Parthenope (2024)

Paolo Sorrentino con “Parthenope” racconta la Napoli dei miti e delle contraddizioni | Recensione

In Parthenope, Sorrentino ritrae una Napoli antica e decadente, incarnata dalla protagonista come simbolo mitologico della città, tra bellezza e malinconia.

di Alberto Piroddi

In Parthenope, Paolo Sorrentino dipinge Napoli come una meraviglia antica e decadente, e la modella sulla bellezza e sulla misteriosa distanza della sua protagonista. Il titolo stesso, “Parthenope,” è emblematico: Parthenope era una delle sirene della mitologia greca*, simbolo del legame tra Napoli e il mare, tra bellezza e inesorabile malinconia, il cui canto, proprio come quello della protagonista, seduce e intrappola. La figura della sirena, che non può evitare di attrarre a sé e allo stesso tempo spinge chi le si avvicina verso un incolmabile vuoto, è evocata qui come metafora della città e di Parthenope stessa.

La storia ruota attorno a Parthenope, una figura che non è solo una donna ma un simbolo della città stessa, impregnata di mitologia greca, bellezza e sofferenza. Interpretata da Celeste Dalla Porta, Parthenope rappresenta l’essenza della giovinezza e della bellezza che Sorrentino tenta di esplorare, talvolta sfiorando il limite tra venerazione e ossessione.

Il film si apre con l’immagine mozzafiato di una carrozza dorata trasportata attraverso la baia di Napoli, un dono sontuoso per una neonata destinata a essere venerata e bramata. Questa sequenza è accompagnata da un coro femminile che richiama antichi canti greci, sottolineando la dimensione mitologica e senza tempo di Napoli e della sua “sirena.” Già in questa scena iniziale, Sorrentino stabilisce il tono della pellicola: un viaggio onirico, sospeso tra realtà e fantasia, che utilizza l’immagine di Napoli come un quadro meravigliosamente statico, congelato nel tempo e nello spazio.

Bellezza come fuga e ossessione

Sorrentino sfida lo spettatore a confrontarsi con l’idea della bellezza, presentando Parthenope come un’icona più che come un personaggio reale. La sua bellezza è la sua forza e la sua condanna, una caratteristica che attira a sé gli uomini e allo stesso tempo la allontana dal mondo reale. Ma è davvero solo questo che Parthenope rappresenta? O forse Sorrentino suggerisce che il vuoto che circonda la sua esistenza è il risultato di una società che, come la città di Napoli, idolatra l’estetica ma ignora ciò che c’è oltre la superficie?

In una delle sequenze più emblematiche, Parthenope, giovane e irresistibile, emerge dalle acque del mare in bikini, fumando una sigaretta. Con questa immagine, Sorrentino richiama le atmosfere dei film di Fellini, infondendo alla sua protagonista un fascino che è al tempo stesso ultraterreno e tragicamente umano. La colonna sonora qui evoca i suoni della musica lounge anni ’60, che avvolge la scena in un’atmosfera di nostalgia e seduzione. Gli uomini che la circondano sono irrimediabilmente attratti da lei, ma, in modo emblematico, Parthenope sembra non essere mai pienamente presente nelle loro vite, come una sirena che attira con il suo canto – simbolicamente richiamato dalle sonorità leggere e seducenti – per poi sparire.

Napoli e il ritratto di una città in decadenza

Se Parthenope è la personificazione della città, allora la storia della sua vita rispecchia il destino di Napoli, una città che è stata la culla di miti e tragedie. Napoli, come Parthenope, è bella e inaccessibile, una città che sembra attrarre i suoi abitanti solo per respingerli di nuovo. Sorrentino celebra e critica la sua città natale con scene che sono allo stesso tempo commoventi e cariche di amarezza. Il regista trasforma i vicoli e i palazzi di Napoli in un labirinto di memorie perdute, dove il tempo sembra sospeso, proprio come la bellezza eterna della protagonista.

Nel corso del film, Sorrentino ci porta attraverso diversi decenni della vita di Parthenope, mostrando come la sua esistenza, come quella della città, sia costellata di passioni, tragedie e misteri. Ogni scena, ogni personaggio è un frammento di una storia più grande, un racconto di una Napoli che ha visto tutto e nulla, una città che vive sospesa tra il sacro e il profano. Questo dualismo emerge chiaramente nei momenti di maggiore tensione narrativa, come il tragico suicidio del fratello di Parthenope, Raimondo, che funge da spartiacque per la sua vita e simbolicamente rappresenta la decadenza di Napoli, una città che ha perso i suoi figli e il suo splendore.

Un viaggio nel tempo e nell’immaginario

La narrazione di Parthenope non segue una trama lineare, e questo è, allo stesso tempo, il suo pregio e il suo limite. Sorrentino costruisce il film come una serie di vignette, ciascuna con il proprio significato simbolico, ma talvolta sembra che la bellezza visiva sovrasti la coerenza narrativa. Lo spettatore è invitato a interpretare i frammenti di vita della protagonista, a cercare un senso nel suo vagare tra le strade di Napoli e nei suoi incontri con una galleria di personaggi stravaganti e spesso inquietanti. Gary Oldman compare in una breve ma incisiva interpretazione di John Cheever, uno scrittore disilluso che, come Parthenope, sembra cercare qualcosa che non riesce mai a trovare.

In uno dei momenti più intensi del film, Cheever, ormai perso tra alcool e rimpianti, le domanda: “Sei consapevole del caos che la tua bellezza provoca?”. È una domanda che, in modo implicito, Sorrentino pone allo spettatore, chiedendoci di riflettere sul significato della bellezza e sul peso delle aspettative che la società impone su chi ne è portatore.

Una riflessione sul tempo e sul destino

Con il passare degli anni, Parthenope evolve, ma il suo cambiamento è più interiore che esteriore. Sorrentino ci mostra una donna che, come Napoli, è vittima e carnefice del proprio fascino. Ogni uomo che incontra è una variazione sul tema dell’amore non corrisposto, dell’adorazione senza reciprocità. Eppure, Parthenope è più di una semplice musa passiva: nel corso del film, scopriamo che la sua vera ambizione è intellettuale. La vediamo frequentare l’università, studiare antropologia e scontrarsi con il professore Devoto Marotta, interpretato magistralmente da Silvio Orlando, l’unico personaggio maschile che riesce a interagire con lei senza farsi intrappolare dalla sua bellezza.

Questo incontro rappresenta una svolta nel film, un momento in cui Parthenope inizia a prendere consapevolezza di sé e del suo ruolo nel mondo. Eppure, anche qui, Sorrentino lascia volutamente aperti molti interrogativi. La vera natura della protagonista rimane sfuggente, come un riflesso che appare e scompare tra le onde del mare.

Mentre Parthenope procede, la narrazione si fa più frammentata, e Sorrentino abbandona ogni pretesa di una struttura convenzionale per seguire invece il flusso emotivo della protagonista. Parthenope è costantemente sospesa tra una ricerca di senso e una vita in cui il significato sembra eluderla; ogni tappa della sua esistenza si affaccia su un nuovo incontro o una nuova sfida che, anziché arricchirla, sembra lasciarla più vuota e distante. È come se la sua bellezza, anziché essere una risorsa, fosse una condanna che la intrappola in un ruolo che non sente suo.

L’incontro con il mondo dello spettacolo: un gioco di apparenze

La bellezza di Parthenope diventa la chiave che le apre le porte verso il mondo del cinema, ma anche qui il suo fascino non riesce a integrarsi completamente. La sua breve esperienza come aspirante attrice si rivela un incontro con la superficialità di un’industria che, paradossalmente, le offre un riflesso speculare del suo stesso vuoto. L’incontro con la diva Greta Cool, interpretata da una Luisa Ranieri corrosiva e disincantata, è emblematico di questa fase della sua vita. Greta, un’attrice in declino, è uno spettro del futuro di Parthenope, una donna che un tempo incarnava ideali di bellezza ma ora si sente minacciata dalla stessa immagine che aveva alimentato per anni. “Napoli è un posto dove la gente si aggrappa a qualsiasi cosa pur di non riconoscere la propria decadenza,” sputa Greta in un momento di amarezza, quasi a voler ammonire Parthenope a non cadere nella trappola della sua stessa iconografia.

Ma Parthenope si distanzia anche da Greta, troppo impegnata a mantenere la sua integrità intellettuale per cedere al cinismo. Questo breve viaggio nel mondo dello spettacolo le offre l’occasione di riflettere sulla propria esistenza e su cosa davvero desideri, ma anche di comprendere che forse nemmeno lei ha il controllo sulla direzione della sua vita. Gli uomini che incontra lungo la strada, dai potenti ai derelitti, sembrano percepirla come un trofeo da conquistare o una musa da idolatrare, ma nessuno la vede davvero per ciò che è, o per ciò che desidererebbe essere.

Il maestro d’antropologia e la lezione del disincanto

Si è detto che uno degli incontri più significativi per Parthenope è quello con Devoto Marotta, il professor di antropologia interpretato da Silvio Orlando. Marotta, in contrasto con gli altri uomini, non è né affascinato né intimidito dalla bellezza di Parthenope, ma vede in lei qualcosa di più profondo, forse persino una sfida. L’insegnante la provoca, le lancia frecciatine, e allo stesso tempo la incoraggia a spingersi oltre il ruolo che il mondo le ha assegnato. “La bellezza è un inganno che non svela nulla,” le dice durante una delle loro sessioni di discussione, come a ricordarle che la sua vera forza risiede nella capacità di interrogarsi e di esplorare.

Questa lezione spinge Parthenope verso un percorso di introspezione che sembra avvicinarla a una verità interiore, anche se rimane sempre lontana da una vera pace. Il regista utilizza il personaggio di Marotta per commentare, in un certo senso, il proprio film, suggerendo che, per quanto sia seducente l’immagine di Parthenope, ciò che conta davvero è il mistero irrisolto che essa rappresenta. Tuttavia, Sorrentino non ci offre alcuna risposta definitiva, e il rapporto tra Marotta e Parthenope si interrompe bruscamente, lasciando in sospeso un potenziale risvolto umano che avrebbe potuto arricchire ulteriormente il personaggio.

Il giudizio della sirena: Parthenope e il Vescovo

Nella sequenza in cui Parthenope incontra il vescovo, interpretato da Peppe Lanzetta, si assiste a un momento in cui la Napoli mitologica si fonde con quella terrena, resa ancora più vibrante dalla presenza fisica e carnale dell’attore. Lanzetta incarna un vescovo che non si limita a rappresentare il sacro, ma diventa quasi un confessore e un giudice dell’anima popolare della città. L’incontro si svolge in un luogo sospeso tra il reale e il simbolico, dove il sacro è imbrattato dal fango e la bellezza della sirena è ormai un eco di disperazione. La scena è di una potenza simbolica rara: Parthenope e il vescovo si guardano, come due anime perdute che, pur vivendo agli antipodi della spiritualità, si comprendono a fondo.

Lanzetta, con la sua voce roca e tagliente, sembra sussurrare alla sirena una verità che solo Napoli conosce: non c’è salvezza senza sofferenza, non c’è redenzione senza macchie. Parthenope appare incredula, quasi colta di sorpresa, come se per la prima volta fosse costretta a fare i conti con un amore per Napoli che, anziché abbandonarsi alla morte, richiede di resistere, di trasformare la sua malinconia in protezione. Il vescovo di Lanzetta non è lì per giudicare né per perdonare, ma per ricordarle che, anche nella perdita e nel dolore, esiste un vincolo che nessuna marea può sciogliere. Questo incontro, poetico e brutale, eleva l’intera narrazione a una dimensione in cui il destino di Napoli è, una volta ancora, tracciato da chi ha sofferto e da chi continua a credere, oltre la tentazione di lasciarsi andare, alla possibilità di una rinascita.

In un colpo di genio registico, la scena termina senza risposte né assoluzioni: Parthenope si allontana, la sua figura sfuma nell’ombra, mentre il vescovo rimane immobile, simbolo della Napoli che resiste, incorruttibile e dolorosamente viva.

Un viaggio di scoperta o di smarrimento?

Man mano che Parthenope avanza, la vita della protagonista diventa sempre più intrisa di eventi enigmatici e incontri simbolici. La scena in cui assiste all’unione di due famiglie della camorra è un esempio di questo: un rituale antico, quasi barbarico, in cui due giovani vengono uniti non solo dal matrimonio, ma anche da un patto di sangue che lega la loro esistenza a un destino ineluttabile. Parthenope osserva, forse per la prima volta, una bellezza che non la riguarda, una bellezza che appartiene al potere e alla violenza. Qui, Napoli non è solo la città del sole e del mare, ma una terra di oscurità, dove la giustapposizione tra bellezza e brutalità è così acuta da risultare disorientante.

Parthenope stessa diventa, in un certo senso, spettatrice della propria vita. È un personaggio che si trova a vagare attraverso le circostanze, attraversando eventi che la lasciano sempre più distante dal mondo, come se fosse solo un’ombra, un riflesso di qualcosa di più grande e misterioso. Napoli si rivela, nelle mani di Sorrentino, un labirinto che non offre alcuna via di uscita, un luogo dove il tempo sembra ripetersi all’infinito, come un eco perpetuo di bellezze e tragedie passate. E in questo senso, Parthenope non può fare altro che abbandonarsi al flusso degli eventi, sempre più alienata, sempre più distaccata.

La bellezza fugace e la malinconia dell’età adulta

Nella parte finale del film, Sorrentino ci presenta Parthenope in una versione più matura, interpretata da Stefania Sandrelli. È qui che il film raggiunge una dimensione di riflessione nostalgica, mostrando una donna che, ora lontana dagli anni della giovinezza, guarda indietro alla propria vita con un misto di rimpianto e rassegnazione. Parthenope non è più la giovane dea venerata dagli uomini, ma una figura malinconica che si confronta con il senso di vuoto che la sua bellezza le ha lasciato. Sandrelli interpreta il personaggio con una delicatezza che aggiunge una nuova profondità alla storia, suggerendo che forse, alla fine, la bellezza non è altro che un momento effimero, una promessa che si dissolve con il passare del tempo.

Il film si conclude con una sequenza che racchiude in sé l’essenza della riflessione di Sorrentino: un gruppo di tifosi celebra la vittoria del Napoli nello scudetto del 2023, e Parthenope li osserva in silenzio, ricordando una città che, come lei, ha visto il meglio e il peggio della propria esistenza. Questo momento finale lascia lo spettatore con una sensazione di disillusione dolceamara, come se il percorso di Parthenope fosse un memento mori, un invito a ricordare che ogni cosa bella è destinata a svanire, e che la vera sfida sta nel trovare il significato in ciò che rimane.

Melodie di Napoli: Il richiamo ancestrale e malinconico della colonna sonora

Le musiche di Parthenope, curate da Lele Marchitelli, evocano la Napoli sospesa tra mito e realtà, intrecciando suoni ancestrali con armonie contemporanee. L’inserimento di canti tradizionali napoletani e antiche melodie greche rievoca il legame millenario della città con il Mediterraneo, una culla di civiltà in cui le sirene ammaliavano i marinai. Ogni tema musicale, con i suoi toni sospesi e a tratti inquieti, accompagna la protagonista in un viaggio emotivo che oscilla tra malinconia e mistero. I motivi dissonanti sottolineano la tensione tra bellezza e decadenza, mentre strumenti come il violoncello e il mandolino, con il loro suono profondo e melodico, accentuano il senso di nostalgia e fragilità che permea la vita di Parthenope. Sul finale, una traccia corale dai toni solenni suggella la narrazione, richiamando l’eco delle sirene e concludendo il film con un’atmosfera di solenne disillusione, un omaggio a una bellezza che è insieme trionfo e condanna.

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Parthenope è un’opera che, più che rispondere a domande, le suscita. È un film che, nel suo linguaggio visivo ipnotico e nelle sue immagini sontuose, trasforma Napoli in un personaggio vivo, affascinante e inafferrabile. Sorrentino ha costruito una storia che è allo stesso tempo una celebrazione e una critica della bellezza, un’indagine sul vuoto che essa può creare, e una riflessione sulla transitorietà della giovinezza e delle illusioni che essa porta con sé.

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* Il mito di Parthenope, avvolto in leggende e mistero, affonda le radici nell’antica Grecia e rivela molto della Napoli classica, ma anche della sua aura perpetua di fascino e malinconia. Parthenope era una delle Sirene, esseri mitologici spesso descritti come metà donna e metà uccello o pesce, a seconda delle versioni. Lei e le sue sorelle, Ligea e Leucosia, possedevano voci incantatrici in grado di sedurre chiunque le ascoltasse. La loro missione era di ammaliare i naviganti e portarli alla rovina; tuttavia, secondo il mito, il destino di Parthenope cambiò quando tentò di sedurre Ulisse.

Omero racconta che Ulisse, grazie ai consigli della maga Circe, si fece legare all’albero della sua nave per resistere al canto ammaliatore delle sirene e ordinò ai suoi compagni di tapparsi le orecchie con cera. Parthenope, respinta e sconfitta dalla sua stessa arte, fu così profondamente colpita dal rifiuto che si lasciò morire, abbandonandosi alle onde. Il suo corpo venne trasportato dal mare fino alle coste dell’attuale Napoli, dove sarebbe rimasto a riposare per sempre. È proprio questo evento che secondo la leggenda diede origine alla città, fondata nel punto in cui giaceva il corpo di Parthenope, simboleggiando una nascita dalla morte e l’incontro tra il mondo greco e quello italico.

La storia di Parthenope, quindi, non si limita a un episodio di malinconia o vendetta, ma sembra riflettere una profonda dimensione spirituale che ancora pervade Napoli. In effetti, per i napoletani, Parthenope è ben più di una figura mitologica: rappresenta la città stessa, l’essenza della sua anima doppia, sospesa tra splendore e decadenza, vitalità e tragedia. Parthenope incarna una bellezza così intensa da rasentare il dolore, e una forza che trasforma la sconfitta in fondazione, la perdita in rinascita.

Ma Parthenope non è solo un simbolo di struggimento amoroso: il suo mito rappresenta anche l’ineluttabilità del destino e l’incapacità dell’uomo di resistere al fascino dell’ignoto e del pericolo. In questo senso, il mito della sirena napoletana ha affinità con figure della tragedia greca, dove la bellezza si accompagna alla rovina, e il desiderio di esplorare ciò che è proibito porta inevitabilmente alla perdita. Napoli, fondata da una sirena caduta e disillusa, riflette questa consapevolezza dell’amore che, più che essere un dono, è una condanna, un destino inevitabile di cui i suoi cittadini sono eredi consapevoli.

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