Luchino Visconti: Morte a Venezia

1911. Reduce da un periodo di crisi, il contegnoso musicista Gustav von Aschenbach approda al Lido di Venezia per una solitaria vacanza. Tra gli ospiti dell’Hotel des Bains, attira la sua attenzione un bellissimo adolescente, Tadzio.

Nonostante il successo di La caduta degli dei, Visconti trova difficoltà a realizzare il nuovo progetto: un film da La morte a Venezia di Thomas Mann. È un’idea che accarezzava da tempo e da tempo rinviava, riserbandola per gli anni della maturità. Ora quell’età è giunta, e la crisi dell’incipiente vecchiaia, descritta nel racconto, gli si è fatta familiare e pressante. Ma nessuno in Italia è disposto a rischiare denaro su una storia «che tratta di un caso di pederastia in un artista senescente». Assieme al produttore Mario Gallo, Visconti si reca allora a Hollywood, aperta in quegli anni all’apporto di nuove idee, e ottiene l’appoggio della Warner Bros. Perlustra a lungo l’Europa orientale e i paesi scandinavi per trovare il ragazzo cui affidare il ruolo dell’efebo e lascia una testimonianza di questa ricerca nello special televisivo Alla ricerca di Tadzio. Finalmente, nella primavera del ’70, può iniziare le riprese. Curiosamente, il titolo della novella perde l’articolo nella versione cinematografica: diventa Morte a Venezia.

1911. Reduce da un periodo di crisi, il contegnoso musicista Gustav von Aschenbach (Dirk Bogarde) approda al Lido di Venezia per una solitaria vacanza. Tra gli ospiti dell’Hotel des Bains, attira la sua attenzione una famiglia polacca, di cui fa parte un bellissimo adolescente, Tadzio (Bjorn Andersen). Il professore comincia a seguirlo con lo sguardo, nell’albergo e sulla spiaggia, e ne è ambiguamente ricambiato. Turbato da questa passione e oppresso dal clima sciroccoso, Aschenbach si risolve a partire. Ma appena un contrattempo per la spedizione del bagaglio gliene offre il pretesto, torna al Lido e al suo segreto gioco di sguardi e di inseguimenti. Questi lo conducono a Venezia, le cui calli rivelano gli inquietanti segni di un’epidemia. Vincendo la generale cortina di omerté, Aschenbach apprende che la citté è in preda a una pestilenza. Si propone di avvertire del pericolo i polacchi; ma poi, pur di rivedere l’amato, resta e tace. Malato, e truccato come un grottesco zerbinotto per mascherare i segni dell’eté, segue l’ultima volta Tadzio sulla spiaggia. Mentre l’efebo sembra indicargli un indistinto punto all’orizzonte, Aschenbach muore: il trucco disciolto sul viso, come una maschera.

Thomas Mann ha fatto dell’avventura veneziana del professor Gustav von Aschenbach una straordinaria metafora poetica, psicologica e storica. Ha contraddetto la pretesa idealistica di poter sottrarre la bellezza alla sfera dei sensi; ha descritto il fallimento dell’illusione borghese di poter rimuovere le pulsioni istintive; ha prefigurato, nel morbo che si diffonde nella comunità cosmopolita dell’Hotel des Bains, i sintomi imminenti del primo conflitto mondiale. La morte a Venezia è un apologo venato di sottili suggestioni autobiografiche. Narratore del crollo degli ideali borghesi, Mann si sforzò tutta la vita di adeguare se stesso a una austera e decorosa immagine di rispettabilità. Se fu, secondo la sua stessa definizione, «cronista e interprete della decadenza, amante del patologico e della morte, un esteta cupido di abisso», le sue scelte stilistiche ed esistenziali appaiono l’opposto delle esibizioni e dei virtuosismi decadenti. Piuttosto che nei compiaciuti vizi degli esteti, egli ha riconosciuto l’“abisso” nella falsa coscienza delle virtù borghesi. Nella segreta passione di Aschenbach, ha smascherato il suo stesso attaccamento alla rispettabilità, al contegno, al controllo delle passioni. La forza della sua critica al “retaggio borghese” consiste nell’averla testimoniata consapevolmente dal suo interno.

Visconti ha sempre riconosciuto nello scrittore alcune delle sue stesse contraddizioni: quel suo essere decadente e realista, borghese e narratore della crisi dei valori borghesi: «Mi ha sempre attirato il tema del dissidio che può intercorrere tra un artista con le sue aspirazioni estetiche e la vita, tra il suo essere apparentemente sopra la storia e il suo partecipare alla condizione “storica” borghese» (L. Visconti, Morte a Venezia, Bologna 1971, p. 111). Aveva incontrato Thomas Mann tre volte e pare avesse ottenuto da lui alcune testimonianze personali sull’ambiente descritto nel racconto. Ma ora che si accinge finalmente a girarla, la storia gli si presenta soprattutto carica di memorie e reminiscenze familiari.

Quello descritto nel racconto è un ambiente di cui il regista ha un ricordo diretto. Se Mann soggiornava al Lido nel 1911 e vi concepiva l’ispirazione del racconto, il piccolo Luchino vi trascorreva le vacanze con la madre negli anni immediatamente seguenti. Nella madre di Tadzio, con i suoi grandi cappelli, gli abiti da spiaggia in lino bianco ricamato, l’espressione insieme dolce e altera, rievoca l’immagine di sua madre. La società europea alla vigilia della guerra è quella della sua infanzia. «Sono nato nel 1906 e il mondo che mi ha circondato, il mondo artistico, letterario, musicale, è quel mondo li. Non è un caso che mi ci senta attaccato… Probabilmente ho anche dei ricordi visivi, figurativi, una specie di memoria involontaria che mi aiuta a ricostruire l’atmosfera di quell’epoca» (ne «Il Mondo», 14 marzo 1971). Infatti, le immagini di Morte a Venezia costituiscono una delle più belle ricostruzioni d’ambiente di Visconti. Quella che per Thomas Mann era la descrizione del presente e l’intuizione del futuro, diventa per lui la rievocazione del passato.

Per il regista, il flusso del tempo che trascina Aschenbach verso la morte è lo stesso che scorre lungo le pagine della Recherche. Il monumentale romanzo di Proust avrebbe dovuto essere il suo prossimo film, con il quale coronare e concludere la carriera: e, in una prima versione, la sceneggiatura realizzata con Suso Cecchi d’Amico cominciava proprio con il soggiorno nella città lagunare del protagonista e di sua madre. Con Morte a Venezia, la Recherche di Visconti avrebbe dovuto condividere il tema della passione omosessuale. La sua rilettura del capolavoro proustiano, come osserva Giovanni Raboni nell’introduzione alla sceneggiatura definitiva (Mondadori, Milano, 1986), correva tutta lungo questo filo: «(Visconti) ha avuto il coraggio di leggere tutta la Recherche (che pure, ne siamo certi, conosceva e amava profondamente in ogni sua parte) attraverso Sodoma e Gomorra; di cercare e mettere allo scoperto, in tutta la Recherche, le radici, i tentacoli di Sodoma e Gomorra; di eleggere Charlus a protagonista assoluto, a vittima trionfante e dispotica dell’intera narrazione; di fare dell’omosessualità, dell’amore omosessuale, del desiderio omosessuale, della gelosia omosessuale, l’unico, formidabile motore che fa girare e accendersi di luci volta a volta esaltanti e sinistre l’immenso planetario della Recherche…».

In Morte a Venezia si avvertono anche echi minori del progetto proustiano: nel direttore dell’Hotel des Bains di Visconti, per esempio, c’è il direttore di Balbec di Proust. Ma, soprattutto, si respira la stessa atmosfera storica: quel 1911 in cui si svolge la vicenda è infatti l’anno in cui vennero scritte le prime pagine della Recherche. È un’epoca che Visconti vorrebbe vedere con consapevolezza critica; ma la guarda soprattutto con rimpianto: «La società europea fino alla prima guerra mondiale è stata quella dei più grandi contrasti e dei maggiori risultati estetici. Il mondo contemporaneo invece è cosi livellato, cosi grigio, cosi poco estetico… » (ne «Il Mondo» cit.).

In Morte a Venezia egli sottolinea il senso del passato. Inserisce una serie di flashback ignoti al racconto: l’incontro con la giovane prostituta Esmeralda, che riprende il tema della “contaminazione” da un episodio del Doctor Faustus (e dall’allusione alla biografia di Nietzsche in esso contenuta); le scene che rievocano la perduta felicità familiare; i dialoghi tra Aschenbach e Alfred (anch’essi ripresi da vari scritti di Mann), che fungono da verbalizzazioni dei conflitti interiori del protagonista. Ma la più importante trasformazione operata da Visconti è quella di Aschenbach: da scrittore in musicista. Lo stesso Mann, profondamente turbato dalla morte di Gustav Mahler, avvenuta durante il suo soggiorno a Venezia, diede al suo personaggio il nome e la fisionomia del compositore, pur ponendo attenzione affinché le allusioni non diventassero esplicite. Visconti trova nella musica di Mahler il commento ideale alla vicenda; nella sua biografia lo spunto per l’episodio della morte della figlia; nelle sue sinfonie il corrispettivo degli scritti di Aschenbach. «Quella pagina e mezza di prosa altissima, la cui purezza e nobiltà e vibrante energia doveva suscitare di li a poco l’ammirazione universale», con cui Mann allude – non senza ironia – a uno scritto veneziano di Aschenbach, diventa nel film il Quarto Tempo della Terza Sinfonia. Contemplando Tadzio, Aschenbach prende ad appuntare dei fogli pentagrammati; e i versi di Nietzsche, contenuti nella sinfonia mahleriana, emergono dalla colonna sonora con il loro significato premonitore: «Sta’ attento, uomo!/Sta’ attento, uomo!/Che dice la fonda mezzanotte?/Dormivo, dormivo!/Da un profondo sogno mi son destato:/il mondo è profondo,/più profondo di quanto pensò il giorno./Uomo, profondo è il suo dolore,/la voluttà più profonda della sofferenza!/Dice il dolore: vattene!/Ma ogni gioia vuole eternità,/vuole profonda, profonda eternità!» (trad. di Ugo Duse).

L’«Adagetto» della Quinta Sinfonia ricorre invece in tutti i momenti salienti del film: l’arrivo di Aschenbach in una Venezia plumbea e crepuscolare; la sua mancata partenza e il suo improvviso ritorno; le memorie della vita familiare; il ricorso al trucco e il crollo nel fetido campiello; la morte sulla spiaggia, con la maschera disfatta. Visconti utilizza l’«Adagetto» come un vero e proprio leitmotiv, la cui insistenza suggerisce il senso di un inevitabile destino, grottesco e patetico. Cosi è, per esempio, nella scena della partenza: un corrispondere tra immagini e musica che esprime quell’essere «deviato e risospinto indietro dal destino», di cui scrive Mann. La musica inizia sul silenzioso commiato da Tadzio; accompagna Aschenbach che – imbronciato e goffo, le mani composte sul bastone da passeggio, inquadrato dal basso contro il cielo lattiginoso e la prospettiva ottusa dei vecchi palazzi – abbandona in motoscafo la città. Poi la musica si interrompe, per lasciare posto al clamore anonimo della stazione. Quindi riprende, insinuante, sulla decisione di Aschenbach di rientrare. Lo accompagna con irruente baldanza nel viaggio di ritorno, in cui egli tradisce la sua segreta soddisfazione: le braccia allargate, inquadrato dall’alto contro la superficie lucente della laguna. E si spegne lentamente sulla nuova apparizione dell’amato.

Del resto, l’intero racconto è stato concepito, come dice Mann, secondo «un complesso musicale di rapporti». E Visconti è, come sempre, sensibilissimo a questa musicalità. La ritroviamo nei dialoghi: i sinistri borbottii del gondoliere, l’intrecciarsi delle diverse lingue nell’albergo e sulla spiaggia, l’idioma misterioso di Tadzio, i versi dei venditori ambulanti. La percepiamo nei tempi, ritmati in armonia con la vicenda interiore del protagonista. Un continuo intreccio di zoomate e panoramiche scandisce il fluire del tempo. Quale presagio di morte, esso si arresta improvvisamente nel finale, quando, come cullato dalla nenia di Musorgskij, Aschenbach entra per l’ultima volta nella spiaggia semideserta ripreso in campo lunghissimo con una lenta, lugubre panoramica.

Musicale è lo stesso gioco di sguardi tra Aschenbach e Tadzio. Visconti esprime tutta l’ambiguità del loro incontro, intrecciando la descrizione oggettiva dell’ambiente alla sua percezione da parte del protagonista. Mentre l’orchestra suona musica operettistica, Aschenbach entra nel salone dell’hotel. Una lunga panoramica lo segue mentre si aggira alla ricerca di un posto, tra i grandi bouquet di fiori, i paralumi colorati, gli ospiti in frac. Siede e si guarda intorno, distrattamente. La macchina da presa inquadra, in soggettiva, la famiglia polacca e, in ultimo, Tadzio. Aschenbach lo osserva. Una nuova panoramica collega l’efebo al professore, percorrendo ancora tutto lo spazio del salone. Visconti ritrae poi l’orchestra, Aschenbach, il direttore dell’hotel che si aggira fra i clienti. Quindi, un radioso primo piano di Tadzio, che sembra ancora una soggettiva di Aschenbach, si allarga indietro fino a comprendere invece, per la prima volta nella stessa inquadratura, l’osservatore e l’osservato. Sono cosi graduati con estrema sensibilità i tempi dell’incontro, l’ambiguità dello spazio che collega i protagonisti, la presenza del gruppo sociale riunito nella hall.

Anche nella scena dei musici ambulanti, Visconti sviluppa le indicazioni musicali contenute nel racconto. La canzone popolare La risata restituisce quel riso sinistro con il quale Mann ha rappresentato l’irriverente irruenza delle pulsioni istintive sulle resistenze di Aschenbach; quel sentimento insinuante dell’intrigo e del raggiro in cui egli si lascia irretire con segreta complicità; la minaccia che incombe sull’universo borghese dell’hotel. E aggiunge il contrasto tra la “sceneggiata” oscena e vivace dei guitti e la musica colta e ambigua del protagonista.

Ma grande assente nel film di Visconti è l’ironia manniana. Il regista ha esaltato, a contrasto con quelli lirici, i momenti grotteschi: il compunto manager dell’hotel diventa un untuoso imbonitore; i timidi spunti autocritici di Aschenbach («solo di tanto in tanto saetta uno sguardo obliquo, ironico e perplesso, e subito lo nasconde»), si trasformano in una tragica risata mentre si affloscia come una marionetta nel campiello ammorbato dai rifiuti; la truccatura e la morte diventano assai più enfatici che nel racconto. E ciò è ben diverso dall’ironia di Thomas Mann, che è una qualità dello stile e una dichiarazione di poetica. La morte a Venezia contiene, a poca distanza l’una dall’altra, due pagine apparentemente antitetiche per tono e stile: la prima è il brano sfrenatamente visionario e kitsch del baccanale fallico, che costituisce l’incubo di Aschenbach, la seconda è una pagina di sapore anticheggiante, il dialogo tra Socrate e Fedro sull’ambiguità della bellezza. Esse rappresentano i due poli dell’avventura di Aschenbach, contrapposti ma sostanzialmente omologhi: il delirio decadente e il mito classicistico. Da entrambi Mann si è posto a distanza critica: con una prosa parodisticamente aulica e dottorale, pratica una sorta di mimetismo, che gli consente di oggettivare i contraddittori elementi della sua ispirazione. Recuperando in questo la più valida eredità culturale del decadentismo, lo scrittore ha espresso attraverso la sintesi di lirica e di ironia la propria testimonianza critica nei confronti delle tensioni culturali del suo tempo.

È significativo che Visconti abbia soppresso queste due pagine del racconto, dopo aver pensato inizialmente di ambientare la prima in un moderno locale notturno di Monaco, e di risolvere la seconda come commento fuori campo all’allontanarsi di Tadzio nel mare. La sua dialettica è infatti diversa da quella manniana. Il suo gusto inclina al melodramma, non all’ironia. Se rivive in lui il dissidio tra la passione emotiva e la ragione intellettuale, tra il rifiuto ideologico del passato e il suo recupero sentimentale, egli lo esprime in termini lirici, non critici. Fa del racconto un grande melodramma della decadenza. Nella Venezia di Thomas Mann intravede quella di d’Annunzio, dove «non si può sentire se non per modi musicali, come non si può pensare se non per immagini». E in Aschenbach, uno di quegli esteti di cui parla Stelio Effrena in Il fuoco «che celano qualche piaga inconfessabile (…) che effemminò un morbido amore, e che non cercano il silenzio se non per sentirsi perire».

Visconti ha insomma restituito con straordinaria sensibilità le suggestioni visive e musicali della novella manniana; ma modificandone l’equilibrio e limitandone il senso. Sfuggono in parte l’ironia, il senso storico, la dicotomia tra artista-interprete ed esteta-vittima del decadentismo, presente in Aschenbach. È tuttavia significativo che questi ultimi temi si sviluppino nei due film tra cui è situato Morte a Venezia: quello storico in La caduta degli dei e quello estetico in Ludwig. Il nazista che si compiace di citazioni erudite in La caduta degli dei, portava infatti il nome di Aschenbach, di cui concludeva simbolicamente la corsa verso l’“abisso”; mentre il rapporto tra Wagner e Ludwig scinderà quei due elementi (il conformismo borghese e l’eccentricità decadente; l’artista e l’esteta) che Visconti ha sovrapposto in Aschenbach-Mahler. Quasi che egli abbia inteso chiarire e approfondire il proprio discorso sulla cultura tedesca, all’interno di una vera e propria trilogia.

In La perdizione (Mahler, 1976), Ken Russell cita con ironia Morte a Venezia: nella scena in cui Mahler intravede dal treno un signore biancovestito che sorride maliziosamente a un vezzoso adolescente (versione parodistica di Aschenbach-Bogarde e di Tadzio-Andersen), e si figura sorridendo le note della propria musica. A differenza di Visconti, Ken Russell concilia il kitsch dichiarato e l’ironia. Non a caso, la scena con Cosima Wagner in veste di valchiria attinge a una grottesca esasperazione onirica, che ricorda l’incubo di Aschenbach nella novella. La predilezione per il grottesco funge in Russell da elemento critico nei confronti dell’estetismo e dei miti romantici. Anziché celebrare la crisi individualistica del suo Mahler, preferisce seguire le conseguenze dell’esplosione del “genio” nei personaggi che lo hanno circondato: la moglie, costretta a soffocare la propria personalità per proteggere la solitaria grandezza del marito; il compositore rivale Hugo Wolf, trascinato dall’impari confronto alla follia; il fratello omosessuale, che sconta la propria diversità con il suicidio.

Da parte sua, Liliana Cavani ha ripreso alcune suggestioni di Morte a Venezia nel suo Al di là del bene e del male (1977): in particolare nell’episodio del bordello, che già conteneva in Visconti una indiretta citazione nietzschiana. Ma anche qui, il senso della scena cambia di segno. Attraverso la dimensione privata e sessuale di Nietzsche, la Cavani ha voluto restituire i tratti rivoluzionari del suo pensiero: il gusto ironico e aforistico; il rifiuto del moralismo, delle convenzioni sociali, della cultura accademica, della filosofia idealistica, dell’antisemitismo e del nazionalismo; la ricerca di una libertà posta oltre la morale: al di là, appunto, del bene e del male. Anche la sifilide diventa allora un cosciente atto di rivolta, una accettazione «indecorosa ma violentemente umana» del mondo reale: e dunque l’opposto del terrore della “contaminazione”, fatale ad Aschenbach.

Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, Il Castoro Cinema, 1994

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