La stanza accanto (2024)

“La stanza accanto” di Pedro Almodóvar: un’almodrammatica disconnessione | Recensione

Almodóvar perde la sua magia in The Room Next Door: dialoghi forzati, estetica vuota, e Moore e Swinton intrappolate in un melodramma senza vita.

di Alberto Piroddi

C’è qualcosa di profondamente surreale nel vedere Pedro Almodóvar scivolare via dalle sue radici e tentare un’impresa così baldanzosa come realizzare un film in inglese con due delle attrici più cerebrali del cinema contemporaneo, Julianne Moore e Tilda Swinton. È un po’ come vedere un torero che abbandona la plaza e prova a ballare il valzer a Vienna. Non è solo una questione di lingua – anche se la lingua qui è un macigno che pesa su ogni scena – ma di sensibilità, di ritmo, di quella teatralità colorata e sfrontata che Almodóvar sapeva trasformare in realtà emotiva. In La stanza accanto [orig. The Room Next Door] tutto questo si diluisce, come una sangria annacquata in un bicchiere di cristallo troppo raffinato per contenerla.

Il problema principale è l’eccesso di parole, e non parole vive e pulsanti come Almodóvar sa usare quando scrive in spagnolo, ma frasi che sembrano estratte con la pinzetta da un romanzo. La sceneggiatura, adattata dal libro di Sigrid Nunez, What Are You Going Through, ha il peso soffocante della letteratura che non riesce a liberarsi sulla pellicola. Moore e Swinton si dibattono con dialoghi che suonano tanto impacciati quanto pomposi, e per lunghi tratti il film assomiglia più a una lettura teatrale che a un’opera cinematografica. La capacità di Almodóvar di lasciar fluire il non detto, di esplorare i silenzi, i gesti e i piccoli momenti che rivelano l’anima dei suoi personaggi, sembra svanita. Qui tutto è spiegato, tutto è verbalizzato, e il risultato è una narrazione ingessata che toglie fiato al film.

È una scelta che si scontra violentemente con l’essenza delle protagoniste. Tilda Swinton è una maestra di sottrazione, un’attrice che può esprimere un’intera tragedia con uno sguardo o un movimento del viso. Ma qui le viene chiesto di vomitare pagine e pagine di dialogo, e il risultato è una performance che pare sterilizzata, trattenuta, come se stesse recitando con il freno a mano tirato. La stessa Julianne Moore, solitamente in grado di rendere umana anche la più strampalata delle situazioni, appare a disagio, intrappolata in una sceneggiatura che le offre pochissimo spazio per respirare e trovare verità nei momenti più intimi.

Eppure, visivamente, il film è un catalogo di bellezza almodóvariana: i colori saturi, i rossi e i verdi che si scontrano con armonia, gli interni che sembrano quadri di Hopper reinterpretati con una vena più calda e sensuale. Ma a differenza dei suoi film migliori, qui l’estetica è fine a se stessa. In Donne sull’orlo di una crisi di nervi o Parla con lei, l’uso del colore non è solo decorativo, è parte del linguaggio narrativo, è un veicolo emotivo. In La stanza accanto, invece, tutto sembra immobile, come una serie di cartoline ben fotografate ma prive di vita. Persino i fondali digitali di New York sono talmente posticci da sembrare ritagliati da una scenografia teatrale. Dove sono finite quelle esplosioni visive che ti travolgono e ti immergono nel mondo di Almodóvar senza bisogno di spiegazioni?

La trama, che dovrebbe essere una riflessione intima e dolorosa sulla morte e sulla scelta dell’eutanasia, si muove su binari prevedibili e spesso tediosi. Ingrid (Julianne Moore), una scrittrice di autofiction, e Martha (Tilda Swinton), una ex reporter di guerra malata terminale, si ritrovano dopo anni di distanza in una situazione estrema: Martha chiede a Ingrid di accompagnarla nel suicidio assistito. C’è del potenziale qui, un potenziale che Almodóvar avrebbe saputo trasformare in un’esplosione di emozioni contrastanti. Ma quello che otteniamo è una serie di conversazioni appesantite da un senso di inevitabilità e di fatalismo quasi meccanico.

I temi dell’amicizia ritrovata e della scelta di una morte dignitosa vengono affrontati con una freddezza quasi accademica, e i momenti che dovrebbero toccare corde profonde si perdono in un mare di parole. La relazione tra le due donne, che dovrebbe essere il cuore pulsante del film, non riesce mai a convincere del tutto. È come se l’intimità fosse solo suggerita, mai veramente vissuta. Anche John Turturro, che interpreta Damian, un ex compagno di entrambe, appare come una nota a piè di pagina in una storia che non sa cosa fare di lui.

La sensazione più triste è quella di assistere a un regista che si è perso, che ha tradito se stesso nel tentativo di allargare i propri confini. Almodóvar è sempre stato un narratore di storie radicate in una Spagna immaginaria e viscerale, un luogo dove il melodramma incontra l’assurdo e il dolore è sempre intriso di una gioia irriverente. Qui, in questo territorio anglofono, quella gioia è svanita. Rimane solo un guscio vuoto, un esercizio di stile che manca di anima e spontaneità.

Almodóvar ha cercato di costruire una stanza accanto alla sua casa cinematografica, ma quella stanza è rimasta vuota. Forse è ora di tornare a casa e riscoprire ciò che rende il suo cinema così unico: la capacità di mescolare il sublime con il ridicolo, il dolore con l’estasi, senza mai scivolare nel banale.

Torna in alto