Io sono ancora qui di Walter Salles è il tipo di film che ti lascia senza fiato, non con virtuosismi grandiosi o sentimentalismi forzati, ma con una forza silenziosa e implacabile. Ti si insinua sotto la pelle, non attraverso ostentate manifestazioni di sofferenza, ma nei dettagli: l’assenza che aleggia in una casa quando un padre viene portato via, i pasti consumati in silenzio, il modo in cui Eunice, interpretata da Fernanda Torres, serra la mascella mentre lotta per tenere insieme la sua famiglia. È un film sulla resistenza, ma non nel senso cinematografico abituale di trionfo sulle avversità. Non c’è catarsi, non c’è giustizia riparatrice, solo la dolorosa determinazione di una donna che va avanti in un mondo che si rifiuta di riconoscere il suo dolore.
Salles, noto soprattutto per Central do Brasil e I diari della motocicletta, non è mai stato un regista appariscente. Non gli interessano le tragedie ovvie o lo spettacolo della sofferenza. Piuttosto, si concentra sui momenti che definiscono un’esistenza: il modo in cui una madre protegge i suoi figli dalla verità, il dolore silenzioso di aprire una lettera che non dice nulla, l’inferno burocratico di cercare una risposta che tutti conoscono ma che nessuno vuole mettere per iscritto. Io sono ancora qui è, in molti sensi, un esercizio di sottrazione, ed è proprio per questo che colpisce così profondamente.
Ambientato sullo sfondo della dittatura militare brasiliana dei primi anni ’70, il film segue la scomparsa di Rubens Paiva (Selton Mello), un deputato di sinistra sequestrato dal regime. Ma questa non è la sua storia. È quella di Eunice, interpretata con una straordinaria finezza da Fernanda Torres, che regge il film con una performance allo stesso tempo controllata e devastante. Eunice non si dispera gridando né si getta ai piedi degli uomini in divisa—non può permetterselo. Affronta il lutto nell’unico modo possibile: restando in piedi per i suoi figli, inghiottendo il dolore fino a farlo diventare parte di sé. Comprende qualcosa che tanti film politici carichi di retorica non afferrano: il dolore non è sempre fragoroso. A volte è solo il gesto di apparecchiare la tavola per qualcuno che non tornerà mai più.
Torres offre un’interpretazione così meticolosa da non sembrare nemmeno recitazione. Non interpreta una martire e non chiede compassione. Semplicemente esiste, permettendoci di assistere a un tipo di forza che il cinema spesso ignora: la resistenza della gente comune costretta a sopravvivere a una crudeltà straordinaria. Il peso del film si riflette nei suoi occhi, nel modo in cui si muove, nella cura con cui parla ai figli, proteggendoli dagli orrori di un mondo che ha già tolto loro troppo. Non c’è un crollo emotivo costruito per gli Oscar, perché Eunice non è quel tipo di persona. Il suo dolore traspare nei dettagli più sottili: un attimo di esitazione, un impercettibile tremolio nella voce. È una di quelle interpretazioni che ricordano cosa significhi recitare alla grande senza cercare di farsi notare.
Selton Mello, pur con poco tempo sullo schermo, è altrettanto straordinario. Il suo Rubens non è un eroe da proclami, ma un uomo consapevole di vivere a tempo scaduto. C’è una dolcezza struggente nei suoi momenti con i figli, una silenziosa consapevolezza che potrebbero essere gli ultimi. Quando viene portato via, non c’è un ultimo atto di eroismo, nessuna sfida plateale. Scompare così come sono scomparsi in tanti durante la dittatura—rapidamente, senza spiegazioni, lasciando dietro di sé solo un’assenza che permea ogni fotogramma del film. Salles sa che il vero orrore dei regimi autoritari non sta solo nella violenza, ma nel silenzio che segue. Nella vita che deve continuare senza risposte, nelle famiglie costrette a riorganizzarsi intorno a un vuoto, nei fantasmi del passato che si annidano in ogni ombra.
Il film è visivamente straordinario, ma senza mai cercare di attirare l’attenzione su di sé. Il direttore della fotografia Adrian Teijido trasforma la casa dei Paiva in un luogo di intimità opprimente, allo stesso tempo rifugio e prigione. I toni caldi e nostalgici dell’inizio si spostano gradualmente verso sfumature più fredde e spente, riflettendo il progressivo restringersi del mondo di Eunice. Non ci sono virtuosismi estetici fine a sé stessi, nessuna scelta stilistica autoreferenziale. Ogni inquadratura è funzionale alla narrazione, che sia la tensione asfissiante di una cena in famiglia o il vuoto sconfinato di una spiaggia dove i bambini giocavano con il padre. La fotografia non serve a stupire, ma a immergere lo spettatore nella devastazione silenziosa di questa famiglia.
La regia di Salles è priva di sentimentalismi. Non enfatizza la tragedia, non guida lo spettatore su quando commuoversi. Si fida della storia e dei suoi attori. Dove un altro regista avrebbe inserito un crescendo musicale o un confronto drammatico, Salles si trattiene. Lascia che la storia respiri, che i silenzi parlino, che il dolore si depositi nelle ossa di chi guarda. Comprende che la vera tristezza non ha bisogno di essere ostentata—basta sentirla.
E poi, naturalmente, c’è Fernanda Montenegro. Compare solo nell’ultimo tratto del film, nei panni di Eunice anziana, ma in poche scene lascia un segno indelebile. Montenegro ha la straordinaria capacità di raccontare intere vite con uno sguardo. La sua Eunice non è solo invecchiata nel corpo, ma nell’anima. Il suo fisico porta il peso di decenni di dolore, la sua mente combatte contro l’erosione della memoria. C’è una scena—senza anticipare nulla—dove non fa altro che sedere in silenzio, fissando qualcosa che noi non possiamo vedere, ed è uno dei momenti più struggenti e potenti del film.
Io sono ancora qui non offre soluzioni facili né grandi dichiarazioni sulla Storia. Non cerca di impartire lezioni morali o di chiudere il cerchio con una sintesi rassicurante. Piuttosto, rimane lì, insistente, impossibile da dimenticare, proprio come le storie reali da cui trae ispirazione. Alcuni troveranno il suo ritmo troppo lento, sentiranno la mancanza di picchi emotivi, desidereranno una struttura più convenzionale. Ma I’m Still Here non vuole essere un film convenzionale. È un film sulla memoria, sull’assenza, sulla verità che rifiuta di essere cancellata.
È, soprattutto, un film sulla resilienza. Non quella epica e trionfante tipica di Hollywood, ma quella silenziosa e ostinata: la resilienza delle donne che continuano perché non hanno altra scelta, dei bambini che imparano a convivere con domande senza risposta, di un Paese che fatica a riconciliarsi con il proprio passato mentre tenta di guardare avanti. Salles ha realizzato un film che non si limita a raccontare la Storia, ma la fa rivivere, obbligandoci a farci i conti, a riconoscerla, a sentirla.