“No Other Land”: un Oscar che non si può ignorare

Hollywood si è presa il lusso di dire la verità. Il che, di questi tempi, è già una notizia. No Other Land, il documentario che racconta la lotta dei palestinesi contro la demolizione delle loro case da parte dell’esercito israeliano, ha vinto l’Oscar.

di Alberto Piroddi

Hollywood si è presa il lusso di dire la verità. Il che, di questi tempi, è già una notizia. No Other Land, il documentario che racconta la lotta dei palestinesi contro la demolizione delle loro case da parte dell’esercito israeliano, ha vinto l’Oscar. Un premio che pesa come un macigno in un mondo in cui i governi occidentali fingono di non vedere e si ostinano a negare l’evidenza di un’occupazione militare che dura da decenni.

E così, mentre i media mainstream continuano a raccontare la solita favoletta della “democrazia israeliana sotto assedio” e della “complessità del conflitto”, il film diretto da Basel Adra e Yuval Abraham fa l’unica cosa che nessuno sembra voler fare: mostra i fatti. Con le immagini, senza retorica. E i fatti sono che in Cisgiordania l’esercito israeliano rade al suolo interi villaggi palestinesi per far posto ai suoi campi di addestramento. Che la vita di tre milioni di persone è schiacciata da un’occupazione militare che nega diritti, terra e futuro. Che le forze armate israeliane non solo abbattono le case, ma distruggono anche i pozzi d’acqua per impedire alla gente di ricostruire.

Quando Basel Adra è salito sul palco degli Oscar, non ha usato mezzi termini. “Circa due mesi fa sono diventato padre, e la mia speranza per mia figlia è che non debba vivere la stessa vita che sto vivendo io ora, sempre con la paura dei coloni, della violenza, delle demolizioni di case e degli sgomberi forzati che la mia comunità subisce ogni giorno sotto l’occupazione israeliana.”

Non un discorso di circostanza, non la solita parata di ringraziamenti. Ma un’accusa precisa, diretta, incontestabile. “Il mondo deve agire seriamente per fermare l’ingiustizia e per fermare la pulizia etnica del popolo palestinese.”

Si chiama apartheid, e lo hanno detto tutti: Amnesty International, Human Rights Watch, perfino il relatore speciale dell’ONU per i diritti umani. L’unico che continua a negarlo è il governo israeliano, che per difendere l’indifendibile ha bisogno della complicità dell’Occidente.

A prendere la parola è stato poi Yuval Abraham, il giornalista ebreo-israeliano che ha co-diretto il documentario. E ha detto quello che nessun governo occidentale ha il coraggio di ammettere: “Vediamo l’un l’altro. L’atroce distruzione di Gaza e del suo popolo deve finire. Gli ostaggi israeliani, brutalmente rapiti nel crimine del 7 ottobre, devono essere liberati.”

Parole che non si sentono quasi mai nei dibattiti ufficiali, perché in Occidente ci si ostina a raccontare la guerra in modo binario: o con Israele o contro Israele. O sostieni il governo di Tel Aviv in tutto e per tutto, oppure sei un estremista filo-terrorista.

Abraham ha demolito questa ipocrisia con una frase sola: “Non vedete che siamo intrecciati? Il mio popolo potrà essere veramente al sicuro solo se il popolo di Basel sarà veramente libero e sicuro.”

E ha puntato il dito sulla responsabilità politica di chi questa guerra la mantiene in vita: “C’è un’altra strada. Non è troppo tardi per la vita, per chi è ancora in vita.”

Ma c’è qualcuno che vuole davvero trovarla?

Durante il suo discorso, Abraham ha denunciato quello che in pochi osano dire: “La politica estera degli Stati Uniti sta bloccando questo percorso.”

E non serve nemmeno spiegare come. È sotto gli occhi di tutti. Gli stessi Stati Uniti che piangono lacrime di coccodrillo sulle vittime di questa guerra continuano a finanziare con miliardi di dollari l’apparato militare israeliano. Gli stessi che parlano di “soluzione a due stati” fanno finta di non vedere che in Cisgiordania si costruiscono insediamenti illegali ogni giorno, rendendo impossibile qualsiasi ipotesi di Stato palestinese. Gli stessi che condannano l’uso eccessivo della forza in Ucraina, poi si voltano dall’altra parte quando l’esercito israeliano bombarda scuole e ospedali a Gaza.

La verità è che per l’Occidente la Palestina è diventata una causa scomoda, da silenziare. No Other Land ha faticato persino a trovare una distribuzione negli Stati Uniti. I suoi produttori hanno dovuto organizzare una proiezione lampo al Lincoln Center solo per qualificarsi agli Oscar. E ora che ha vinto, c’è da scommettere che molti giornali cercheranno di ridimensionarlo o di ignorarlo del tutto.

L’Academy Awards, tra i suoi tanti difetti, ha un pregio: quando assegna un Oscar, il mondo intero se ne accorge. E così oggi milioni di persone scopriranno l’esistenza di un documentario che racconta una verità scomoda.

Non sarà un film a cambiare la storia, ovviamente. Ma in un’epoca in cui i governi occidentali si affannano a censurare, sminuire o distorcere tutto ciò che riguarda la Palestina, anche un Oscar può fare la differenza. Può costringere qualcuno a guardare, a informarsi, a farsi domande.

E chissà, magari un giorno anche i nostri politici, tra un comunicato sulla difesa di Israele e l’altro, troveranno il coraggio di ammettere quello che No Other Land mostra senza filtri: che c’è un popolo a cui stanno togliendo tutto, perfino il diritto di esistere sulla propria terra. E che questo crimine non si può più nascondere.

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