio scritto!… è mica uno sgobbo da niente, glielo assicuro! la trovata! la magia!… L’emozione viene dal midollo dell’essere, mica dai coglioni o dalle ovaie!”, rivendica Céline nei Colloqui. A Léon Daudet scrive: “Mi trovo bene solo in un grottesco ai confini della morte. A tutto il resto sono insensibile”. Lo spettacolo delle bassezze umane scatena in lui un riso liberatorio, fatto di satira e di humour nero, di gags esilaranti e fulminee che hanno qualcosa di chapliniano.
La noirceur della rappresentazione céliniana riuscirebbe insopportabile se non sfociasse nel puro piacere delle parole e del testo: la mano del pittore, il suo stile, è sempre più importante del soggetto che rappresenta. Ossessionato dalla morte e talvolta affascinato da essa, Céline medico e scrittore lotta contro la morte tutta la vita (di qui la disperazione di non essere riuscito a salvare, tra gli altri, il piccolo Bébert) e in Féerie pour une autre fois si lascia scappare un grido categorico: “Sono del Partito della vita io!”. E difatti solo un uomo che aveva capito e amato e difeso a fondo la vita poteva scrivere il Voyage.
Nel cuore della notte, Céline cerca anche e soprattutto l’allegria che si può annidare nei gesti semplici di Bébert o negli occhi ridenti della vecchia Henrouille, che non credono alla morte e animano il tugurio in cui si è segregata da anni. Per non dire dei due “messaggeri d’amore” che incarnano le superstiti ragioni della dedizione disinteressata: il sergente Alcide che si segrega nel più remoto angolo d’Africa per mantenere agli studi una nipotina che non ha mai visto, l’uomo che ha in sé “tanta tenerezza da rifare un mondo”; e la prostituta Molly, vivente negazione dell’afasia morale degli americani, colei che fa vergognare Bardamu d’aver pensato che l’umanità è più turpe di quella che realmente è. Certo non s’è mai visto un presunto anarchico, sboccato e blasfemo, fornire i tanti lapsus di delicatezza, di pudore, addirittura di ipersensibilità, di cui sono piene le pagine del Voyage.
Appena uscito il romanzo, Céline ne prenderà abbastanza rapidamente le distanze, con una ambivalenza di sentimenti che il tempo finirà per accentuare. Nel giro di pochi mesi, scrivendo a Denoël, lo colloca in una sorta di “periodo romantico” da cui si sarebbe poi distaccato. E un anno dopo confessa a Evelyne Pollet che non lo ha riletto e non lo rileggerà mai. “Lo trovo noioso e piatto da far venire la nausea. È curioso che tutta quella chiacchiera finisca per sedurre il lettore. Credo che lui abbia voglia di fare lo stesso. Tutto lì”. Negli ultimi anni, poi, ribadisce che quello stile ritenuto rivoluzionario nel 1932 era soltanto un punto di partenza, e ci sarebbe voluto tempo e fatica per spingerlo sino ai confini delle proprie autentiche potenzialità. Arriva a trovare “classico” il Voyage: “Sacrifico ancora alla letteratura, alla “buona letteratura”. Uno ci trova ancora la frase ben tornita… A mio avviso, dal punto di vista tecnico, è un po’ attardato”. E con Poulet parla di stile “vecchiotto e troppo timido… Non posso digerirlo. È stomachevole”; “È ancora Paul Bourget per più della metà”. La sua irritazione si scatena contro quanti tentano di ridurlo a quel solo romanzo d’esordio, che trovano illeggibili i libri successivi. Ma è anche convinto che i suoi guai personali nascano da lì, come testimonia la prefazione scritta per la riedizione del 1949: “Il solo libro veramente cattivo tra tutti i miei libri è il Voyage”. Da buon paranoico, vede invidiosi e nemici dappertutto: i colleghi medici, l’ambiente letterario di Gallimard che non aveva capito fino in fondo il valore del libro, i comunisti, i surrealisti, Breton in testa, che non sarebbero mai riusciti a mettere in piedi un romanzo del genere. E poi sa che la “questione dello stile è imperdonabile”.
La fortuna critica
Il clamore che il romanzo suscita è immediato; e nel giro di poche settimane cade il velo precario dello pseudonimo. Quello che viene immediatamente avvertito è il valore di scandalo, di provocazione. Non si sa come classificare il libro, dove collocarlo. Accade spesso che sostenitori e detrattori si scontrino sullo stesso giornale, o all’interno dello stesso schieramento politico. A prima vista, sembra un libro di sinistra, ma solo gli anarchici, gli antimilitaristi e gli anticolonialisti sentono che Céline è uno di loro: prima ancora che un rivoltoso, un “refrattario”, come lo definiscono. I comunisti gli rimproverano una desolazione senza sbocco, una filosofia dell’abdicazione, il non saper vedere nel proletariato la forza nuova che raccatterà dalle mani della borghesia la fiaccola della civiltà.
Ma anche tra i comunisti le posizioni sono contrastanti. Sul “Monde” di Barbusse si parla di un libro nuovo, duro, forte, e malgrado le riserve del PCF, Aragon esprime a più riprese un consenso caloroso: “Bardamu è grande perché Céline è grande, non padroneggia il mondo che attraversa”. Se al primo congresso degli scrittori sovietici (agosto 1934) Gorkij rimprovera allo scrittore occidentale di lasciare la realtà per il nichilismo della disperazione, Trotskij capisce che il pessimismo di Céline ha in sé il proprio antidoto. E’ vero che in lui c’è più pessimismo che rivolta, un panorama dell’assurdo più che una messa in discussione delle condizioni sociali. Ma la vera rivoluzione di Céline per Trotskij è di tipo espressivo, il suo rivitalizzare tutta la ricchezza e la complessità di una grande cultura. Quanto a Paul Nizan, non accetta una ripulsa che coinvolge il proletariato, ma ammira l’ampiezza e la forza dell’opera, e conclude profeticamente: “la rivolta di Céline può arrivare dappertutto: tra noi, contro di noi, da nessuna parte”.
Molto diversi tra loro erano anche due fieri sostenitori di Céline: decisamente a sinistra Elie Faure, monarchico e nazionalista Léon Daudet, co-fondatore de “L’Action française”. Per Daudet, che appoggerà Céline a spada tratta, anche se senza fortuna, a un Goncourt che sembrava già vinto (venne invece assegnato a un certo Guy Mazeline per il tradimento di due giurati, i fratelli Rosny), solo un medico poteva essere capace di evocare a quel modo la miseria. Naturalmente, come i critici di sinistra, anche Daudet si augurava che Céline facesse una conversione costruttiva, ottimista: “Ci aspettiamo Ariel dopo Calibano, o meglio Ariel mescolato a Calibano”. Più vibrante l’omaggio di Elie Faure: “È il libro puro di un uomo puro. È quel che noi abbiamo avuto di più forte dopo Proust, più umano di Proust… Il Voyage è il prodotto più esatto e più pregnante della nostra epoca”, l’opera di un uomo che ha perduto “il rispetto di tutto quello che ha cessato di essere rispettabile… La ridefinizione di una morale passa attraverso la conoscenza dei bisogni veri, delle tare vere, delle qualità vere di ognuno”.
Perplessi i socialisti: il Voyage sarebbe la confessione cinica di un uomo senza coraggio né nobiltà, che vuole sporcare tutto e ci riesce. Ma il giovane professore di filosofia Claude Lévi-Strauss interviene su “L’étudiant socialiste” con grande finezza: anche se Céline non è dei nostri, c’è da essere fieri che un libro del genere sia nato vicino a noi: “È l’opera più notevole degli ultimi dieci anni, sia per il suo valore profondo che per la formula deliberatamente estremista e aggressiva che le conferisce un andamento di manifesto, e di manifesto liberatorio”. Lévi-Strauss rimane particolarmente colpito dall’episodio africano, di cui si può forse cogliere un’eco nel famoso incipit di Tristi Tropici: “Detesto i viaggi e gli esploratori”.
Decisamente avversa la destra, secondo la quale il Voyage riesce grigio per troppo colore, una adesione profonda viene a Céline, sorprendentemente, dai cattolici, i quali dimostrano di aver colto benissimo il nocciolo etico che sta al centro della sua affabulazione. “Céline è stato creato da Dio per dare scandalo”, scrive Bernanos in un famoso articolo sul “Figaro”, e parla della “verità di questo linguaggio inaudito, un vertice di naturale e artificiale”. Per lui il romanzo svela il vero volto della Miseria, e lo scandalo peggiore, quello che costa più lacrime e sangue al nostro tempo, è mascherare la propria miseria: “Mai la miseria è stata pressante, efficiente, mai sapientemente omicida e necessaria come nel nostro secolo, e mai è stata misconosciuta fino a questo punto”. René Schwob vede Dio nel romanzo “sotto la forma d’una aspirazione inconfessata all’Amore”, sotto la sofferenza (che si esala da ognuna delle righe) di sentirsi dotato d’un amore insufficiente. Quel che fa soffrire Céline, dice giustamente Schwob, è proprio “l’incapacità di arrivare a un sacrificio totale, l’incapacità di ogni uomo di sacrificarsi per un compagno di sventura”. Quanto a Mauriac, apprezza il libro perché esibisce il male allo stato puro.
Nelle recensioni, i richiami si sprecano. Per l’aspetto iconoclastico dell’opera si citano Rimbaud, Lautréamont, Jarry, Dada, i surrealisti; per l’asprezza satirica, Giovenale, il romanzo picaresco spagnolo, Swift; per la polemica sociale, lo Zola dell’Assommoir, Huysmans, Lady Chatterley, la cui traduzione era apparsa in Francia un anno prima. Tra gli scrittori del passato, Rabelais, ma anche Pascal, Rousseau, Dostoevskij; tra i moderni, Remarque, Barbusse, Hemingway, ma anche Proust, “uno strano Proust plebeo”.
Non manca poi a Céline l’apprezzamento dei colleghi. Malraux gli dedica una copia di La Condition humaine “con grande simpatia artistica”; Valéry parla di un “capolavoro del crimine”, Maurois (che Céline tanto vituperava) di un “nuovo arrivato di grande talento”; Lucien Descaves del “nostro Dostoevskij”. Se Giono è un po’ acido (troppo artificio, troppo partito preso: se Céline pensava davvero quel che aveva scritto, doveva suicidarsi), Simone de Beauvoir racconta che in quell’inverno 1932-33 lei e Sartre impararono a memoria interi brani del romanzo, e che Sartre ne aveva fatto un suo modello: “Céline ha forgiato uno strumento nuovo: una scrittura viva come la parola. Che sollievo, dopo le frasi marmoree di Gide, di Alain, di Valéry!”. Un’ammirazione che si volgerà nella durissima condanna dell’articolo Portrait d’un antisémite, pubblicato da Sartre su “Temps Modernes” nel dicembre 1945, in cui dichiara che Céline si era venduto ai nazisti.
Georges Bataille coglie ovviamente il centro del Voyage nella relazione che il protagonista del romanzo ha con la propria morte; Queneau ferma la sua attenzione sul linguaggio: “È il primo libro importante in cui per la prima volta lo stile orale marcia a tutta velocità… Qui abbiamo finalmente il francese moderno: così com’è, come lo si ritrova. Non è solo questione di lessico, ma anche di sintassi”. Ma la vera folgorazione è quella di Henry Miller: “Nessuno scrittore mi diede uno choc del genere”. Ricordando i libri che avevano segnato la sua vita, parlerà di “fratello Céline”. Miller aveva composto Tropico del cancro nel 1930, senza trovare editore. Dopo il Voyage lo riscrisse a fondo, e lo pubblicò poi nel 1934 a Parigi, mandandone copia a Céline.
Le traduzioni
Il Voyage esce in Italia nell’agosto 1933 per iniziativa di una singolare figura di scrittore ed editore, il vicentino Gian Dàuli, pseudonimo di Giuseppe Ugo Nalato (Vicenza 1884-Milano 1945). All’epoca Dàuli dirigeva per la casa editrice milanese Modernissima una collana di “Scrittori di tutto il mondo” da lui stesso ideata. Nel 1932 la Modernissima era passata all’editore Dall’Oglio, ma Dàuli mantenne la responsabilità delle scelte letterarie fino al novembre 1934, e vanno dunque ascritti a lui i meriti dei primi 34 titoli della collana (devo queste notizie e le altre che seguono alla cortesia di Michel David, Sulla prima traduzione italiana del “Voyage au bout de la nuit”, “Opera aperta” II, n. 8-9, Roma aprile 1967).
Dàuli era stato tra i pochissimi scrittori italiani a cogliere la novità del Voyage, se è vero che nel suo diario si dichiarava stupito “dal suo formidabile verismo intellettuale… E voglio notare anch’io che in questa arte realistica del Céline si sente spesso il metodo d’osservazione minuta e spesso sofisticata per essere troppo minuta, usata dal Proust nella sua miope ricerca del tempo perduto. E direi quasi di più! Céline deve aver letto e riletto alla sazietà le opere di Proust tanto che alcune immagini e alcune fini osservazioni le ha assimilate senza però riuscire a trasformarle del tutto, cosicché al microscopio alcune cellule céliniane si riconoscerebbero per proustiane”. Nell’ottobre 1945, due mesi prima della sua morte prematura, Dàuli espresse poi l’intenzione di tradurre Mort à crédit (impresa che riuscirà poi a Giorgio Caproni per Garzanti nel 1964) e Guignol’s Band, per il quale era giunto perfino a coniare un titolo italiano: Compagnia della teppa.
Per la traduzione, Dàuli si affidò a un singolare personaggio di letterato italiano che in quegli anni viveva a Parigi: Luigi Alessio. Nato nel 1902 a Caramagna, in provincia di Cuneo, da un’agiata famiglia borghese, a Fiume con D’Annunzio, Alessio aveva fondato nel 1923 la rivista Teatro, uno dei primi periodici di quel genere, affiancandole la casa editrice Rinascimento, che pubblicava romanzi, novelle, opere teatrali. Passato in Francia nel 1927, Alessio condusse a Montparnasse un’esistenza di bohèmien in mezzo a emigrati e disoccupati d’ogni paese e fede ideologica, che avrebbe poi rappresentato nel romanzo Anime di esiliati (Milano, 1946). Dopo aver tentato senza fortuna un’attività editoriale nuova per quei tempi (stampare direttamente per le bancarelle in grosse tirature a basso prezzo), Alessio rientrò in Italia nel 1939, vivendo tra Torino, Roma, la Riviera ligure e il paese natale, impegnato in una frenetica attività giornalistica, radiofonica e teatrale, che comprendeva collaborazioni anonime a feuilletons e traduzioni per rotocalchi, ma anche una produzione narrativa e poetica di migliaia di pagine, che non riuscirono a trovare la strada della pubblicazione. Morì nel 1962.
Nella presente traduzione è stato scelto, per la parte lessicale, un “parlato” basso d’area sostanzialmente padana, con qualche apporto centro-meridionale di parole entrate nel comune uso quotidiano e scherzoso, come “sfizioso” o “cazziatone”. Si è poi cercato di rispettare sostanzialmente, con qualche rara eccezione, i ritmi interni della “petite musique” céliniana, le slogature sintattiche, le dislocazioni e inversioni di parole nel percorso delle frasi, l’ossessivo ricorrere di pronomi e di avverbi. Un altro problema analogo, e di non poco conto, era quello se accettare in italiano lo scardinamento quasi sistematico della consecutio temporum che Céline adotta soprattutto con i congiuntivi, proprio per ricreare nel flusso di un discorso tutto al passato le emozioni, i soprassalti, le urgenze del presente. È stata scelta una via di mezzo, caso per caso, perché in alcune occasioni un calco radicale avrebbe provocato un disagio sin troppo esibito, e quindi fastidioso, cui non avrebbe corrisposto sulla pagina un reale guadagno espressivo. D’altra parte, come ha osservato Agostino Lombardo in margine a un recente convegno torinese sulle traduzioni shakespeariane, la fedeltà del traduttore deve anche essere fedeltà “alla propria lingua, che ha una sua autonomia, una sua tradizione letteraria, che non si può dimenticare né tradire”. Sono questi alcuni dei rischi che il traduttore deve e vuole correre, nella sua continua ricerca di un compromesso, nella sua “nostalgia di una lingua inafferrabile, che egli può solo sfiorare” (cito ancora Lombardo). Tra i compiti istituzionali di una traduzione, c’è anche quello di invogliare il lettore a misurarsi con il testo originale. Un invito che l’intraducibile jazz céliniano rende ancora più pressante.
Torino, ottobre 1992