Paolo Sorrentino: “Io come Parthenope, il tempo mi addolora” | Intervista

Il regista premio Oscar spiega quanto si senta profondamente legato alla protagonista e come questo film rappresenti anche il suo personale "viaggio nella città"

Parthenope, al cinema dal 24 ottobre, è il nuovo film di Paolo Sorrentino che racconta il lungo viaggio della vita della protagonista, Parthenope, dal 1950, anno della sua nascita, fino ai giorni nostri. Ospite nella redazione di Fanpage.it, il regista premio Oscar ha spiegato quanto si senta profondamente legato alla protagonista e come questo film rappresenti anche il suo personale “viaggio nella città”.

“Rispetto allo scorrere del tempo, mi sento più vicino alle donne, che lo vivono con maggior dolore e profondità, rispetto agli uomini, che tendono a risolverlo con una tinta ai capelli e una macchina potente,” ha commentato Sorrentino.

Essere chiamato “Maestro” lo trova “del tutto incongruo” perché non pensa di avere nulla da insegnare, nonostante arene gremite di giovani cinefili e aspiranti cineasti desiderosi di carpire i segreti della sua arte. I suoi film hanno una “doppia vita” sui social, e lo stesso Sorrentino è diventato un esilarante meme a Cannes. “Ero solo felice di essere tornato lì,” ha spiegato, raccontando la verità di quel momento.

Quanto alla mancata distribuzione in TV e sulle piattaforme del film Loro, dedicato a Silvio Berlusconi, ha ammesso: “Beh sì, l’hanno censurato, non l’hanno fatto vedere”.

Intervista di Eleonora D’Amore

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Parliamo di Parthenope: nel presentare il film tu parli di epicità della vita. Mi spieghi perché?

Il viaggio è considerato epico. Ora, nella tradizione letteraria dell’epica, il viaggio è proprio un viaggio fisico, ed è un viaggio soprattutto maschile, quello di Ulisse. Poi c’è una più recente idea letteraria di epica che prevede che il viaggio non sia necessariamente fisico, ma può essere mentale. Quindi mi è sembrato che quest’idea fosse perfettamente aderente a una città come Napoli, dove puoi viaggiare stando, in qualche modo, fermo, cioè girovagando per la città.

E quindi quella che Joyce chiamava la ‘selvaggia vitalità dell’epica’, cioè questa specie di straripante corsa verso la libertà e verso anche i sentimenti, mi sembrava bellissimo che si potesse far vivere a una donna in una città come Napoli, e quindi addirittura arrivare a sospettare un meccanismo di identificazione fra questa donna e la città.

In più, la dimensione epica è data dalla lunghezza e dall’ampiezza del viaggio, quindi dalla durata della vita, che di per sé è epica. Questa cosa ancor più mi sembrava pertinente e attribuibile a una donna, perché la dimensione dello scorrere del tempo è qualcosa che, nella mia esperienza, le donne vivono con maggiore consapevolezza e con maggiore anche dolore di quanto lo facciano gli uomini, che tendono a sorvolare un po’ superficialmente su questa dimensione dello scorrere del tempo. Cioè molti uomini la risolvono con una tintura di capelli e con l’acquisto di una macchina potente, mentre le donne in qualche modo la vivono in maniera più approfondita. Dato che pure io la vivo in maniera più approfondita, questa cosa infatti non mi tingo i capelli e non mi sono comprato un’automobile potente, quando ne ho parlato in maniera che mi sembrava soddisfacente, mi è capitato di parlarne più con le donne che non con gli uomini.

Posso chiederti qual è stato il tuo viaggio da fermo in questa città?

Il mio viaggio da fermo nella città, in realtà, è stato un viaggio un po’ di cui mi pento, perché non è stato un vero viaggio. Perché io, provenendo da una realtà che poi ho raccontato nell’altro film, un po’ piccolo-borghese, ho sempre avuto, finché sono stato a Napoli, un atteggiamento un po’… un po’ timoroso nei confronti della città, un po’ pauroso, come se non volessi viverla fino in fondo.

E questa è la ragione per cui poi, invece, adesso da adulto ho pensato: ‘Caspita, adesso posso farlo il viaggio dentro la città!’ E quindi il film è anche il mio viaggio dentro la città.

Hai detto che Parthenope non poteva che nascere qui, perché Napoli è una città libera e non giudicante. In che modo lo è?

Napoli è una città, secondo me, che tende a non avere, tende a non esprimere giudizi morali, con tutte le conseguenze anche negative del caso. Perché dove non c’è un’etica ben definita si rivelano poi un sacco di problemi nella convivenza civile: l’approssimazione, la criminalità, la violenza… è tutto figlio di un’assenza di morale. Però c’ha anche i suoi risvolti positivi, cioè crescere qui ti consente di crescere in qualche maniera libero.

Hai parlato, per quanto riguarda questo film, di aver attraversato dei sentimenti inattuali, tra i quali anche l’erotismo e la seduzione. Per raccontare l’effetto che fa Parthenope dal punto di vista sensuale, ti sei anche avvalso di Gary Oldman nei panni di John Cheever. Tra tanti, perché proprio John Cheever?

John Cheever, perché è uno scrittore che amo, per rafforzare l’idea proprio di espressione di libertà e di tuffarsi nella spensieratezza e nella vertigine di meraviglia che può essere la gioventù.

Mi sembrava che il personaggio di John Cheever, che invece era all’epoca adulto e leggendo i suoi diari, invece era imprigionato dentro delle costrizioni di natura culturale e sociale per cui non si sentiva di vivere liberamente, per esempio, il suo orientamento sessuale. Questo contrasto mi sembrava che potesse far emergere molto più prepotente la voglia di libertà e di spensieratezza della protagonista Parthenope.

E, almeno per quello che ho percepito io, Cheever a un certo punto diventa un anello di congiunzione per un altro sentimento, che è quello del male di vivere in gioventù, che appartiene al fratello di Parthenope, Raimondo, Daniele Rienzo, è anche legato al tema del suicidio. A un certo punto, lo scrittore e Raimondo mi sembrano speculari, appartenersi molto di più che con Parthenope stessa.

Sì, è vero, sono totalmente speculari, c’è una scena in cui si guardano, in cui Raimondo vede in prospettiva quella che sarà la sua vita, cioè una vita come quella di Cheever. Perché anche Raimondo sente l’impossibilità di esprimere i propri sentimenti per la sorella, forse di esprimere un orientamento omosessuale, quindi sente, come dire, in arrivo la prigionia della vita.

Tra le tante cose, è un film che punta molto all’emozione. Tu, ironicamente, hai detto: ‘Dovreste cercare di piangere. Se non piangete è un problema vostro, insomma’. Posso chiederti, prendendo distanza da ciò che credi tu, a mano, cosa ti emoziona, ti fa commuovere?

La bellezza dei gesti sportivi, per esempio, una famosa foto di Maradona che ha il pallone tra i piedi, e ci sono otto giocatori del Belgio che cercano di levarglielo… la trovo commovente. Cioè, questa specie di duello impari di otto persone spaventate e di uno solo che non è spaventato… mi commuove.

Stefania Sandrelli e Celeste Dalla Porta sono due attrici, due età, due percorsi di vita… Come si gestiscono due professionalità così diverse e complementari sul set?

Sia Celeste Dalla Porta che Stefania Sandrelli… l’approccio mio è stato abbastanza simile perché sono tutte e due delle attrici che… sono molti gli attori e le attrici che vogliono essere semplicemente voluti bene e non giudicati, perché hanno paura di quello che devono fare. Poi ci sono degli altri attori ed altre attrici che invece non vedono l’ora di dimostrarti quello che sanno fare. Sono quelli più agonistici.

Silvio Orlando invece è il professore dell’università che ci guida in questo viaggio alla scoperta dell’antropologia, che poi acquisisce diverse chiavi di lettura. La sua lezione di vita è quella sulla capacità di vedere, che sopraggiunge a un certo momento della vita, dopo che non si è più impegnati a viverla soltanto. Io ti chiedo: quando accade questo passaggio nella vita di ogni individuo e in te quando accadde cosa generò?

Nel pensare da adulti, quella che certi appuntamenti con la vertigine del provare si diradano e quindi prende il sopravvento una certa calma, una certa tranquillità, dove vedi e osservi quelli che provano le cose più che provarle tu. Io, professionalmente, da quando, dopo La grande bellezza che ha avuto grandi risultati, ho cominciato a provare meno sensazioni vertiginose rispetto al lavoro di quante ne provassi quando avevo 30 anni e cominciavo a fare questo lavoro.

Questo film è impossibile non raccontarlo o consigliarlo senza avere intorno le note di Era già tutto previsto, la canzone di Cocciante. Cioè, la musica completa ancora una volta tutto quello che è l’immaginario di questo film e lo accompagna. Perché questa canzone? E soprattutto, come arrivi alla sublimazione in musica, quindi alla scelta delle musiche per i tuoi film?

Forse, dato che sono canzoni che ascolto mentre scrivo il film, il film si veste di quell’emozione data dalla canzone. Questo è quello che accade, secondo me.

Per La grande bellezza ascoltavi A far l’amore comincia tu remixata?

Continuamente, sì, sempre.

A proposito di musiche e di scossoni emotivi, c’è la scena che ormai è un meme vivente, di te che entri in sala a Cannes sulle note di Life is Life. E tu, con questa apparente sicumera – o reale sicumera – che entri in sala e fai questo ingresso quasi trionfale. È diventato il meme di accompagnamento di tutti gli insicuri d’Italia. Ci racconti la verità di quel momento?

Io ero solo contento di tornare a Cannes dopo tanti anni. Ero solo contento, sono entrato contento. Dato che raramente, forse, si vede me contento, hanno pensato: “Oh, guarda che roba!” Ma ero anche molto impaurito. Forse ha prevalso il fatto che fossi contento, semplicemente. Poi c’erano là, nelle prime file, delle persone che conosco, amici. Quindi ero contento di vederli lì, che erano venuti per me.

Ti parlo appunto di questo perché tu sei molto amato anche dalla platea di giovani cinefili, aspiranti cineasti. Io vedo chiaramente sempre arene gremite di ragazzi che ti seguono come modello e cercano di carpire anche i segreti di questo lavoro. Ti chiedo: qual è la tua comunicazione con i ragazzi?

La mia relazione coi giovani, fortunamente, perché è molto bello avere un pubblico giovane, è qualcosa che ti mette una grande eccitazione, è felice, ma non è che io faccia chissà che per ingraziarmi i giovani. Forse ho un ricordo molto vivo di quello che è stato il dolore della gioventù. Cioè, pensano che io sia uno di loro in questo senso qua, che io penso di saper raccontare abbastanza bene che cosa è stato essere addolorati durante la gioventù.

Quindi si attiva una forma di empatia tra di voi.

Penso di sì.

E la loro ammirazione, quindi anche questa aspirazione anche alla tua arte, come la vivi?

Bene, sono felice.

Li guidi? Ti senti una guida sotto questo punto di vista?

Io? No, non mi sento una guida di niente, non riesco a guidare me stesso, figurati i ragazzi di vent’anni! Però sono contento che ci sia.

Ultimamente, in una delle ultime interviste, hai detto di essere molto clemente con la tua filmografia, ma da Fazio hai detto di aver fatto anche dei film politici che poi si sono rivelati degli azzardi. Mi è venuto in mente subito il caso di Loro, sulla vita di Silvio Berlusconi, e anche sul modo in cui al momento si trova un po’ bloccato in questo limbo, questa mancata distribuzione. Viene invece ripreso sui social: fortunatamente su TikTok si è generato un trend enorme con frame del film, eccetera, eccetera. Quindi è tornato in auge, grazie a una distribuzione capillare che non appartiene alla sua legittima. Quando hai detto che alcuni film politici si sono rivelati degli azzardi, ti riferivi per caso anche a Loro e a tutto questo nodo che si è venuto a generare intorno al film?

Nella mia esperienza, che ne ho fatti due, i film che hanno a che fare con i politici sono rischiosi, perché sono film che – dato che i politici capiscono perfettamente che il cinema è un’arte popolare, che può avere improvvisamente una grande diffusione, e può avere anche una diffusione all’estero – i politici sono più terrorizzati dell’immagine che loro danno all’estero rispetto a quella che danno nel proprio Paese. Nel proprio Paese pensano un po’ di poterla manipolare, ma all’estero no: non riesci a far fesso un francese. Se passa il messaggio che tu sei un ladro in Francia, per i francesi sei un ladro, punto.

Quindi, fatta questa premessa, i film che uno fa sui politici destano grande attenzione, allarme e preoccupazione dei politici stessi e di tutto il mondo che gira intorno ai politici. E questo può creare dei fastidi, delle pressioni.

Ma tu hai avvertito un approccio censorio a questo film o no?

Da parte di chi?

Della distribuzione, adesso, televisiva, piattaforma…

Beh, censorio sì: non l’hanno distribuito sulle piattaforme o in televisione. Quindi, non so se sia censura… ma sì, l’hanno censurato, non l’hanno fatto vedere.

Sia in É stata la mano di Dio che in Parthenope, tu indaghi molto il concetto di libertà, pur da angolazioni differenti. Oggi, rispetto al tuo primo film, L’uomo in più, senti di aver acquisito abbastanza libertà per fare i film che vuoi, o soffri ancora di una certa ansia da prestazione quando ti rimetti alla scrittura per una sceneggiatura nuova?

Non ho più l’ansia da prestazione, francamente no. Questa consapevolezza di non dover necessariamente misurarmi con l’ansia da prestazione l’ho acquisita dopo tanti film. Però è anche vero che ogni lavoro che fai, dato che poi ti occuperà uno o due anni della tua vita, che non sono pochi, ti fa porre delle domande, dei dubbi, delle ansie, ma non in termini di prestazione. Di questo mi sono liberato. Cioè, se dovevo dimostrare qualcosa, l’ho dimostrato. Adesso non mi resta altro che fare quello che mi diverte fare.

In chiusura, visto il considerevole numero di volte che te lo senti dire sicuramente, vorrei chiederti: come ti misuri con l’appellativo di “maestro”?

Lo trovo del tutto incongruo. Diciamo che è una specie di abitudine che si ha nei confronti di quelli del cinema che sono venuti prima, che erano veri maestri, i Fellini, che ne so… gli Antonioni. Alle volte lo dico: ‘Lasciate stare’, però poi sembra pure… No, insomma, non è che me ne importi molto. Non ci credo poi, non ci credo, non penso di essere maestro. ‘Maestro’ presuppone che c’è da insegnare qualcosa, e penso di non avere nulla da insegnare.

D’altronde, io sono autodidatta nel cinema. Studiavo economia, non mi sono laureato. Quindi, tutto sono, cioè proprio non ho nessun tipo di percorso di studi che preveda che io poi diventi maestro di qualcosa.

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