L’assurdo come paradigma esistenziale nel pensiero di Camus

Camus esplora l'assurdo e il senso della vita, ma limita la riflessione all'ego e alla quantità, ignorando una visione trascendente e qualitativa dell'esistenza.

di Alberto Piroddi

Albert Camus, nella sua riflessione ne Il mito di Sisifo (1942), inaugura un percorso filosofico che intende confrontarsi con la domanda radicale sul senso della vita. Il suo famoso incipit, «Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta», sancisce la centralità del problema del suicidio come interrogativo primario, da cui dipenderebbero tutte le altre riflessioni. Tale impostazione, tuttavia, può essere sottoposta a una serie di critiche che ne evidenziano limiti e contraddizioni. Tra queste, spicca la questione del rapporto tra senso e individualità, che Camus affronta senza trascendere la dimensione dell’ego e senza riconoscere il ruolo fondativo di una prospettiva più ampia e trascendente.

La necessità di conferire un senso alla propria esistenza è certamente legittima, ma, come già osservato, si tratta di un bisogno che nasce dall’“io”, un’entità che Camus assume come dato di fatto e che non sottopone mai a un’analisi critica. In questo senso, il filosofo francese appare vincolato a una prospettiva tipicamente moderna, in cui il soggetto è il centro dell’universo e il punto di partenza di ogni riflessione. Eppure, questa impostazione contrasta con l’antico motto delfico-socratico «Conosci te stesso e conoscerai l’universo», che suggerisce una via diversa: l’esplorazione dell’“io” non come entità autonoma, ma come manifestazione di una realtà più ampia. Ignorare questa prospettiva conduce Camus a porre il problema del suicidio come prioritario rispetto a quello dell’autoconoscenza, risultando in una riflessione che appare parziale e, per certi versi, insoddisfacente.

Questa parzialità emerge chiaramente nella conclusione del suo ragionamento, dove Camus rigetta il suicidio e attribuisce valore all’esistenza sulla base della quantità delle esperienze vissute. Tale posizione è stata oggetto di critiche significative, tra cui quella di Corrado Rosso nella sua prefazione a Il mito di Sisifo. Rosso osserva che l’“uomo assurdo” di Camus adotta un atteggiamento cinico, riducendo il senso dell’esistenza alla mera quantità:

«Nel caso del Mito di Sisifo il termine di cinismo presenta una certa utilità in quanto la realtà etica dell’uomo assurdo si articola in atteggiamenti che possono dirsi “cinici”. In primo luogo bisogna denunciare un cinismo teoretico, derivante dal fatto che – come dice Camus – l’uomo assurdo non conosce giudizi di valore ma soltanto di fatto. Poiché la vita non ha per lui alcun senso, non esistono valori da opporre a disvalori oppure da anteporsi ad altri. Assiologia e assiometria spariscono. Non esiste più una scala di valori, né l’uomo conosce più esperienze qualificanti e insostituibili. Non ci sono più vite uniche […]. Al preziosismo estremo della qualità succede allora l’imperio brutale della quantità. La scala di valori non ha più senso, o, almeno, ha un senso soltanto quantitativo. Realizza cioè i valori più alti solo chi ha la possibilità di aumentare al massimo le proprie esperienze e ciò in senso meramente quantitativo: cioè bisogna vivere a lungo. La longevità assurge dunque a valore insostituibile perché soltanto una vita lunga può rendere possibile una messe straripante di esperienze. Una morte prematura è irreparabile […]. L’etica dell’uomo assurdo è un’etica della quantità – Camus lo dice ripetutamente. La quantità può convertirsi in qualità? […]. L’impossibilità di tale conversione segna crudelmente il limite entro cui è ridotto l’uomo assurdo, costretto sempre a moltiplicare ciò che non sa unificare, a numerare ciò che non sa trascendere […]. A questo punto sarà perfettamente chiaro che questo cinismo non può restare soltanto in una fase teoretica. Il mondo dell’uomo assurdo è caratterizzato dall’equivalenza o, il che è lo stesso, dall’inesistenza delle qualità […]: alla fine la parola decisiva la dice l’indifferenza, l’indifferenza del cinico nei riguardi di ogni valore» (Corrado Rosso; Prefazione a: Albert Camus; Il mito di Sisifo, pp. XVI-XVII).

L’analisi di Rosso mette in luce un aspetto cruciale: l’etica della quantità non è soltanto una risposta insufficiente al problema del senso della vita, ma è anche un sintomo di una crisi più profonda, quella dell’incapacità di riconoscere e valorizzare le qualità intrinseche dell’esistenza. L’uomo assurdo, costretto a “moltiplicare ciò che non sa unificare”, rappresenta una figura tragica, intrappolata in un’eternità priva di significato.

Questo approccio porta inevitabilmente a un ripensamento della stessa nozione di senso, che in Camus appare vincolata a una logica della contingenza e dell’immanenza. Il valore della vita non è più un dato intrinseco, ma diventa una costruzione artificiale, basata su criteri che riflettono l’incapacità dell’uomo di accedere a una visione più ampia e unitaria della realtà. La quantità delle esperienze non può trasformarsi in qualità, come sottolinea Rosso, perché manca quel principio unificante che permetterebbe di conferire senso a una molteplicità frammentata.

In questo contesto, l’invito socratico a conoscere se stessi assume una rilevanza fondamentale. Non si tratta di una conoscenza fine a se stessa, ma di un percorso che apre l’io alla scoperta di una dimensione più ampia, capace di trascendere i limiti dell’esistenza individuale. Solo attraverso questa apertura è possibile superare la crisi dell’assurdo e riconciliare qualità e quantità, senso e vita.

La filosofia di Camus, pur nei suoi limiti, rappresenta un tentativo significativo di affrontare il disagio esistenziale dell’uomo moderno. Tuttavia, la sua insistenza sulla quantità delle esperienze come unico valore possibile evidenzia una visione riduttiva e, in ultima analisi, insoddisfacente. Per superare i limiti dell’“uomo assurdo”, sarebbe necessario non solo un ritorno al principio socratico, ma anche una riflessione più ampia sulle condizioni di possibilità del senso, che non si esauriscano nella contingenza dell’io, ma che siano radicate in una visione più ampia e universale dell’esistenza. Questo richiederebbe una revisione radicale del paradigma moderno, che metta in discussione non solo i presupposti dell’individualismo, ma anche le basi stesse della razionalità occidentale, aprendo la strada a nuove possibilità di pensiero e di vita.

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